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 2014  novembre 02 Domenica calendario

RIVA, QUANDO UN UOMO È UN’ISOLA

C’era una volta Gigi Riva, il più grande attaccante italiano del Dopoguerra, se non di tutti i tempi. C’è ancora per fortuna, sta per tagliare il traguardo volante dei 70 come agli altri grandi messicani è già toccato prima di lui, due anni fa Mazzola, l’anno scorso Rivera e Boninsegna. Ma non ha più voglia di raccontarsi, perché «suonala ancora, Sam» non è mai stato il suo genere nemmeno nel fior degli anni, e non lo è a maggior ragione in una stagione in cui più i ricordi sono belli e più se non sei al massimo dei giri è doloroso rievocarli.
C’era una volta, perché quella di Gigirriva è la favola di un tempo lontano. Quando il calcio nasceva all’oratorio, quando una giovane, grande speranza del Laveno prima e del Legnano poi sì di pomeriggio si allenava, ma la mattina la passava a lavorare in officina. Quando era un lusso un paio di scarpe nuove, figurarsi un cappotto, e quei pochi soldi dei primi premi-partita servivano per mettere insieme il pranzo con la cena, non il tatuaggio d’ordinanza con la cresta colorata. Aveva anche lui, interista d’elezione, i suoi bravi idoli. E gli scriveva, a Skoglund, a Nyers, per provare a compensare quel vuoto pneumatico che le morti del padre a 9 anni e della madre a 16 avevano scavato dentro di lui. Chissà cos’avrebbe dato il postino di Leggiuno, che lo sapeva, per infilargli nella buca una lettera, una cartolina, una foto che non arrivarono mai.
Arrivò l’offerta del Cagliari, proprio quando sembrava che a contenderselo fossero Inter e Bologna. Gigi salì sul primo aereo della sua vita senza nemmeno ben sapere dove fosse la Sardegna. Lontana, ad ogni buon conto, dalle radici lombarde, da quei pochi affetti rimasti, dagli amici d’infanzia e di pallone. Giurò a se stesso in quei primi mesi sull’isola che ne sarebbe fuggito appena possibile. Per poi, poco alla volta, innamorarsene perdutamente. E respingere con perdite, prima e soprattutto dopo lo straordinario scudetto del 1970, chiunque si azzardasse a coprirlo d’oro per portarlo alla Juventus, all’Inter, al Milan. Compreso Zeffirelli, che non per la Fiorentina l’avrebbe voluto ma per il suo storico film su San Francesco. Lì Gigi per un attimo vacillò, perché a far compagnia alla lusinga c’era un cachet da 400 milioni. Del 1971. A salvarlo, come lui stesso ha raccontato, fu Nino Benvenuti che aveva invece accettato poco tempo prima di girare un western con Giuliano Gemma. Boiata pazzesca, l’antidoto che serviva.
La favola, come si vede, è già diventata romanzo. Ma è la leggenda la dimensione, la cornice in cui va inquadrata la carriera di Gigirriva. Due gambe immolate sull’altare della patria, tanto per cominciare, e le minuscole servono ad attutire una retorica che è comunque inevitabile. Perché andò proprio così, un primo perone nel 1967 in uno scontro allo Stadio Olimpico di Roma con il portiere del Portogallo, e un secondo con distacco dei legamenti grazie al terzino austriaco Hof nell’autunno del 1970. Perché era uno, Riva, che la gamba non la levava mai. E la testa? Se c’è un’etichetta di cui è sempre andato fiero è che lui ce la metteva anche dove i difensori esitavano ad andare con la gamba. È tuttora il capocannoniere azzurro di tutti i tempi, 35 gol in 42 partite. A dispetto di quei due gravissimi infortuni, dei mesi che gli occorsero per guarirne, di un debutto tardivo per via della miopia di Fabbri, e di tutta l’erba un fascio che seguì al disastroso Mondiale tedesco 1974.
Settanta oggi. E ‘70 allora, l’anno del trionfo agguantato con il Cagliari e soltanto sfiorato in Messico con l’Italia. Tutto nel giro di un paio di mesi. A primavera lo scudetto di Albertosi e Cera, di Domenghini e Gori, ma innanzitutto suo e di quel grande allenatore-filosofo che fu Scopigno. In un’epoca in cui, e sono di nuovo parole sue, per avere un rigore senza indossare le maglie a strisce dovevi presentare il certificato medico. Poi a giugno il Mondiale, cui arrivò già fatalmente un po’ scarico e solo a tratti riuscì a essere il Riva che avevamo imparato ad amare.
Di quella prima metà del mese di giugno ricordo - senza bisogno di ripassarlo per immagini - soprattutto le intenzioni, gli slanci frenati dall’altura, le sue mani troppo spesso sui fianchi. Il resto della carriera l’ho rivisto per sommi capi in questi giorni perché parliamo di quasi mezzo secolo fa, molto altro calcio è passato sotto i ponti, ed erano talmente più belli quei tempi per noi degli anni ’40 che il rischio di andare oltre c’era.
Vi basterà un’occhiata su Youtube per convenire che oltre era lui, Gigi Riva. Per noi breriani, Rombo di Tuono.
Gigi Garanzini, La Stampa 2/11/2014