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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Marcus Rediker, La nave negriera, il Mulino 2014, 463 pp., 36

Notizie tratte da: Marcus Rediker, La nave negriera, il Mulino 2014, pp. 463, 36 euro.

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• «Nei quattrocento anni che durò il traffico di schiavi, dalla fine del XV sino alla seconda metà del XIX secolo, più di dodici milioni di persone furono stivate nelle navi negriere e trasportate al di là dell’Atlantico (il “passaggio di mezzo”) per raggiungere centinaia di punti di consegna distribuiti lungo migliaia di chilometri. In quella spaventosa traversata morirono un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, i cui corpi furono dati in pasto agli squali che seguivano le navi. I sopravvissuti finirono stritolati da un letale ingranaggio, il sistema delle piantagioni, al quale cercarono di resistere in ogni modo immaginabile».

• «Dal punto di partenza a quello di arrivo – cattura in Africa, passaggio di mezzo, iniziale sfruttamento in America – morirono circa cinque milioni di uomini, donne e bambini. Da un’altra prospettiva, si può dire che furono ridotte in schiavitù quattordici milioni di persone, con una “resa” di nove milioni di schiavi in grado di lavorare in America».

• «La cosiddetta “età dell’oro” del dramma va dal 1700 al 1808, quando vennero trasportati più prigionieri di qualsiasi altro periodo, quasi due terzi del totale. Di questi più della metà, complessivamente 3,5 milioni circa, furono trasportati da navi britanniche o americane. (…) Con l’avanzare del secolo il tasso di mortalità sulle navi negriere diminuì, ma in termini assoluti il numero di morti rimase spaventoso: in quel periodo morirono in totale quasi un milione di schiavi, per quasi metà riconducibili al commercio organizzato da porti inglesi e americani».

• «Fra il 1700 e il 1808 le navi inglesi e americane si approvvigionavano di schiavi principalmente in sei regioni africane: Senegambia, Sierra Leone, Costa Sopravento, Costa d’Oro, golfo del Benin, golfo del Biafra e Africa centro-occidentale (Congo, Angola). Le navi portavano i prigionieri principalmente alle isole “dello zucchero” britanniche (dove veniva acquistato più del 70% degli schiavi, per quasi la metà in Giamaica), ma un buon numero finiva anche ad acquirenti francesi e spagnoli, grazie a uno speciale tipo di contratto (asiento de negros). Circa uno su dieci raggiungeva destinazioni nordamericane: di questi ultimi, la maggioranza finiva in Carolina del Sud e in Georgia, e un buon numero anche nella zona della baia di Chesapeake».

• «I comandanti delle navi negriere erano particolarmente duri e spietati: dotati di potere assoluto, erano noti per il facile ricorso alla frusta e per la capacità di tenere sotto controllo gruppi numerosi di persone», dimostrando la medesima brutalità tanto verso gli schiavi quanto verso i marinai, al punto che qualche comandante soleva definirli rispettivamente “schiavi neri” e “schiavi bianchi”. «I marinai avevano colto questa terribile verità in un adagio: “Sta’ in guardia, sta’ attento / al Golfo del Benìn / per uno che ne esce / quaranta restan lì”. Se molti morivano, altri perdevano la vista e tantissimi altri ancora riportavano menomazioni permanenti di vario tipo».

• «Comandanti ed equipaggi entravano spesso in conflitto, e questo sembra riflettersi perfino nei nomi: Samuel Pain (“dolore”) era un comandante negriero noto per la sua brutalità; Arthur Fuse (“miccia”), per fare un altro esempio, era un marinaio che si era ammutinato».

• «Il comandante presiedeva su tutto, ma erano i marinai che dovevano portare a bordo gli schiavi, stivarli sottocoperta, nutrirli, costringerli a fare esercizio (le “danze”), occuparsi della loro salute, della disciplina e delle punizioni: in breve, trasformarli in merci per il mercato internazionale della forza lavoro».

• «L’anno 1700 fu l’inizio simbolico del dramma, tanto in Inghilterra quanto in America. Sebbene i mercanti e i marinai fossero coinvolti nel traffico di schiavi da moltissimo tempo, quello fu l’anno che vide i primi viaggi ufficialmente registrati come trasporto di schiavi: uno dal Rhode Island, che sarebbe diventato il centro del traffico di schiavi americano, e uno da Liverpool, che lo sarebbe stato per quello inglese, e nell’ultimo scorcio del secolo per l’intero traffico atlantico. (…) Centinaia di navi negriere le avrebbero seguite, da quei porti e da altri, per tutto il secolo».

• «La nave negriera era una strana e potente combinazione di macchina da guerra, prigione mobile e stabilimento industriale».

• «La nave-fabbrica produceva anche “razza”. All’inizio del viaggio il comandante arruolava infatti una ciurma eterogenea di marinai, che, sulle coste africane, diventavano automaticamente “uomini bianchi”; poi, prima del passaggio di mezzo, il capitano imbarcava un assortimento multietnico di africani, destinati a diventare, in qualche porto americano, “neri” o “razza negra”. Il viaggio quindi trasformava chi lo faceva».

• «Tutto, comunque, le “guerre”, le catture e la produzione industriale di forza lavoro e di razza, era basato sulla violenza».

• Il mercante e armatore Humphry Morice, «discendente di un’affermata famiglia di mercanti londinesi, membro del Parlamento, amico e sodale del primo ministro Robert Walpole, nonché governatore della Bank of England, (…) si faceva un punto d’onore di conoscere le sue attività nei più minuti dettagli, e riversava poi tali conoscenze nelle dettagliate istruzioni scritte che inviava ai comandanti. (…) Dava istruzioni ai comandanti di comprare schiavi di età compresa fra i dodici e i venticinque anni, due maschi per ogni femmina, “buoni e in salute, e con occhi sani e senza difetti fisici”, facendo suoi senza esitazioni i consigli dei coltivatori giamaicani riguardanti i “difetti da evitare con cura”: nanismo o gigantismo, entrambi sgradevoli; brutte facce; lunghe mammelle flaccide; pelle giallastra; macchie livide sulla pelle, sintomo di malattie incurabili; occhi velati; dita delle mani o dei piedi, o denti, mancanti; ombelico sporgente; fratture, alle quali sono soggetti in particolare gli schiavi gambiani; gambe arcuate; stinchi affilati; pazzi; idioti; letargici. (…) Diceva ai suoi comandanti di accertarsi “che i negri fossero puliti e sbarbati, per avere un buon aspetto e fare buona impressione su piantatori e compratori”».

• «I comandanti negrieri si servivano coscientemente degli squali per generare terrore durante il viaggio: contavano infatti su di esso, durante le lunghe soste sulla costa africana per il tempo occorrente a completare il “carico umano”, per prevenire sia le diserzioni dei marinai sia le fughe degli schiavi. Anche gli ufficiali si servivano di quel terrore. (…) Si sa di ufficiali di marina che davano da mangiare agli squali perché non si allontanassero mai dalle loro navi».

• «Gli africani usavano gli squali nei loro sistemi disciplinari: in alcune zone chi veniva accusato per certi crimini veniva gettato in acque infestate da squali. Quelli che riuscivano a sopravvivere al “processo degli squali”, e c’era chi lo faceva, veniva dichiarato innocente dei reati dei quali era accusato».

• «L’importanza specifica della nave negriera era legata a un’altra fondamentale istituzione connessa al moderno schiavismo: la piantagione, una forma di organizzazione economica che ebbe inizio nel Mediterraneo durante il Medioevo, si diffuse nelle isole dell’Atlantico orientale (Azzorre, Madeira, Canarie e Capo Verde) per poi emergere nel corso del Seicento in una forma nuova e rivoluzionaria nel Nuovo Mondo, specie in Brasile, nei Caraibi, e nell’America settentrionale. La diffusione della produzione di zucchero a partire dalla metà di quel secolo scatenò una spaventosa fame di manodopera. Per i successivi duecento anni, senza interruzione, le navi trasportarono i loro carichi umani: all’inizio, in diverse località, servitori europei assunti a contratto, in seguito un numero ben più vasto di schiavi africani, che venivano acquistati dai colonizzatori, portati in grandi strutture produttive e costretti, sotto una stretta e violenta sorveglianza, a produrre grandi quantità di merci per il mercato mondiale».

• «I ponti delle navi erano il punto di contatto per lo scambio dei vari carichi: i prodotti tessili e le armi da fuoco diretti in Africa, quelli d’oro o di avorio destinati all’Europa, e i carichi di schiavi destinati al Nuovo Mondo».

• «La nave negriera era anche una prigione mobile che solcava i mari, e questo quando sulle coste africane ancora non esistevano prigioni in senso moderno. (…) I marinai di Liverpool concludevano spesso che, quando venivano mandati in galera per debiti da qualche taverniere e ne uscivano perché il comandante di una nave negriera aveva saldato i loro conti per arruolarli, in realtà non facevano che passare da una prigione a un’altra. E se la nave negriera sembrava una prigione ai marinai, figuriamoci come poteva sembrare a uno schiavo, confinato sottocoperta per sedici e più ore al giorno».

• A partire dal Settecento, il traffico degli schiavi fu organizzato in funzione del cosiddetto «commercio triangolare»: «le navi dovevano partire da porti europei (o americani) con un carico di manufatti industriali per l’Africa occidentale, dove li avrebbero scambiati con un carico di schiavi, per poi proseguire per le Americhe dove questi ultimi sarebbero stati a loro volta scambiati con merci come zucchero, tabacco o riso». Tale nozione «permette la visualizzazione dei tre vertici che componevano quel triangolo: capitali e manufatti inglesi o americani, forza lavoro africana e merci americane (spesso materie prime)».

• «I costruttori navali di Liverpool, che si avviava a diventare la capitale del commercio di schiavi, cominciarono a costruire navi negriere su ordinazione attorno al 1750. (…) Nei vent’anni che precedettero l’abolizione (1787-1808) i cantieri di Liverpool costruirono 469 navi, in media ventuno all’anno».

• «La tipica nave negriera aveva un comandante, un primo e un secondo ufficiale, un medico, un carpentiere, un nostromo, un artigliere (o armiere), spesso un bottaio, un cuoco, da dieci a dodici marinai comuni, una manciata di marinai ancora inesperti, e un paio di mozzi; le navi più grandi potevano avere anche un terzo e un quarto ufficiale, uno o più assistenti per il medico di bordo e per i vari specialisti, specialmente il carpentiere e l’artigliere, e qualche marinaio o qualche apprendista in più. (…) La divisione del lavoro assegnava responsabilità e strutturava i rapporti fra i membri dell’equipaggio, definendo la gerarchia dei ruoli lavorativi e la corrispondente scala di retribuzioni».

• «Agli inizi del Settecento solo le navi più grandi avevano a bordo un medico: le navi negriere americane, più piccole e più veloci (quasi tutte del Rhode Island), fino alla fine del secolo ebbero a bordo solo un “ricettario” con le prescrizioni dei vari medicinali, affidato al comandante. Solo dal 1788, dopo l’approvazione del Dolben Act, chiamato anche Slave Carrying Bill, tutte le navi negriere inglesi furono obbligate ad avere un medico a bordo, che aveva anche incarico di tenere durante il viaggio un registro delle malattie e dei decessi».

• «La gran maggioranza degli africani finiti sulle navi negriere erano stati catturati con la forza, contro la loro volontà, in genere perché fatti prigionieri in qualche tipo di guerra, o perché condannati da un tribunale della loro stessa comunità, come punizione per un crimine commesso».

• Nell’Africa del XVIII secolo, «la schiavitù era un’istituzione antica e universalmente accettata in tutte le grandi società della regione, normalmente riservata ai prigionieri di guerra e ai criminali. Il commercio di schiavi veniva praticato da secoli: fra il VII e il XIX secolo il commercio transahariano organizzato da mercanti arabi nordafricani e dai loro alleati islamici aveva trasferito a nord 9,4 milioni di persone, che erano poi state messe in vendita in piazze commerciali sviluppatissime. In molte zone i mercanti europei che arrivarono sulla costa non fecero quindi che inserirsi in circuiti di scambio preesistenti, senza cambiare nulla in un primo tempo».

• «La tratta degli schiavi variava a seconda della regione e della controparte, con due tipologie di base: nel “commercio dei forti” i comandanti delle navi compravano gli schiavi da altri europei che risiedevano in avamposti come Cape Coast Castle, sulla Costa d’Oro (l’odierno Ghana); nel “commercio delle barche”, invece, nelle zone dove non c’erano forti, le compravendite avvenivano sul ponte di coperta delle navi negriere dopo che canoe, barcacce e lance avevano trasportato il carico dalla costa. Questo traffico veniva a volte chiamato “commercio nero”, perché era controllato prevalentemente da mercanti africani: alcuni su incarico di grandi stati, altri per conto di gruppi medi o anche piccoli, a seconda della regione. A volte i due tipi di commercio coesistevano».

• «Quasi tutti i prigionieri di una nave negriera dovevano la loro sventura a una qualche guerra. (…) Le guerre in Africa c’erano da molto prima dell’arrivo degli europei, e nascevano dalle stesse cause che avevano originato, sempre e ovunque, i conflitti: “ambizione, cupidigia, rancori ecc.”». Tuttavia, «le “guerre” avevano spesso inizio in coincidenza con l’apparire sulla costa di una nave negriera, al che i mercanti locali (con l’aiuto – e i fucili – del comandante della nave) organizzavano una spedizione (di solito su canoe) e partivano verso l’interno per “fare guerra” e catturare schiavi da vendere poi allo stesso comandante che aveva contribuito a finanziare la spedizione: come spiegò un africano al marinaio di una nave negriera, “se nave non viene, noi non prende schiavi, padrone”. La guerra era insomma un eufemismo per il furto organizzato di esseri umani».

• «Dopo le guerre, la seconda fonte di schiavi era rappresentata dai processi giudiziari con cui le società africane riconoscevano i propri membri colpevoli di crimini che andavano dall’omicidio al furto, fino all’adulterio, alla stregoneria e all’insolvenza, e li condannavano alla schiavitù, per venderli poi ai trafficanti africani o direttamente ai comandanti delle navi negriere. (…) Erano in molti, sia africani sia europei (abolizionisti), a pensare che i processi in Africa occidentale fossero corrotti e che migliaia di persone fossero falsamente accusate e condannate per produrre quanti più corpi commerciabili possibile».

• «La terza principale fonte di schiavi era l’acquisto nei mercati e nelle fiere dell’entroterra, distanti dalla costa, spesso collegati ai circuiti del traffico islamico di schiavi a nord, est e ovest. L’acquisto di queste persone, che in gran parte erano state libere, ma erano state catturate e ridotte in schiavitù ancora più all’interno, era particolarmente frequente in Senegambia, in Costa d’Oro, e nel golfo del Benin».

• «La stragrande maggioranza dei prigionieri erano persone semplici, in qualche modo collegate all’agricoltura, ma c’erano anche pastori nomadi o cacciatori-raccoglitori; dalle società più grandi e articolate provenivano invece artigiani, schiavi domestici e lavoratori salariati. Due terzi del totale erano maschi, generalmente giovani, molti dei quali erano stati soldati e avevano quindi ricevuto un addestramento militare. Circa un terzo era composto di donne e un quarto di bambini, quote che sarebbero progressivamente aumentate verso la fine del secolo. Pochissimi africani di alto rango o in posizioni di comando finivano in schiavitù sulle navi negriere».

• «Uno dei principali sistemi per catturare schiavi era quello che i francesi chiamavano grand Pillage: una scorreria improvvisa e organizzata su un villaggio, di solito in piena notte, nel corso della quale i predatori incendiavano le case e catturavano i terrorizzati abitanti in fuga, per poi farli marciare incolonnati fino alla costa e venderli».

• «Un sistema di riduzione in schiavitù meno comune ma sempre importante era l’inganno, che veniva usato dai mercanti di schiavi per approfittare degli ingenui e dei troppo fiduciosi. Anche fra gli europei, marinai o servi a contratto, c’era chi procacciava forza lavoro marittima con l’inganno; costui veniva chiamato spirit e il procedimento stesso spiriting (lett.: “far sparire per incanto”), o “trappola” o, ancora, “sequestro”. In quei casi il cammino verso la nave iniziava con un consenso che solo in seguito si trasformava in coercizione».

• «Quando per la prima volta posò il suo sguardo di bambino sulla nave negriera che lo avrebbe portato attraverso l’Atlantico, Olaudah Equiano fu sopraffatto da un senso di “stupore, che ben presto si tramutò in terrore”. Nato in territorio igbo (nell’odierna Nigeria), sarebbe stato schiavo nelle Americhe, avrebbe poi riconquistato la libertà lavorando come marinaio d’alto mare, per diventare alla fine una figura di primo piano nel movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi in Inghilterra. Nella sua autobiografia del 1789 scrisse di non riuscire ancora a trovare le parole per descrivere lo stupore e il terrore alla vista della nave negriera, che “lo sbalordì oltre misura”». Rapito appena undicenne agli inizi del 1754, Equiano, «meglio noto ai suoi giorni come Gustavus Vassa, fu la prima persona a scrivere estesamente di una nave negriera dal punto di vista di uno schiavo. Per il movimento abolizionista la sua fu a quel tempo forse l’opera letteraria fondamentale, ed è ancora oggi la più nota descrizione di una nave negriera e del passaggio di mezzo che si conosca».

• «La strategia di resistenza dello stesso Equiano consistette in parte nel cercare di imparare dai marinai tutto quello che poteva sul funzionamento della nave: questa si sarebbe dimostrata, nel lungo periodo, la chiave per il suo affrancamento, perché lo avrebbe messo in grado di lavorare come marinaio, percepire un salario e riacquistare la libertà all’età di ventiquattro anni. (…) Guardando lavorare i marinai, rimase affascinato e allo stesso tempo sconcertato dall’uso che facevano del quadrante. (…) I marinai si accorsero dell’interesse di quel ragazzo sveglio e un giorno uno di loro decise di farlo contento, permettendogli di guardare attraverso le lenti: “ciò accrebbe la mia meraviglia e a quel punto ero più che mai convinto di essere in un altro mondo, e che quanto mi circondava fosse frutto di magia”».

• «Poche persone nel corso del Settecento furono capaci di cogliere il dramma della tratta degli schiavi come James Field Stanfield», singolare ed eclettica figura di marinaio, scrittore e attore teatrale: «quando verso la fine del secolo, stimolato dal nascente movimento abolizionista, decise di scrivere sugli orrori del traffico di schiavi, disponeva di una perfetta combinazione di talento ed esperienza personale».

• «Ogni volta che una nave cominciava ad attrezzarsi in vista di un viaggio, spiegò Stanfield, mercanti e comandanti, impiegati e arruolatori senza scrupoli si mettevano a battere “senza tregua” le strade di Liverpool, spingendo senza sosta un marinaio dopo l’altro in taverne dai proprietari compiacenti (e collusi), dove si potevano trovare musica, prostitute e alcolici; lui stesso, nel percorrere un tratto di strada, era stato “trascinato tre volte in un postribolo”. Una volta dentro, cominciavano a lavorarsi le vittime, con grandi professioni di amicizia e di simpatia, e continue offerte di rum o di gin: l’obiettivo era di far ubriacare e indebitare i marinai, entrambi passaggi essenziali per l’equipaggiamento della nave negriera. Alla fine molti marinai – come forse lo stesso Stanfield – ubriachi dopo la lunga serie di bevute, finivano col firmare gli articles of agreement, un contratto salariale con il mercante o con il comandante di una nave negriera».

• «Con le buone o con le cattive si attiravano a bordo uomini di tutti i tipi. Alcuni, ubriachi o indebitati, erano stati costretti a scambiare la prigione della terraferma con una galleggiante. (…) “Solo pochi”, scrisse Stanfield, “abbracciavano volontariamente quel duro fato”: in questo numero v’era chi soffriva a causa di “falsi amici”, chi fuggiva da “sventure immeritate”, chi aveva problemi con la legge. Altri erano stati vittime della sfortuna ed erano “stanchi di dolori che nessuna pazienza può sopportare”, o avevano perduto l’amore ed erano “da passione senza speranza dilaniati”».

• Una volta raggiunto il mare aperto, per i marinai delle navi negriere «il minimo errore sul lavoro giustificava una fustigazione, e a volte venivano legati alle sartie anche tre marinai per volta. Dopo le fustigazioni spesso si spargeva del sale sulle ferite: sui rossi solchi lasciati dal gatto a nove code si versava una soluzione salina chiamata “salamoia”, senza il minimo rimorso né alcun “timore di essere chiamati a rispondere per quell’abuso di autorità”».

• «Una volta sulle coste africane, nel comandante si verificava quello che secondo Stanfield è il cambiamento più grande e che descrive così: “è un fatto inesplicabile ma certamente vero che, nel momento in cui il comandante di una nave negriera giunge in vista di queste coste, il demone della crudeltà sembra impadronirsi di lui”. Stanfield mette in risalto lo stesso concetto nel poema, usando l’allegoria del demone Crudeltà che manda uno dei diavoli sulla nave: “dice il capo dei figli della notte: / vola dove il vascello solca l’onde”. E quello parte: “Gli occhi sicuri han visto il comandante, / e giù, simile a un lampo, egli s’affretta, / a erigergli nel cuor l’empio suo trono”».

• «Stanfield presentò la nave stessa, scenario materiale del dramma, in modi diversi a seconda della funzione che svolgeva nelle varie fasi del viaggio, e della prospettiva di chi la osservava. Era inizialmente “una cosa bella”, poi una “grande macchina” per chi vi lavorava, e finalmente una “prigione galleggiante” per i marinai e soprattutto per gli schiavi. Quasi tutti erano prigionieri, in un modo o in un altro, e soggetti a un sistema istituzionalizzato di terrore e di morte».

• «In tutta la storia del commercio di schiavi, John Newton è stato a lungo il comandante più noto. Fece quattro viaggi, uno come secondo di bordo e tre come comandante, fra il 1748 e il 1754, ma la sua fama si deve alla carriera successiva, quando divenne un attivo e popolare ministro della chiesa d’Inghilterra, di orientamento evangelico. Scrisse numerosi inni – il più noto dei quali è Amazing Grace – e finalmente, nell’ultimo periodo, ripudiò il suo passato abbracciando la causa dell’abolizione: nel 1788 scrisse un vivace pamphlet sugli orrori della tratta, intitolato Thoughts upon the African Slave Trade, e ne ribadì poi i concetti dinnanzi ai comitati della Camera dei Comuni nel 1789 e 1790, dichiarandosi un peccatore che aveva riconosciuto i suoi errori».

• «Il potere dei capitani delle navi originava dalle tradizioni della marineria, ma anche dalle leggi e dalla geografia sociale: era lo stato a consentire ai comandanti l’uso delle punizioni corporali per mantenere “regolarità e subordinazione” nell’equipaggio mentre era in viaggio per collegare i mercati del mondo. La resistenza alla sua autorità veniva interpretata dai tribunali come ammutinamento o insurrezione, entrambi reati punibili con l’impiccagione. L’isolamento geografico della nave, lontana dalle istituzioni di governo della società, era poi sia l’origine sia la giustificazione dell’ipertrofia di tale potere. Il comandante di nave negriera (…) era l’esempio più estremo della categoria».

• «Ad assegnare l’incarico al comandante era sempre un mercante, o un gruppo di mercanti, proprietari della nave e finanziatori del viaggio. Una volta arruolato, il comandante era un dipendente e un agente commerciale, responsabile di proprietà di grande valore in un tipo di commercio pericoloso, complicato e potenzialmente disastroso, ed era destinato a trovarsi quasi subito lontano dagli occhi e quindi dal controllo degli investitori. (…) Il potere del comandante, quindi, dipendeva anzitutto da questa relazione con i capitalisti».

• «In Africa i mercanti esportavano una gran varietà di mercanzie: chiedevano ai comandanti di barattare stoffe, oggetti di metallo (coltelli, zappe, stoviglie di ottone), armi da fuoco e altri manufatti con avorio (“denti”), anche perché, come disse un mercante, per quel bene “non c’è da temere mortalità”. Alcuni chiedevano oro, specie nella prima parte del Settecento, legno di sandalo (come legno da tinta), cera d’api, olio di palma e pepe malaguetta. Un comandante ebbe istruzioni di acquistare varie cose, comprese “curiosità”; ma, naturalmente, per tutto quel secolo l’obiettivo principale fu l’acquisto di esseri umani».

• «Quasi tutti i mercanti chiedevano ai comandanti di comprare schiavi giovani, e se non lo specificavano era perché lo davano per scontato. Humphry Morice li voleva fra i 12 e i 25 anni, due maschi per ogni femmina, che era la proporzione tipica. Thomas Leyland voleva principalmente maschi, ma con un calcolo diverso: metà “negri di prima scelta fra i 15 e i 25 anni”, tre ottavi ragazzi “dai 10 ai 15” e un ottavo donne “dai 10 ai 18”, tutti “ben formati, dal petto ampio, vigorosi e senza imperfezioni fisiche”. James Laroche, da parte sua, preferiva ragazze fra i dieci e i quattordici anni, “molto nere e belle”. Un funzionario della South Sea Company nel 1717 fece una richiesta agghiacciante: le voleva “tutte vergini”. Le persone giovani, forti e in buona salute avevano maggiori probabilità di sopravvivere alla permanenza sulla costa e di “reggere il passaggio”. Per converso, a volte i mercanti raccomandavano ai comandanti di evitare “maschi vecchi o donne con le mammelle pendenti” e chiunque avesse difetti fisici come ad esempio un’ernia o una zoppia».

• «Gli accordi retributivi legavano gli interessi del comandante (e degli ufficiali superiori) all’esito del viaggio e quindi il mercante, in altre parole, dava a tutti, e in particolare al comandante, un incentivo materiale al buon esito del viaggio. Facendo del comandante un partner che partecipava ai rischi, i mercanti imponevano la spietata disciplina dell’interesse personale, come nel 1771 Matthew Strong spiegò al comandante Richard Smyth: “conviene tanto al vostro interesse come al nostro consegnare un buon carico in buona salute”».

• «Il trattamento degli schiavi era un argomento delicato e tutti i mercanti, in un modo o nell’altro, si esercitavano a definire il fragile equilibrio che speravano venisse mantenuto: trattare gli schiavi con gentilezza, ma non troppa; agire con “quanta più indulgenza la sicurezza permetterà”. (…) Le istruzioni ammettevano sempre molte interpretazioni. A quanto sembra, solo un mercante, Robert Bostock di Liverpool, minacciò di punire un comandante se avesse maltrattato i prigionieri».

• «Molti comandanti adottavano uno stile di comando dispotico, che può compendiarsi col termine bullismo: si aggiravano per la nave con fare arrogante, facendo sfuriate, minacce e prepotenze di ogni sorta. (…) Il Settecento avrebbe coniato il termine “bucko” per descrivere quel genere di persona. Un comandante o un ufficiale bucko era un uomo esigente, che andava sempre più in là di quanto normalmente richiesto dalla disciplina di bordo».

• «Uno dei sistemi più usati dai comandanti per affermare il proprio controllo consisteva nel compiere prepotenze su tutto l’equipaggio, o più comunemente su una parte. Alcuni decidevano di dar mostra della propria autorità in modo brutale all’inizio di ogni viaggio: ordinavano a tutti gli uomini (esclusi gli ufficiali) di mettersi in fila sul ponte con la propria cassa da marinaio, poi rompevano, sfasciavano e bruciavano le cassette, di solito con la scusa di cercare qualcosa che era stata rubata, ma in pratica per affermare simbolicamente il proprio potere sui marinai in ogni aspetto della loro vita. I comandanti inoltre usavano scegliere un membro marginale dell’equipaggio per farne oggetto di una vera e propria persecuzione, usando quella persona come esempio per intimidire tutti gli altri; di solito si trattava di un mozzo, di un cuoco o di un marinaio nero. A volte quelle prepotenze finivano con l’uccisione (o con il suicidio) della vittima, ma potevano anche portare, per reazione, all’assassinio dello stesso comandante».

• «Sulle navi negriere la violenza era sempre all’ordine del giorno, specie nell’applicazione della disciplina. Il più importante “mezzo di correzione” era il gatto a nove code, che spesso si trasformava in uno strumento di tortura: il chirurgo di bordo Alexander Falconbridge lo descrisse come “un manico o gambo di corda di tre pollici e mezzo [9 cm] di circonferenza, e diciotto pollici circa [45 cm] di lunghezza, a un’estremità del quale sono unite nove braccia, o code, fatte di sagole, con tre o più nodi lungo ciascuna di esse”. Lo scopo delle nove code e dei tre nodi su ciascuna (alcune erano intrecciate con fil di ferro) era di lacerare la pelle della vittima. Oltre che per le punizioni più spettacolari, di marinai come di schiavi, il gatto veniva usato anche per infrazioni minori e per la semplice indisciplina, nel lavoro o nella quotidiana routine sociale».

• «I comandanti, e meno frequentemente gli ufficiali, sceglievano le loro “favorite” fra le schiave, trasferendole dal ponte inferiore alla cabina del comandante; per le prescelte ciò significava uno spazio più ampio, cibo migliore e più abbondante e forse in qualche caso una disciplina meno violenta. (…) Quando un comandante si stancava della favorita in carica, non faceva che rimuoverla dall’“alto rango” e trovare subito il rimpiazzo appena fuori dalla porta della cabina, dove in molte navi negriere si trovavano i locali delle donne».

• «Se gli strumenti di coercizione del comandante contribuivano a stabilire e mantenere il potere fra i marinai, erano ancora più decisivi con gli schiavi. Il gatto a nove code veniva usato a piena forza quando gli schiavi si trovavano sul ponte, soprattutto all’ora dei pasti. Gli ufficiali e il nostromo vi ricorrevano per “incoraggiare” le persone a obbedire agli ordini: a muoversi alla svelta, a disporsi in fila ordinatamente, a mangiare tutto. La persona che rifiutava il cibo poteva attendersi una fustigazione con il gatto, e spesso quello era il solo modo per convincerlo a mangiare. Ma un buon numero di schiavi si ostinava a rifiutare il cibo, e questo faceva entrare in scena lo speculum oris, un altro efficiente strumento di terrore».

• «Il metodo cui i capitani ricorrevano più comunemente dopo una fallita insurrezione era quello delle fustigazioni, delle torture e dell’esecuzione dei ribelli sul ponte, per massimizzare il terrore. Quello era un momento in cui il comandante abbandonava ogni distacco e dimostrava il suo potere con il massimo impegno ed effetto. Durante queste punizioni pubbliche esemplari era di solito lo stesso comandante a impugnare il gatto, o a girare lo schiacciapollici per torturare i ribelli e terrorizzare gli altri. Un altro popolare strumento era il cosiddetto “tormentatore”: un grande forchettone da cuoco che veniva scaldato al calor bianco e applicato alle carni del ribelle. Nulla riusciva a stimolare un comandante a esercitare il proprio potere assoluto quanto la resistenza di uno schiavo».

• Per i marinai, «la cosa più importante che offriva il commercio di schiavi era la disponibilità immediata di denaro, un anticipo di due o tre mesi di salario: quella era la via per indurre i marinai a unirsi a un tipo di attività verso cui non avevano alcuna simpatia. Un marinaio semplice poteva guadagnare per un viaggio da 4 a 6 sterline del 1760, che oggi equivarrebbero a una cifra tra i 1.400 e i 2.000 euro, somme considerevoli per una persona senza mezzi, specie se i tempi erano duri e aveva una famiglia da mantenere. A volte però il denaro andava a finire in grandi, sfrenate baldorie con i compagni».

• «I marinai delle navi negriere erano una “ciurma raccogliticcia” proveniente da “tutte le parti del mondo”. Molti, forse la maggioranza, erano britannici in senso ampio – provenienti da Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda e colonie britanniche (o nuove nazioni) d’oltremare – ma sulle navi poteva trovarsi anche un numero significativo di europei di altre nazioni, di africani, di asiatici (soprattutto indiani) e altri. (…) Molti provenivano dal litorale africano, dove parecchi, come i fante e i kru, avevano esperienze marinare. Alcuni erano grumettoes (ossia africani impiegati da residenti bianchi) che lavoravano per brevi periodi finché le navi erano sulla costa, ma c’era chi restava anche nel viaggio transatlantico».

• «Nel 1729, secondo un mercante di schiavi: “la consueta assegnazione per i marinai a bordo dei mercantili sulla suddetta costa [africana] è di cinque libbre [2,3 kg] di pane alla settimana per ogni uomo, un pezzo di manzo che pesi fra le quattro e le cinque libbre [fra 1,8 e 2,3 kg] prima della salagione, da dividersi quotidianamente fra cinque uomini, la razione di piselli e di farina essendo in genere di mezza pinta [275 cm3 circa] di piselli e mezza libbra [220 g] di farina giornalieri, finché fosse possibile”. Le porzioni potevano essere integrate da pesce quando i marinai riuscivano a pescarne. Anche il grog, e a volte il brandy, erano una parte importante del normale razionamento settimanale, e potevano essere oggetto di dispute feroci. A volte il comandante imponeva razioni ridotte, riducendo la quantità di cibo e di liquori previsti per ogni pasto comune, il che inevitabilmente dava luogo a una serie di fiorite imprecazioni, specie se le porzioni nella cabina del capitano rimanevano immutate, come in genere accadeva».

• «Sotto la guida del comandante e del secondo, ma anche dell’armiere o dell’artigliere, i marinai chiudevano a martellate le manette e incatenavano gli uomini a due a due, polso e caviglia destra di uno a polso e caviglia sinistra dell’altro. Ogni volta che gli schiavi salivano sul ponte, i marinai facevano passare una catena attraverso gli anelli delle caviglie, a gruppi di dieci, e la fissavano poi a un golfare del ponte; avevano poi il compito di controllare regolarmente i ferri, almeno due volte al giorno, mattina e sera. Le donne e i bambini in genere non venivano incatenati, a meno che non si dimostrassero riottosi».

• «Verso le dieci i marinai cominciavano a servire il pasto del mattino, che in genere consisteva di cibi africani, a seconda della regione di origine degli schiavi: riso per chi veniva dal Senegambia e dalla Costa Sopravento, granaglie per quelli della Costa d’Oro, patate dolci per quelli del golfo del Benin e del Biafra. I marinai distribuivano anche un boccale d’acqua».

• «Nel corso del pomeriggio tanto agli uomini quanto alle donne venivano distribuiti pane e talvolta tabacco e una misura di brandy; su qualche nave alle donne e alla ragazze venivano distribuite delle perline per confezionare ornamenti».

• «Il pasto pomeridiano veniva distribuito verso le quattro, e di solito consisteva di cibi europei – favette o piselli secchi, con carne o pesce salati; spesso i cuochi preparavano quello che chiamavano dabadad, il solito pastone a base di riso, che poteva contenere qualche pezzo di carne, condito con pepe e olio di palma».

• Spesso, tra gli schiavi, «alcuni rifiutavano di mangiare, o per scelta o perché erano malati, o semplicemente depressi, e li si forzava a farlo con la violenza. Lo strumento preferito era l’onnipresente gatto, usato dagli ufficiali, ma, come numerosi testimoni hanno riferito, non sempre il ricorso a questo era sufficiente: poiché molti si ostinavano a rifiutare il cibo, entravano in gioco altri mezzi di coercizione, carboni ardenti compresi e, alla fine, lo speculum oris».

• Tra le attività previste per gli schiavi sulle navi negriere, «particolarmente importante era quella che chiamavano “la danza”. Sia i medici sia i mercanti pensavano infatti che l’esercizio avrebbe giovato a mantenere gli schiavi in buona salute: perciò nel primo pomeriggio agli africani veniva chiesto di “danzare” (e su molte navi anche di cantare), cosa che poteva avvenire in vari modi, dalle danze più o meno spontanee, accompagnate da strumenti africani (più frequenti fra le donne), al sinistro sferragliare forzato di catene (più comune fra gli uomini). Alcuni si rifiutavano del tutto di prendere parte agli esercizi; altri lo facevano di malavoglia. Queste reazioni portavano alle frustate del gatto, somministrate da un ufficiale o dal nostromo».

• «L’ultimo compito del marinaio consisteva nel preparare gli schiavi per la vendita quando la nave si avvicinava al porto di destinazione. Questo (…) consisteva anzitutto nel liberare lo schiavo dalle manette e dai ferri per le caviglie circa dieci giorni prima dell’arrivo, per consentire alle piaghe di cicatrizzarsi, e comportava anche una scrupolosa pulizia, la rasatura degli uomini (della barba e a volte del capo) e l’applicazione di nitrato d’argento, detto “caustico lunare”, per cauterizzare le piaghe. I capelli grigi venivano strappati o tinti di nero. Per finire, i marinai dovevano ungere il corpo degli africani con olio di palma. Il tutto poteva considerarsi un processo di creazione di valore aggiunto e di ottimizzazione: grazie al lavoro dei marinai un carico di costosa merce umana sarebbe stato presto pronto per la vendita».

• «Lungo le coste dell’Africa occidentale i marinai s’imbattevano in una particolare barriera, (…) costituita dai microbi patogeni che facevano di quell’area la “tomba dell’uomo bianco”: la metà degli europei che andavano in Africa occidentale nel Settecento, in maggioranza marinai, moriva entro un anno. Le cause principali dell’alta mortalità erano le “febbri”, malaria e febbre gialla, entrambe trasmesse dalle zanzare, che potevano riprodursi anche all’interno della nave, nell’acqua stagnante delle sentine; altre cause di decesso erano la dissenteria, il vaiolo, gli incidenti, l’omicidio e occasionalmente lo scorbuto».

• «L’ampia diffusione delle malattie (e la mancanza di difese immunitarie), insieme alle difficili condizioni di vita e di lavoro (fatiche estenuanti, scarso cibo e dura disciplina), facevano sì che spesso sulle navi negriere gli uomini dell’equipaggio morissero in percentuali più alte di quelle degli stessi schiavi, anche se per cause diverse».

• «Quando moriva un marinaio, in genere si officiava un servizio funebre molto semplice, perché i marinai erano “gente alla buona”, che non amava le cerimonie elaborate. Se si era sulle coste dell’Africa, il comandante di solito faceva il possibile per seppellire il corpo a terra. Se si era in navigazione, il cadavere veniva cucito in un’amaca o in un vecchio pezzo di vela, e zavorrato con una palla di cannone perché affondasse rapidamente; ma anche questa modesta sepoltura incontrava difficoltà, principalmente a causa degli squali, che a volte riuscivano a fare a brani i cadaveri prima che avessero il tempo di affondare».

• Al ritorno di ogni nave, «aveva luogo una “mesta cerimonia”: la famiglia e gli amici di tutto l’equipaggio si riunivano sul molo in attesa che qualcuno a bordo leggesse ad alta voce l’elenco dei morti».

• Quando la nave raggiungeva la costa africana, «il retroterra culturale o etnico del marinaio non aveva più importanza, perché tanto sulla nave quanto sulla costa africana egli sarebbe sempre stato un “bianco”, almeno per qualche tempo, dato che la “grande macchina” creava categorie e identità razziali. Era infatti pratica comune per chiunque fosse coinvolto nel commercio di schiavi, africano o europeo che fosse, riferirsi agli uomini dell’equipaggio come “bianchi”, anche se l’equipaggio comprendeva persone di colore, chiaramente non bianche. Lo status di “uomo bianco” dei marinai garantiva che non sarebbero stati venduti sul mercato degli schiavi, e li classificava come uomini autorizzati a dispensare violenza e disciplina ai prigionieri per conto dei mercanti e dei loro capitali».

• «Ogni nave aveva al proprio interno sia un processo di “deculturalizzazione” dall’alto sia un processo di creazione di cultura dal basso. Nell’ombra della morte, i milioni che fecero il gran passaggio atlantico in una nave negriera forgiarono nuovi “modi” di vita: nuovi linguaggi, nuovi mezzi di espressione, nuove forme di resistenza, e un nuovo senso di comunità».

• Per gli schiavi «il processo di spoliazione iniziava, sotto la minaccia di violenza dei trafficanti bianchi e neri, dagli indumenti, per estendersi poi al nome, all’identità, e in certa misura – così speravano i nuovi aguzzini – alla cultura».

• «Cannibalismo era uno dei termini chiave in quella guerra che andava sotto il nome di tratta degli schiavi: da lungo tempo infatti gli europei giustificavano quel commercio, e più in generale la schiavitù, sostenendo che gli africani fossero selvaggi cannibali da civilizzare attraverso l’esposizione alla vita e al pensiero della più “progredita” Europa cristiana. Dal canto loro, molti africani erano specularmente convinti che a essere cannibali fossero quegli strani uomini pallidi, venuti con le “case con le ali” per mangiare le loro carni e bere il loro sangue».

• «Forse i più odiosi simboli del controllo a bordo della nave negriera erano le manette, i ferri per le caviglie, i collari e le catene, insomma le ferramenta della schiavitù. (…) C’erano manette di varie fogge, da un tipo simile a quelle odierne ad altre fatte di due cerchi di metallo uniti fra loro. I ferri per le caviglie, chiamati anche ceppi (bilboes), consistevano di una barra di ferro diritta lungo la quale si facevano scivolare due staffe di metallo a U. La barra finiva a un’estremità con un fermo e all’altra con una serratura o, più comunemente, con un anello, attraverso il quale si faceva passare una catena quando i prigionieri salivano a due a due sul ponte. Lo strumento di costrizione più punitivo era riservato agli schiavi più turbolenti, al cui collo veniva chiuso un grosso collare di ferro, che rendeva difficile non solo muoversi, ma anche stare sdraiati o riposare: lo scopo era limitare i movimenti e domare le eventuali resistenze».

• «La regola generale era che ogni uomo doveva avere ferri ai polsi e alle caviglie, mentre le donne e i bambini venivano lasciati liberi, ma c’era molta varietà al proposito. Alcuni comandanti, a quanto sembra, incatenavano sempre certi gruppi africani (fante, ibibio), ma non altri (chamba, angola), che ritenevano meno inclini alle ribellioni; gli asante potevano essere incatenati o no, a seconda di come e perché erano giunti sulla nave. (…) Le donne che si dimostravano troppo indocili venivano anch’esse messe ai ferri senza troppi riguardi».

• «Agli albori del commercio di schiavi gli europei affermavano il controllo sui corpi marchiandoli a fuoco, imprimendo nella carne il simbolo della proprietà europea, di solito su una spalla, sul torace o su una coscia. La marchiatura era più usuale se l’acquirente agiva in rappresentanza di una grande compagnia con patente regia, come la Royal African Company, o la South Sea Company. (…) Ma la pratica della marchiatura sembra diminuire con il tempo: a inizio Ottocento viene di rado menzionata».

• «Ad affermarsi nel corso del Settecento fu l’adozione di un sistema di contabilità con il quale a bordo delle navi si realizzava la riduzione di ogni prigioniero alla fredda anonimità di un numero: a ogni persona comprata si assegnava un numero e, a volte, un nome nuovo. L’utilizzo dei numeri era comunque più pratico, e quindi più diffuso, tanto per i comandanti quanto per i medici. (…) I comandanti numeravano i vivi quando salivano a bordo; i medici numeravano i morti quando li gettavano in mare».

• «A bordo buona parte dei prigionieri lavorava, svolgendo una gran varietà di mansioni vitali nell’economia della nave: le più comuni erano quelle “domestiche” in senso ampio, che facevano parte dei ripetitivi compiti quotidiani», come la preparazione dei cibi e la pulizia dei loro alloggiamenti. «Qualcuno trovava una nicchia nell’economia della nave, ad esempio lavando e rammendando gli indumenti dell’equipaggio, spesso venendo anche “pagato” per questi compiti, ad esempio con un bicchiere di brandy, o con tabacco e razioni di cibo supplementari».

• «Quando in un viaggio del 1803-1804 dieci marinai disertarono dalla Mercury, il loro “posto fu preso da schiavi negri”. Più spesso, tuttavia, a chiamare gli schiavi a svolgere i compiti dei marinai non erano le diserzioni, ma le malattie: quando diciannove membri dell’equipaggio (su ventidue) della Thetis caddero malati nel 1760, “facemmo vela con l’aiuto dei nostri stessi schiavi, senza i quali non sarebbe stato possibile far navigare la nave”, scrisse il carpentiere, che stava perdendo progressivamente la vista a causa di un “malanno” agli occhi. Molti comandanti dichiararono che non avrebbero potuto raggiungere il porto di destinazione senza il lavoro degli schiavi».

• «I ragazzi africani a bordo della nave lavoravano con i marinai, e anzi alcuni furono istruiti a quel mestiere: in parte erano schiavi riservati per contratto al comandante, che venivano addestrati per aumentarne il valore.

• Tra gli stessi schiavi, «i ragazzi a volte schernivano gli adulti: “non è inconsueto che ragazzi schiavi portati a bordo sbeffeggino gli uomini che, essendo ai ferri, non possono facilmente inseguirli e punirli di ciò”».

• «Ogni tanto, incontrollabile e catastrofica, scoppiava un’epidemia, e per questo la nave negriera si era guadagnata l’appellativo di “lazzaretto marino” o “bara galleggiante”. (…) Dal ponte inferiore salivano, fievoli e spettrali, le grida incessanti: yarra! yarra!, “stiamo male!”, o kickeraboo! kickeraboo!, “stiamo morendo!”».

• Stando ai giornali sanitari di fine Settecento, «la malattia killer per eccellenza era la dissenteria (bacillare e amebica), che al tempo era chiamata flux, o bloody flux. La seconda causa in ordine di importanza aveva l’etichetta molto generica di “febbri”, che medici potevano distinguere in “nervose”, “convulse”, “intermittenti”, “infiammatorie”, “putride” e “maligne”: fra queste vi era la malaria (…) e la febbre gialla, anche se molti africani della costa erano parzialmente immunizzati a queste malattie. Altre cause di morte erano il morbillo, il vaiolo e l’influenza, meno frequenti, ma comunque in grado di devastare una nave in qualunque momento». E poi ancora lo scorbuto, la disidratazione e, più raramente, «depressione (chiamata fixed melancholy), sepsi (mortification), ictus (apoplexy), arresto cardiaco (decay of the muscular functions of the Hart) nonché, in misura minore, parassitosi (worms) e malattie della pelle come la framboesia (yaws). Sui giornali compaiono anche cause meno precise, come “infiammazione”, “convulsioni” e “delirio”. Infine, fra le cause sociali (contrapposte a quelle fisiologiche) di morte, comparivano “malumore”, “saltato fuori bordo”, “strangolato da sé” e “insurrezione”».

• Sulle navi negriere non mancavano, tra gli schiavi, forme di spontanea espressione culturale, quali «canti e danze (quelle volontarie, non forzate), il suono dei tamburi (tutta la nave, essendo di legno, era un gigantesco strumento a percussione) e la narrazione di storie. Molti testimoni raccontano di storie “meravigliose e sorprendenti” degli africani, riferendosi ovviamente a quelle della tradizione orale, e di narrazioni delle donne “sul piano delle favole di Esopo”, del resto egli stesso africano. Un’altra forma di espressione culturale erano le recite teatrali, che in genere si rappresentavano – con significati sociali più ampi e forse terapeutici – sul ponte di coperta, come se la nave fosse un palcoscenico».

• «Uno dei suoni ricorrenti sulle navi negriere era il canto. Anche i marinai a volte suonavano qualche strumento o cantavano, ma a cantare giorno e notte erano molto più comunemente gli africani; a volte erano forzati a farlo, ma spesso lo facevano “di propria volontà”. Tutti, a quanto pare, vi prendevano parte: “gli uomini cantano i canti del loro paese”, della loro cultura, che fanno parte e parlano delle loro tradizioni, spiegò un ex comandante di nave negriera, “e i ragazzi danzano per divertirli”. Ma nei canti a bordo della nave, a detta di tutti, il ruolo principale era svolto dalle donne».

• «Il canto era un essenziale mezzo di comunicazione fra persone che si voleva tenere divise. Il barricado che attraversava il ponte di coperta poteva separare gli uomini dalle donne, perfino impedire che si vedessero, ma non poteva bloccare i suoni o impedire che gli schiavi si udissero e conversassero fra loro. (…) Naturalmente era quello il punto centrale: cantare in lingua africana permetteva fra i prigionieri uno scambio di comunicazioni che i comandanti e i marinai europei non potevano comprendere. Cantare serviva anche a ritrovare parenti, persone che venivano dallo stesso villaggio o paese, e a identificare i gruppi culturali presenti sulla nave: era un modo di trasmettere informazioni importanti sulle condizioni, sul trattamento, sulle forme di resistenza, sulle novità e sulla destinazione della nave, quindi per creare una comune base di conoscenze e per costruire un’identità collettiva».

• «Le insurrezioni a bordo delle navi negriere non avvenivano mai per una reazione incontrollata, ma erano invece il frutto di un calcolato impegno umano: segrete comunicazioni, pianificazione minuziosa, esecuzione scrupolosa. (…) In genere si dava per scontato che a ribellarsi fossero più facilmente gli uomini, e per questo li si teneva ammanettati e incatenati quasi in permanenza, sia sottocoperta sia sul ponte. Ma anche le donne e i ragazzi svolgevano un ruolo importante nelle rivolte, e non solo per la loro maggiore libertà di movimento sulla nave: nelle sollevazioni, anzi, le donne ricoprivano a volte ruoli di comando. (…) Quanto ai ragazzi, si sapeva che non solo passavano utensili affilati agli uomini sottocoperta, ma che trasmettevano anche informazioni all’equipaggio sui complotti in corso».

• «Normalmente l’esito di queste insurrezioni era la sconfitta degli insorti, con il suo strascico di torture, ferocia e terrore: chi aveva svolto un ruolo di guida nell’insurrezione sarebbe servito da esempio agli altri, e sarebbe stato variamente fustigato, trafitto, tagliuzzato, stirato, fratturato, mutilato degli arti o decapitato, a seconda di quanto surriscaldata fosse l’immaginazione del comandante della nave negriera. (…) A volte i corpi fatti a pezzi degli sconfitti venivano sparsi fra gli altri prigionieri per tutta la nave, perché vedessero cosa capitava a chi osava ribellarsi».

• Uno dei padri del movimento abolizionista, Thomas Clarkson (1760-1846), «descrisse le “scene del più luminoso eroismo [che] hanno ripetutamente luogo nelle stive o sui ponti delle navi negriere”: così grandi e nobili erano quegli atti che “i loro autori spesso eclissavano con lo splendore dei loro gesti i celebri eroi di Grecia e Roma”».

• Citando l’abolizionista Thomas Clarkson, «v’è la credenza, condivisa da tutti gli africani, che non appena la morte li abbia liberati dalle mani dei loro oppressori, subito saranno portati in volo alla natie pianure, dove torneranno all’esistenza, per godere la vista degli amati conterranei e per trascorrere un’intera nuova vita nella serenità e nella gioia: e tale è la forza di questa convinzione su di essi, da portarli spesso all’orribile estremo di porre fine alla propria vita». Accortisi di ciò, «i comandanti presero a infierire sui cadaveri degli schiavi, in piena vista degli altri, a scopo “dissuasivo”. (…) Fra i tanti ruoli che il comandante delle navi negriere ricopriva nell’economia capitalistica in ascesa ne va quindi aggiunto un altro: quello del terrorista».

• «La presenza sulle navi negriere di persone imparentate fra loro era un fenomeno reale e abbastanza comune. (…) Succedeva ripetutamente che sulle navi negriere “vengano portati a bordo i parenti, fratelli e sorelle, mogli e mariti, a volte in tempi diversi”. I fratelli maschi potevano mangiare insieme, come facevano le sorelle, ma la separazione fra uomini e donne sulla nave rendeva difficile mantenere i contatti fra parenti di genere diverso: le comunicazioni fra mariti e mogli, per esempio, “venivano scambiate per mezzo dei bambini che potevano scorrazzare fra i ponti”».

• «Il comandante James Bowen descrisse il processo di formazione di sodalizi fra gli schiavi: sulla sua nave c’erano molti africani imparentati fra loro, ma non si trattava, precisò, di parentele tradizionali, bensì di qualcosa di più recente. Erano “persone che avevano sviluppato un tale attaccamento da diventare inseparabili, spartendo il cibo e dormendo sullo stesso tavolaccio durante il viaggio”. In breve, avendo condiviso la violenza, il terrore e le difficili condizioni di vita, come pure la resistenza, il senso di comunità, e in definitiva la lotta per la sopravvivenza nel ponte inferiore della nave negriera, avevano costruito “nuovi legami” ed erano ora “compagni di bordo”».

• Un medico, il dottor Thomas Winterbottom, «avendo potuto osservare le relazioni parentali sia in Africa sia a bordo delle navi e nel Nuovo Mondo, (…) mostrò come fosse la nave stessa a creare il legame “parentale”: “è degno di menzione che le sfortunate persone andate alle Indie Occidentali sulla stessa nave conservino anche dopo un forte e affettuoso legame fra di loro: con essi il termine ship-mate [compagno di bordo] è quasi equivalente a quello di fratello o sorella, al punto che è raro veder sorgere fra loro relazioni matrimoniali”».

• «Improvvisamente, nel 1788-89, gli abolizionisti, ormai consapevoli che quanto avveniva era moralmente indifendibile, decisero che tali navi fossero tutte rimandate a casa e che bisognasse far conoscere quella barbarie in Inghilterra, nei porti di Londra, Liverpool e Bristol, e in America, a Boston, New York e Filadelfia. Così gli oppositori del commercio di schiavi diedero il via a un’intensa campagna volta a far conoscere nella sua realtà la tratta al pubblico metropolitano dei lettori, per portare quelle navi, che avevano così a lungo operato fuori da ogni parametro di civiltà, sotto gli occhi del pubblico scrutinio e, auspicavano, sotto un nuovo controllo politico. Per dare un’idea concreta di cosa fosse una nave negriera si utilizzarono molti mezzi, ad esempio pamphlet, conferenze, lezioni e poesie, ma il più efficace fu probabilmente quello visivo: le immagini delle navi negriere pubblicate dagli abolizionisti dimostrarono di essere il mezzo di propaganda più utile mai inventato da un movimento d’opinione. La più nota di queste immagini, allora come oggi, è quella della nave negriera Brooks, disegnata e pubblicata da William Elford nel novembre del 1788 per la sede di Plymouth della Society for Effecting the Abolition of the Slave Trade».

• «Il piano di costruzione della nave negriera Brooks, che mostrava 482 stipatissimi posti schiavo distribuiti fra i vari ponti del bastimento, contribuì in modo determinante al successo del movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi».

• Il grande abolizionista Thomas Clarkson, «giovane e alquanto ingenuo ministro del culto della media borghesia educato a Cambridge», bisognoso di informazioni di prima mano circa la tratta degli schiavi, aveva dapprima provato a reperirne presso i mercanti e i capitani presenti nei porti inglesi, ottenendo solo rifiuti, insulti e minacce di morte. Si mise allora alla ricerca di marinai che avessero lavorato su navi negriere, e con loro ebbe molta più fortuna. «Rintracciò i disertori, gli azzoppati, i ribelli, gli sbandati, quelli che avevano sensi di colpa: in breve, i dissidenti che conoscevano la tratta degli schiavi dall’interno e su di essa avevano storie agghiaccianti da raccontare. Avrebbe usato quelle storie per trasformare quel traffico, che per molti era una nozione astratta e lontana, in qualcosa di concreto, di umano e di vicino. (…) Il lavoro di Clarkson con i marinai rese possibile la diffusione delle esperienze dei proletari, trasferendo al grande pubblico le loro esperienze e conoscenze. Creò un collegamento fra i marinai delle navi negriere e i parlamentari che conducevano le indagini sul commercio di umani, e di qui a un pubblico avido di informazioni sulle cose orribili che erano avvenute in buona parte fuori dai confini della loro esperienza».

• «Clarkson diede diffusione alle loro storie sulle due sponde dell’Atlantico in forma sia orale sia scritta, con discorsi (William Wilberforce), conferenze (Samuel Taylor Coleridge), poesie (Robert Southey, Hannah More), sermoni (Joseph Priestley), illustrazioni (Isaac Cruilshank), testimonianze, tabelle statistiche, articoli, pamphlet e libri. L’immagine e la concreta realtà della nave negriera, come ogni altro risultato delle ricerche di Clarkson, furono disseminate per ogni dove. L’immagine della Brooks fu riprodotta e distribuita in migliaia di copie a Parigi, Edimburgo e Glasgow, e dall’altra parte dell’Atlantico a Filadelfia, New York e Charleston, e a Newport e Providence. (…) La Brooks divenne l’immagine centrale dell’epoca, affissa nei locali pubblici durante le campagne promozionali e nelle case e nelle taverne in tutta l’area atlantica».

• «Ogni singolo abolizionista avrebbe battuto sullo stesso tasto degli orrori della nave negriera: le bastonature, la crudeltà noncurante, la tirannia dei comandanti, le malattie e la mortalità, in breve tutti i temi identificati da Clarkson nei giorni trascorsi con i marinai. Se il traffico di schiavi era sopravvissuto così a lungo grazie al fatto che si svolgeva lontano dalla metropoli, i suoi oppositori erano ora decisi a portarne in ogni casa la miasmatica e brutale realtà così che nessuno potesse sfuggirle».

• «Usando l’immagine della Brooks e ogni altro mezzo di agitazione e di persuasione di cui disponevano, gli abolizionisti finirono col costringere il pubblico inglese e americano ad affrontare seriamente il problema del traffico di schiavi. La presa di coscienza si ebbe, in modi diversi sulle due sponde dell’Atlantico, più o meno negli stessi anni, dal 1787 al 1808, e richiese una collaborazione e un considerevole coordinamento transatlantico fra gli attivisti su mezzi e obiettivi. Il risultato fu in entrambi i casi l’abolizione formale della tratta: non era più legalmente consentito a navi come la Brooks di salpare da porti inglesi o americani per comprare schiavi in Africa e portarli alle piantagioni delle Americhe».

• «Il traffico illegale continuò per molti anni, ma ormai si era raggiunto un momento decisivo nella storia dell’umanità: l’abolizione, insieme all’importantissimo evento coevo della rivoluzione haitiana, segnò l’inizio della fine dell’era dello schiavismo».

• «Le navi negriere diventarono più piccole, veloci ed economiche dopo l’abolizione: questo per rendere più difficile la localizzazione e sfuggire alla cattura da parte delle navi in perlustrazione, oltre che per contenere la perdite in caso di cattura».

• «Al tempo dell’abolizione, circa 3,3 milioni di schiavi lavoravano nel “sistema delle piantagioni” atlantico, i cui padroni potevano essere americani, britannici, danesi, olandesi, francesi, portoghesi o spagnoli; all’incirca 1,2 milioni lavoravano negli Stati Uniti, e altri 700.000 nelle colonie inglesi dei Caraibi. La loro produzione era sbalorditiva: nel solo 1807 l’Inghilterra importò per il consumo interno 135.000 tonnellate di zucchero e 143.000 ettolitri di rum, tutti prodotti da schiavi, come pure 7.400 tonnellate di tabacco e 33.000 tonnellate di cotone, anche queste quasi interamente prodotte dagli schiavi. Nel 1810 la popolazione di schiavi negli Stati Uniti produsse 42.200 tonnellate di cotone e gran parte delle 38.100 tonnellate di tabacco; gli stessi schiavi in quanto beni di proprietà erano valutati 316 milioni di dollari dell’epoca (pari a quasi 22 miliardi di euro)».

• «Come W.E.B. Du Bois ha osservato, la tratta degli schiavi fu “il dramma più spettacolare degli ultimi mille anni della storia umana”: “la deportazione di dieci milioni di esseri umani dalla cupa bellezza del continente natio al nuovo Eldorado dell’Occidente” fu “una discesa agli inferi”, a un luogo di tormenti e di sofferenza».