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 2014  novembre 02 Domenica calendario

UNA MILANO GLOCAL CONTRO LA TORTURA


Mai città fu contemporaneamente tanto complice e tanto nemica di un’opera dell’intelletto come Milano lo fu per il trattato di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene . Era una città dalle due facce, con una nobiltà che contava da una parte strenui conservatori, difensori dello status quo e dall’altra appassionati combattenti per un rinnovamento radicale: un manipolo di riformatori che, ha scritto Dante Isella, nel condannare il municipalismo della propria città qualche volta ne «combattevano i rappresentanti più autorevoli nei loro stessi padri». L’aspirazione di Beccaria, di Pietro e Alessandro Verri, appartenenti alla ristretta cerchia ribelle dell’Accademia dei Pugni, era quella di «togliersi fuori dall’aria soffocante di vecchia provincia italiana per vivere, non da comparse ma da comprimari, il dibattito culturale europeo». La fortuna dell’opera di Beccaria dimostra che quell’aspirazione fu ampiamente ripagata se è vero che, impresso nel luglio 1764 a Livorno dall’editore Giuseppe Aubert, persona di fiducia dei fratelli Verri, il «libriccino» ebbe un successo clamoroso e immediato non solo in Italia, offrendo peraltro all’autore, nelle successive edizioni, la possibilità di nuove elaborazioni. Definitiva fu quella del 1766, anno-chiave in cui Voltaire ne fece un appassionato Commentaire , mentre Beccaria veniva accolto a Parigi dagli ammirati philosophes .
Ora, nel 250° compleanno del trattato di Beccaria, quella vicenda viene ripercorsa dai suoi precedenti alle sue conseguenze, grazie alla mostra allestita alla Biblioteca Braidense di Milano, che implicitamente segnala l’attualità viva di quelle questioni. E non c’è dunque da meravigliarsi se sin dal titolo, Un laboratorio europeo. La riflessione sulla giustizia a Milano da Beccaria a Manzoni , emerge la dimensione per così dire «glocal» ante litteram di quell’esperienza: Milano europea ed Europa in qualche modo milanese (fu sempre Voltaire a parlare con ammirazione di école de Milan ). Lo sottolinea Giorgio Panizza, curatore del catalogo, nella premessa: «L’opera di Beccaria è frutto del momento in cui quell’ambiente si rinnova profondamente e un gruppo di giovani del ceto dirigente, pur restando solidamente legato alla propria città, la trasporta a confondersi col mondo, a uscire culturalmente dai suoi stessi confini». È una vicenda che nei suoi punti essenziali attraversa quasi esattamente un secolo, dall’uscita dei Delitti fino alla elaborazione del romanzo inquisitoriale Storia della Colonna Infame di Manzoni (1840), con la tappa intermedia delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, scritte nel 1776 e apparse postume nel 1804, ormai quasi fuori tempo massimo, come avverte Loredana Garlati in un saggio sulla giustizia penale del tempo.
Milano è sempre presente, con la sua pianta, la sua struttura fisica, i suoi muri, le impalcature erette per le esecuzioni capitali, nelle incisioni e nei dipinti, fino ai celebri disegni manzoniani di Francesco Gonin. Si va dall’amministrazione della giustizia penale nell’Ancien Régime con gli elenchi di giustiziati, passando per la pagina vergognosa del processo agli untori con l’onda lunga che comporta. Raffigurazioni di benedizioni dei giustiziati, condanne al patibolo, interrogatori in carcere, tavole che illustrano il volto spietato della giustizia, quando a decapitare e a torturare eravamo noi. La mostra ospita nelle prime parti quei documenti feroci che dovettero «riscaldare» la rivolta di Beccaria: si vedano i Registri dei condannati in cui dal 1471 vennero annotate le sentenze decise dal Senato, i Regolamenti provvisionali sul «Sistema dell’ergastolo di Milano» (1771) in cui non solo si dispongono le regole per gli aguzzini e gli assistenti spirituali, ma si definiscono anche i modi di legare le catene e il tipo di tavolato su cui sono tenuti a dormire i condannati. E si veda quel prezioso documento che è il Ristretto della Prattica Criminale per lo Stato di Milano che offre indicazioni sulle modalità del processo penale in Lombardia.
Ci sono poi estratti del processo agli untori del 1630, un campionario di testi giuridici che si espressero contro la tortura e la pena di morte prima di Beccaria (che pure ebbe il merito di sostenere la tesi abolizionista in modo definitivo), le opere che in vario modo illustrano l’attività dell’Accademia dei Pugni e del «Caffè», i manoscritti e le edizioni rare: qui riuniti grazie alla collaborazione della Braidense (depositaria dei fondi manzoniani) con la Biblioteca Ambrosiana (per il Beccaria), la Fondazione Luigi Firpo di Torino (che conserva un’eccezionale raccolta di edizioni rare dello stesso Beccaria), la Fondazione Mattioli (per le carte del Verri). Un’ampia sezione è occupata dal tormentato incrocio di discussioni e battaglie sulla giustizia penale, con il processo di riforma che ne seguì nel doppio filone austriaco e francese, compresa la Leopoldina che nel 1787 rappresenta in Toscana la più rilevante iniziativa legislativa scaturita dalle idee di Beccaria.
Con Manzoni e con la digressione sulla Colonna infame (sulla cui genesi si concentra Giulia Raboni), si chiude quel cerchio di discussione familiare apertosi quasi un secolo prima. Erede non solo ideale del Beccaria, il nipote don Lisander riprende i suoi temi in un progetto narrativo simile a quello utilizzato nelle parti storiche del grande romanzo. Ma se Verri aveva trattato la tragica favola degli untori per dimostrare la barbarie della pratica di tortura e la necessità di una riforma della giustizia, Manzoni rilancia gettando sul piatto la libertà di scelta individuale tra bene e male. Come osserva Salvatore Veca nel saggio che apre il catalogo, «il buon riformatore dovrebbe mantenere vigile il senso del limite . Perché il resto ha a che fare con il lavoro etico su noi stessi». Giudicare le istituzioni e le pratiche sociali in modo oggettivo non basta. Il ricorso all’analisi storica va messo alla prova del giudizio morale e della responsabilità delle persone. Non può esserci Beccaria senza Manzoni, e viceversa. Ancora oggi.