Enrico Franceschini, la Repubblica 3/11/2014, 3 novembre 2014
I FAVOLOSI ANNI SESSANTA DI NICK HORNBY, CHE NEL SUO NUOVO ROMANZO FUNNY GIRL RICORDA LA RIVOLUZIONE DELLA TV, DEL ROCK E DEL CALCIO. «PASSAVAMO LE SERATE DAVANTI A UN TELEVISORE. ERA UNA CULTURA UNIFICANTE. VINCERE IL NOBEL? PREFERIREI L’OSCAR»
[Intervista] –
I lettori sopra i quarant’anni dovrebbero fare un esercizio di memoria, e quelli sotto i quarant’anni un esercizio di immaginazione, prima di leggere il nuovo libro di Nick Hornby: pensare a un tempo lontano ma in fondo non poi così tanto in cui la gente si riuniva la sera attorno a una fonte di luce e calore per ascoltare storie che il giorno dopo venivano ripetute, condivise, commentate, praticamente dall’intera nazione.
Succedeva da noi come in Inghilterra negli anni Sessanta e la fonte luminosa che agiva da calamita dell’attenzione nazionale era la televisione, all’epoca in cui esistevano soltanto un paio di canali e passare le serate a guardarli era qualcosa di nuovo, moderno, eccitante, più o meno come stare adesso sui social network.
In Funny Girl (che in Italia esce il 20 per Guanda), suo ritorno alla narrativa dopo cinque anni trascorsi a scrivere sceneggiature, il più popolare scrittore inglese della sua generazione si sintonizza appunto sul tubo catodico e sulla cultura popolare di massa che ne fuoriusciva: un viaggio nostalgico nel nostro recente passato, con per protagonista la “buffa ragazza” del titolo, per intendersi un incrocio tra una Franca Rame e una Franca Valeri anglosassoni, affascinante ex-miss Blackpool che però sogna di far ridere nei panni di attrice comica e ci riesce, diventando il centro attorno a cui ruota un serial destinato ad avere successo praticamente fino ai giorni nostri.
L’autore di Febbre a ’90, Alta fedeltà e tanti altri best-seller internazionali stavolta ha scritto un esilarante romanzo su gioventù e invecchiamento, fama e fame, classismo e lavoro di squadra, ma soprattutto su quella stagione di meravigliosa creatività ed esuberanza che nel nostro paese eravamo soliti chiamare “i favolosi anni Sessanta”. Tirando boccate da una sigaretta elettronica, nel suo studio di Islington, a due passi da dove sorgeva Highbury, mitico stadio dell’Arsenal, oggi trasformato in un condominio di lusso, Hornby sorride a sentire l’espressione italiana.
Si diceva qualcosa di simile anche da voi?
«Be’ da noi si parlava di Swinging London, ma l’epoca era la stessa. Gli anni Sessanta sono rimasti effettivamente nell’immaginario collettivo come un mito. Dalla musica alla poesia, dalla letteratura al cinema, dalla politica all’amore, hanno creato uno spartiacque, è l’era in cui comincia in un certo senso la modernità. E la televisione ne è stata il faro, perché era la cosa nuova, ancora più del rock. La gente è sempre andata a ballare e ad ascoltare altri che suonano, ma per la prima volta nella storia famiglie ed amici si riunivano la sera attorno a un falò elettronico per seguire i racconti che ne uscivano».
Dovendo raccontarlo a un giovane odierno, si può paragonare l’effetto dirompente della tivù a quello scatenato oggi dal web?
«Sì, ma con una importante differenza. Davanti al web ci andiamo ognuno per conto proprio, magari chattando e comunicando con decine, centinaia, anche migliaia di amici, ma fisicamente soli. La tivù degli anni Sessanta, la tivù con uno o due canali in bianco e nero, veniva fruita collettivamente».
Lei cosa ricorda dei suoi anni Sessanta?
«Ero bambino e poi, verso la fine del decennio, ragazzino. Ma ho ricordi precisi, che sono sicuramente simili a quelli di tanti della mia generazione. Ricordo i Beatles. Ricordo il primo mangiadischi per ascoltare le canzoni di questi quattro ragazzotti di Liverpool con i capelli a caschetto. Ricordo che si andava al cinema a vedere film western. Ricordo la finale dei Mondiali di calcio a Wembley nel ’66, quelli vinti, per la prima e finora ahimè unica volta, dall’Inghilterra. E ricordo appunto la tivù, le serate a guardare la televisione insieme alla mia famiglia».
Nel suo libro si avverte una sorta di rimpianto per la cultura popolare di allora: era migliore, a suo parere, di quella di adesso?
«Era una cultura unificante, perché appunto non c’era altra scelta che guardare il primo o al massimo, quando arrivò, il secondo canale, e poiché era una novità li guardavano tutti. Oggi non mi pare che si possa più distinguere tra cultura popolare e cultura non-popolare. I confini tra cultura cosiddetta ‘alta’ e ‘bassa’, di massa, sono saltati. La serie televisiva “True Detective” e l’ultimo romanzo di Ian McEwan vengono trattati allo stesso modo».
È un bene o un male?
«Per me è un bene, perché io non amo la cultura intenzionalmente astrusa, compli-cata, difficile. Il mio intento, quando scrivo, è farmi capire da tutti, se possibile. Anche per questo non mi piace la prosa elaborata, anzi cerco di scrivere in modo che non attiri l’attenzione sulla prosa, bensì sulla storia. Questione di gusti, naturalmente, non dico che sia questo l’unico modo giusto per scrivere».
Ma tra Dickens e Joyce, per fare un esempio, lei preferisce il primo?
«Indubbiamente».
Quale è il messaggio di Sophie Straw, la “Funny girl” del titolo?
«Non penso di scrivere romanzi con la chiara intenzione di inviare un messaggio. Sophie mi è stata ispirata da Rosamund Pike, l’attrice che ora fa il film di cui tutti parlano, “Gone girl” (in italiano “L’amore bugiardo”, ndr), e che ho conosciuto quando aveva una parte in “An education”, di cui ho scritto io la sceneggiatura. Rosamund diceva che voleva far ridere. Ma il suo aspetto la costringeva a ruoli d’altro genere. L’idea di partenza del libro, in me, è nata così».
Dà l’impressione di essersi divertito a scriverlo.
«Mi sono divertito a rileggerlo, quando l’ho finito. Ma scriverlo è stata una tortura, perché ho dovuto fare un sacco di ricerche su un’epoca passata, perché è un romanzo corale con tanti personaggi e storie parallele, e perché si svolge attraverso decenni successivi».
C’entra la sua età nel desiderio di esplorare il passato, l’infanzia, forse anche quello che c’era prima di noi?
«Sì, c’entra, perché fin quando sei giovane sei concentrato su te stesso, poi quando superi i 50 anni cominci a pensare ai tuoi genitori, alle tue radici, ti fai domande che prima non ti ponevi. Gli autori di quei serial tivù degli anni Sessanta avevano 30 o 40 anni, l’età dei miei genitori. Avevano vissuto la seconda guerra mondiale. Ed io, noi, la generazione dei babyboomers, siamo il risultato di quella generazione. Desideravo conoscerla meglio».
Il titolo è un omaggio al celebre film con Barbra Streisand?
«Naturalmente sì. Ma la mia funny girl non somiglia a Barbra. La mia è una giovane donna bella, piena di talento, per la quale il lavoro è la cosa più importante della vita, ma non certo la sola cosa importante».
Senta per concludere ho letto da qualche parte che, tra un Oscar e il Booker Prize, più famoso premio letterario britannico, lei preferirebbe vincere un Oscar. E tra l’Oscar e il Nobel per la letteratura?
«Di nuovo l’Oscar. Per la semplice ragione che so benissimo che mai e poi mai potrei vincere il Nobel, e che senso ha sperare di vincere qualcosa di irrealizzabile? È come se chiedessero a Francesco Totti, preferisci vincere il Nobel o la Champions League? Sono certo che risponderebbe: la Champions».
Enrico Franceschini, la Repubblica 3/11/2014