Paolo Mastrolilli, La Stampa 2/11/2014, 2 novembre 2014
NINA, KENT, NANCY E GLI ALTRI I SOPRAVVISSUTI ALL’EBOLA
«Alcuni ti vengono incontro, ti abbracciano, ti stringono la mano. Altri fanno attenzione a restare lontani almeno un metro».
Ecco la vita dopo l’Ebola, secondo Nancy Writebol, la missionaria che è stata uno dei primi americani ad ammalarsi e guarire. Piccoli episodi, in cui ti senti trattato come un untore all’epoca della peste nei «Promessi Sposi», e tragedie personali come quella di George Beyan, che è sopravvissuto alla malattia in Liberia, ma ha perso il figlio di 5 anni, William.
Il mondo si sta faticosamente abituando a questa nuova categoria di esseri umani: quelli che hanno contratto il virus più pauroso del momento, ma sono riusciti a batterlo. Negli Stati Uniti sono nove; in Africa centinaia di persone, incluse quelle che hanno subito il contagio, ma non hanno mai sviluppato la malattia.
Kent Brantly, il medico missionario che è stato il primo a guarire, ha descritto così il suo incubo: «Quando ho cominciato a vomitare sangue, ad avere la diarrea ogni quindici minuti, ho pensato che non sarei mai più uscito dalla mia stanza. Probabilmente sarei morto lì, in quel letto a Monrovia». Rick Sacra, il medico che aveva preso il posto di Brantly dopo il contagio, ha confessato di aver pianto, quando il test è risultato positivo anche per lui: «Ho pianto pensando a cosa l’Ebola avrebbe fatto alla mia famiglia e alla mia missione. Poi però la fede in Dio mi ha calmato».
Nina Pham, l’infermiera contagiata a Dallas mentre curava il primo caso diagnosticato in America, Thomas Duncan, ieri ha assaporato la gioia di riabbracciare Bentley, il suo cagnolino finito in quarantena pure lui. In Spagna, invece, Maria Teresa Romero Ramos ha dovuto piangere Excalibur, ucciso per il timore che passasse il virus a qualche essere umano.
In Africa sono frequenti i casi come quello di Mohammed e Zena, due malati della Guinea che dopo essere guariti sono diventati ambasciatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per spiegare ai concittadini come evitare e trattare l’Ebola. Altri, come il dottor Morris Ibeawuchi in Nigeria, hanno sfruttato l’immunità acquisita per tornare ad aiutare i nuovi contagiati. Si sentono dotati di poteri speciali, e quindi investiti di una responsabilità verso gli altri.
Secondo il professor Amar Safdar, esperto di malattie infettive all’Nyu Langone Medical Center, gli effetti di lungo termine della malattia devono ancora essere studiati in maniera approfondita. Al momento si sa che non lascia segni evidenti come la lebbra o la polio, perché è un virus e quando il sistema immunitario riesce a sconfiggerlo sparisce dal corpo. Però ci sono effetti che rimangono: bassa pressione dovuta alla perdita di sangue, infiammazioni croniche agli occhi e alla giunture, provocate proprio dalla reazione del sistema immunitario. A volte i pazienti sviluppano l’uveite, che può portare alla cecità. L’incubazione dura 21 giorni, ma secondo l’Oms l’Ebola è stato ritrovato nel seme di un sopravvissuto 61 giorni dopo l’infezione: lui era guarito, ma attraverso l’attività sessuale poteva essere ancora contagioso. Poi ci sono le persone che sono state colpite dal virus, ma non hanno mai sviluppato la malattia, per una forma di immunità genetica congenita. Girano per strada, e forse neppure lo sanno. Non sono contagiose, ma potrebbero rivelare agli scienziati informazioni preziose.
Il problema è il panico, provocato dall’ignoranza. E quindi l’incertezza su come la società tratterà queste persone, che insieme ammira e teme. Ieri i medici del Bellevue Hospital di New York hanno aggiornato le condizioni del collega Craig Spencer, da serie a stabili. Ma quando uscirà, speriamo, chi tornerà a giocare con lui a bowling a Williamsburg?
Paolo Mastrolilli, La Stampa 2/11/2014