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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

I SETTANT’ANNI DI GIGI RIVA, IL CAMPIONE SILENZIOSO DIVENTATO SIMBOLO DELLA SARDEGNA. UN SINISTRO STRARIPANTE, IL RECORD DI GOL TUTTORA IMBATTUTO IN NAZIONALE, UNO STORICO SCUDETTO VINTO A CAGLIARI NEL ’70. È STATO L’ALA SINISTRA IDEALE, POTENZA STRAORDINARIA MA ANCHE FRAGILITÀ: LA GAMBA SPEZZATA DUE VOLTE, L’ADDIO AL CALCIO A SOLI 31 ANNI

Un uomo a forma di isola compie settant’anni venerdì. Non cercatelo, non lo troverete. Non telefonategli, non risponderà. Gigi Riva era un astronauta, un cowboy. Gigi Riva era Odisseo. Gigi Riva è un uomo solo.
Dentro la scorza di quella forza omerica, oltre quel sinistro straripante c’è sempre stato un orfano dal destino fragilissimo. Papà e mamma gli morirono presto. Luigi proseguì l’infanzia al collegio dei poveri, poi diventò meccanico a Leggiuno, Varese, e intanto calciatore nel Laveno Mombello e nel Legnano in serie C. Nel ‘63 lo prese il Cagliari: mille chilometri da casa. «A quel tempo, in Sardegna al massimo ci mandavano i Carabinieri e i militari in punizione», ha raccontato una volta Riva. Tutte le virgolette che troverete in questo articolo sono state aperte prima, negli squarci di luce che il suo buio interiore gli ha permesso. Sempre meno, adesso.
Sull’isola, l’uomo a forma di isola arrivò col magone, neppure l’aereo gli piaceva, le auto veloci invece sì. Quante volte, campione d’Italia, già leggenda vivente e schiva, sarebbe salito sulla sua Dino Ferrari per correre come un pazzo tra le curve a strapiombo fino a Muravera, fino a Costa Rei. Il rumore delle onde, il sole pauroso e la vertigine. Scappare ai centocinquanta all’ora da qualcosa, invano.
In queste ore lo hanno cercato Ricky Albertosi, il vecchio portiere, e Tomasini, e tanti altri per dirgli buon compleanno. «Il telefono squilla, si capisce che lui c’è ma non risponde». Non è più il dirigente accompagnatore della nazionale dopo cinquant’anni d’azzurro e 35 gol, ancora il record. Non vuole farsi vedere mentre zoppica scendendo le scale, le ossa rotte fanno male, l’anca scricchiola, il tempo è un maledetto. Nei giorni sereni risponde però alle mail con estrema gentilezza. Qualcuno ogni tanto gli propone di scrivere insieme un libro di ricordi. Gigi dice no, e sembra di vedergli il sorriso che s’increspa oltre lo schermo e la lontananza.
«Io non avevo che me stesso». La sua storia, la potenza e la precarietà. Le gambe spezzate due volte, sempre in nazionale, contro Portogallo (perone) e Austria (tibia e perone), un doppio sacrificio per la patria. I due miliardi che la Juve voleva dare al Cagliari, ma lui rifiutò, il lombardo più sardo di tutti. La sterlina d’oro che ogni Natale gli mandava Angelo Moratti in segno di stima: anche l’Inter, la sua squadra del cuore da bambino, provò in ogni modo ad averlo. «Da piccolo spedivo lettere ai campioni nerazzurri, a Skoglund specialmente, ricordo l’attesa del postino e mai una risposta». Il Cagliari con lo scudetto sulla maglia più spesso bianca. «Ne avremmo vinto almeno un altro, senza la dittatura di Torino e Milano». La sua gente, per sempre. «Negli occhi dei sardi non leggevi la felicità del tifoso ma l’orgoglio»: per loro, Gigi era “arrogadottu”, il rompitutto. E le parole crudeli ascoltate nelle altre città, sul Continente. «Ci gridavano ladri, banditi, pecorai. E noi, per tutta risposta, più forti ancora».
Gigi Riva è stato l’idea platonica dell’ala sinistra, la Urala scesa nel mondo degli uomini. Segnava gol pazzeschi in tuffo di testa, in rovesciata ma soprattutto col piede sinistro, tipo il 3-2 in Italia-Germania del Messico, mercoledì 17 giugno 1970: doppio controllo, tiro in diagonale, le braccia ben distese verso il basso nel gesto del tripudio, i pugni e gli occhi chiusi.
Dissero che quel giorno finì davvero l’onda dei Sessanta, dopo il ‘68 e piazza Fontana. L’Italia si avviava verso la stagione oscura. I Beatles si riunirono in studio per l’ultima volta, a maggio del ‘70 uscì Let it Be, poi l’addio. Un litro di super costava 160 lire. Nacquero in quell’anno lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio. «Il calcio serviva già allora a tenere la gente davanti al televisore per non vedere il frigorifero vuoto, oggi però è peggio». In campo, Gigi Riva masticava il chewinggum. E fuori dal campo fumava sigarette, beveva qualche whisky, giocava a poker. Una volta raccontò dell’imbarazzo nell’incontrare De Andrè, altro sardo d’adozione, e l’incrocio irrisolvibile delle loro timidezze. Sembrava brusco, Riva, come graffiato dentro. «Non ho avuto una grande infanzia, tutto parte da lì, il resto me lo sono creato da solo».
Dalla latitanza, ogni tanto gli scriveva Graziano Mesina, il campione bruciava le lettere però quel bandito lo incuriosiva, era in fondo un altro pezzo di Sardegna, a suo modo un racconto epico, non solo delinquenza, non solo disamistade.
E non è vero che Riva abbia vinto troppo poco. O forse è vero solo se le vittorie si contano; ma se invece si pesano, quello scudetto a Cagliari non ha paragoni nella storia. In azzurro una Coppa Europa nel ‘68, lui giocò solo la seconda finale ripetuta all’Olimpico contro la Jugoslavia, gol di Gigi Riva (poteva essere altrimenti?) e Anastasi. E poi Messico ‘70, in quel pomeriggio contro i tedeschi che resterà per sempre, nei secoli dei secoli anche se alla fine non si strinse nulla. La più grande ala sinistra della nostra storia chiuse con la nazionale il 19 giugno ‘74, contro l’Argentina, nel cuore della tenebra azzurra raccontata da Giovanni Arpino come nessuno. Un addio malinconico, ammesso che ne esistano di diversi.
Invece lo scudetto del Cagliari assomigliava alla conquista della Luna, tutti passi impossibili su satelliti remoti. Che ci facevano Neil Armstrong e Riva, lassù? Come diavolo ci erano arrivati? Però Gigi smise presto, aveva appena 31 anni, troppe ferite in quel corpo eroico e dolente. Nel ‘76 aprì una scuola calcio a Cagliari, era anche il suo ufficio, uno dei molti rifugi. «L’isolamento è il bisogno di essere me stesso, e io non ho mai scelto come essere». Imparò ad amare il silenzio dei campi da golf, le lunghissime passeggiate quando l’inquietudine urla, e ti chiede pace o almeno una tregua. Cominciò a portare lenti affumicate sugli occhi, l’ennesimo schermo, ma i tratti del suo viso non mutarono, sempre quel ricciolo nero da fumetto sulla fronte, e le labbra come scolpite: il volto di un bassorilievo. Zeffirelli gli offrì la parte di San Francesco in “Fratello sole, sorella luna”, lui gentilmente rifiutò, e disse no anche alle proposte della politica e della pubblicità. Nulla che potesse spostare la sua vita dall’asse, neppure di un millimetro, mai. Il decaffeinato la mattina, camminare, il riposino dopo pranzo, la gioia dei nipoti. E ogni sera, il minestrone da Giacomo. «Avrei voluto che mio padre e mia madre vivessero un po’ di più, per vedere quello che ho combinato».
Orfani si è sempre ma quanti fratelli, Gigi. I sardi conoscono l’uomo a forma di isola e ne rispettano le alte scogliere pur amandolo di un amore assoluto, come quando lui li guardava fisso negli occhi dal centro del campo, il colletto della maglia chiuso con i lacci, lo stemma dei quattro mori sul petto. Essere una narrazione, il racconto di gloriose gesta e del buio che le accompagna, reclamandone il prezzo. Essere una leggenda, ed essere così soli.
Maurizio Crosetti, la Repubblica 3/11/2014