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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

LA PARTECIPAZIONE POLITICA DEI CITTADINI DALL’UNITÀ A OGGI IN SAGGIO DI GIOVANNI SABBATUCCI


Difficile trovare nel dizionario politico italiano una parola più screditata di "partito". Il termine ha assunto, nella percezione di una larga fetta dell’opinione pubblica, una connotazione così negativa che c’è stata addirittura una lunga fase della storia recente, la cosiddetta Seconda Repubblica, in cui non una delle nuove formazioni nate sulle macerie di Tangentopoli si arrischiava ad autodefinirsi tale. Qualcuno si limitò ad abolire la P di partito dall’acronimo del nome (fu il caso del Pds, Partito democratico della sinistra, rapidamente divenuto Ds, Democratici di sinistra), altri cambiarono decisamente genere (Silvio Berlusconi mutuò dal gergo sportivo l’intuizione di Forza Italia), i più si rifugiarono nella botanica e nella faunistica cosicché per anni agli elettori italiani si è presentato un florilegio di Ulivi, Trifogli e Margherite, Coccinelle, Asinelli ed Elefantini. Un’inversione di tendenza c’è stata con la fondazione quasi in contemporanea di Pd e Pdl. Ma quest’ultimo è stato già archiviato, il primo è alle prese con una profonda trasformazione: per la prima volta nella storia della sinistra postcomunista la leadership fa premio sull’identità della ditta e non è ancora chiaro quale sarà l’esito di questa dialettica.
Ma fino a che punto i partiti meritano tutto il discredito che si è scaricato su di loro? Le colpe che portano nella involuzione istituzionale e nella crisi socio-economica sono superiori ai meriti? E soprattutto: se davvero la forma partito novecentesca è arrivata al capolinea, chi ne sostituirà l’indispensabile ruolo di collettore della partecipazione democratica? A questi temi, sfuggenti e non risolvibili con tesi affettate da pamphlet, ha il merito di avanzare risposte articolate e spesso illuminanti il nuovo libro dello storico Giovanni Sabbatucci, Partiti e culture politiche nell’Italia unita (Laterza, 387 pagg, 35 euro).
NODI MAI SCIOLTI
Sabbatucci riannoda i fili di questioni e dibattiti apparentemente distanti nel tempo e nel merito, ma che in realtà ripropongono nodi mai sciolti del sistema politico italiano: lo scontro tra le ragioni della rappresentanza parlamentare e le prerogative del governo, il confine tra istituzioni e forze politiche, l’organizzazione del consenso su basi personali ovvero collettive, territorialità versus centralismo. Complicato, e molto, è stato in questo Paese far coincidere la democrazia fondata sui partiti e la democrazia tout court. Fin dal primo dopoguerra il modello fondato sulla centralità dei partiti ha coinciso con fasi di profonda apertura degli spazi di partecipazione dei cittadini alla vita politica. I padri costituenti, provati dalla cappa del Ventennio fascista, adottarono quel modello con convinzione sebbene – rimarca Sabbatucci – rimuovendo dal dibattito tutte le criticità di quella prima turbolenta stagione di democrazia dei partiti, aperta dalle elezioni del 1919, e soprattutto il fatto che la sua debolezza finì per essere una delle concause dell’avvento del regime. Il vizio capitale di quel primo esperimento – l’autoesclusione rispetto all’area di governo una forza come il Psi combinata alla frammentazione figlia del sistema proporzionale – rappresentò l’inizio di un’anomalia nazionale che si sarebbe ripresentata nel secondo dopoguerra con il Pci. Risultato: difetti strutturali hanno sempre minato alle basi la possibilità che l’Italia si accodasse alle democrazie occidentali capaci di esprimere nell’alternanza delle formule e degli schieramenti un antidoto non solo alle tentazioni autoritarie e cesariste, ma anche alla consunzione pura e semplice del tessuto democratico. Né – come ben sanno i lettori – la fine della Prima Repubblica ha permesso davvero di entrare in una fase virtuosa: ai vincoli ideologici se ne sono sostituiti altri, tribali e corporativi, e hanno trasformato il sogno di un bipolarismo mite nell’incubo di una guerra civile strisciante, precipitando il Paese in una logica di "centrismo" deteriore, paludato e inerte, che ha logorato in profondità il rapporto tra cittadini e istituzioni.
Una buona riforma della legge elettorale sarebbe fondamentale per voltare pagina. Sabbatucci offre solide ragioni a chi non si rassegna a considerare questa riforma come un mero passaggio tecnico, un arzigogolo da addetti ai lavori, e ammonisce a non sottovalutare che molti dei passaggi epocali della nostra storia sono stati segnati – nel bene e più spesso nel male – proprio dal cambiamento delle modalità di voto: dalla legge Acerbo che nel 1923 fu essenziale per fascistizzare il Paese tramite via parlamentare, fino al famigerato Porcellum, che ha tranciato i residui legami tra territorio e rappresentanza parlamentare, le leggi elettorali hanno segnato il corso della cosa pubblica. Forse è il caso di tenere a mente la lezione prima di varare, con l’Italicum, una riforma fin troppo debitrice nei confronti di quella che l’ha infaustamente preceduta.