Massimiliano Panarari, La Stampa 2/11/2014, 2 novembre 2014
RUTELLISMO, START-UP DEL RENZISMO
Se l’estremismo era la malattia infantile del comunismo, il «rutellismo» lo si potrebbe considerare l’atto iniziale (e la scena primigenia) del renzismo. O, sempre a suon di metafore, la sua start-up. Nella post-politica di Matteo Renzi c’è infatti parecchio dell’eredità di Francesco Rutelli segretario della Margherita e candidato primo ministro dell’Ulivo. Come pure del lascito da primo cittadino di Roma, punta negli Anni Novanta della compagine di quel «partito dei sindaci» scrutato con malcelata diffidenza da alcuni dei leader principali della sinistra postcomunista (in seguito rottamati), e divenuto fulcro della narrazione e retorica renziane prima dell’arrivo a Palazzo Chigi. Il Campidoglio di quegli anni, difatti, è stato il vivaio di molti degli esponenti dell’inner circle del premier, dal portavoce Filippo Sensi al freschissimo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni; e, analogamente, dalla stagione ambientalista di Rutelli provengono altri dirigenti di spicco del nuovo corso renziano, come la pattuglia di estrazione legambientina. Insomma, il rutellismo come incubatore e nocciolo duro del renzismo, a partire dal fatto (lo ricordava ieri Fabio Martini) che la carriera politica del presidente del Consiglio ha preso la volata dalla presidenza della Provincia di Firenze, a cui era approdato proprio in «quota Rutelli».
Ma le affinità elettive si sprecano specialmente sotto il profilo della piattaforma politica, con la rivendicazione, che fu rutelliana, di un centrosinistra da rivestire di connotati sempre più post-ideologici. A ben guardare, infatti, il concept di «partito liquido» non è tanto (o non soltanto) di Walter Veltroni (il quale, innanzitutto per ragioni personali, sentimentali e di formazione politica, non è mai riuscito a strappare davvero e fino in fondo con certe formule e «visioni» della sinistra storica), ma ancor più di colui che si proponeva come la declinazione italica della terza via. La rottamazione ante litteram della forma-Partito di matrice gramsciana (e togliattiana) era assolutamente nelle corde (e nei desiderata) dell’ex radicale ed ex verde che fuoriusciva da un orizzonte di politica postmoderna e post-materialista antitetico alle macchine e organizzazioni di massa novecentesche. Memore anche della lezione della politica-spettacolo di Pannella, Rutelli ha spinto l’acceleratore sulla comunicazione all’americana (adottandone il marketing e invitando gli spin doctor dei democratici), e ha modificato il look del politico (giocando, da «piacione», a recitare il Clinton italiano, e non lesinando perciò il ricorso alle camicie immacolate). Liberal e filo-atlantista in politica estera, si era inventato, a imitazione del New Labour blairiano, il Big Talk che, visto oggi, assomiglia tanto alla Leopolda.
Poi, è vero, mancava la rottamazione in senso stretto, ma c’era la competition – e «senza far prigionieri» – per l’egemonia con gli eredi del Pci, e si intravedeva già distintamente la famosa «vocazione maggioritaria»… Vi ricorda qualcuno?
@MPanarari
Massimiliano Panarari, La Stampa 2/11/2014