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 2014  novembre 02 Domenica calendario

LA SFIDA-CHIAVE DELLA RICETTA AMERICANA

Gli elicotteri della Federal Reserve hanno smesso di sparpagliare soldi sull’economia Usa.
La settimana scorsa ha segnato la fine di sei anni di stimolo economico in cui la Fed ha pompato quasi duemila miliardi nei mercati Usa. Con l’economia in ripresa, anche se lenta, la banca centrale ha deciso di mettere via il portafoglio che aveva usato per comprare migliaia e migliaia di obbligazioni e tenere i tassi d’interesse bassi.
Gli elicotteri stanno per essere messi negli hangar, ma la missione è stata compiuta? Tra i banchieri di Wall Street, i blog degli esperti e persino al bar dello sport, le domande sono le stesse: Ha funzionato? Ne è valsa la pena? Si poteva fare altro?
I quesiti contano perché ora la staffetta dello stimolo passa ad altri. Alla Banca Centrale Europea, che ha studiato il copione degli americani e tenterà di tradurlo in un programma più consono all’audience continentale. E alla Banca del Giappone, che proprio venerdì ha sorpreso i mercati con nuove misure per tentare di risuscitare la propria economia da un coma decennale. Francoforte e Tokyo devono sperare che Washington abbia azzeccato la tattica giusta per ritornare a crescere, e che la ripresa non sia dovuta solo a fortuna o tempismo.
Il dramma e il fascino dell’economia è che è una scienza teorica che deve essere messa in pratica. Non è facile capire se i massimi sistemi disegnati a tavolino avranno gli effetti desiderati quando vengono introdotti tra esseri umani.
Per chi, come me, ha vissuto l’esperimento americano sin dall’inizio, il fatto più saliente è proprio che si è trattato di un esperimento, una rischiosa scommessa sulle sorti dell’economia americana, dettata più dalla disperazione che dalla razionalità.
Per capire, bisogna ritornare al settembre 2008, al disastroso crollo di Lehman Brothers. Con l’economia mondiale sull’orlo della recessione, i mercati nel caos più totale e il commercio internazionale paralizzato, la Fed era con le spalle al muro.
Immaginate l’economia come un’automobile. I tassi d’interesse sono la chiave di accensione, lo strumento che, in condizioni normali, permette alle banche centrali di controllare l’attività economica. Ma nel 2008, la chiave girava a vuoto: i tassi erano già a zero e l’economia non ripartiva.
Il sistema bancario è la trasmissione, l’infrastruttura che dissemina i dettami della banca centrale tra imprenditori e consumatori. Dopo Lehman, però, quasi tutte le banche erano rotte: senza soldi, senza fiducia, senza voglia di fare.
La disoccupazione è il tachimetro, un segnale fondamentale della velocità di crociera di un’economia. E anche lì, sei anni fa, i numeri erano da panico.
La Fed prese una decisione radicale: se la macchina non funziona, bisogna salire in elicottero e incominciare a spargere denaro sul vasto continente americano. Gli economisti lo chiamano «quantitative easing», tutti gli altri «QE», come l’enorme barca da crociera con le iniziali della Regina Elisabetta d’Inghilterra. E il QE americano fu lanciato da un altro monarca, Ben Bernanke, il capo, ineletto, della Fed.
Anni dopo, Bernanke, che si meritò il soprannome di «Helicopter Ben», il Ben dell’elicottero, ha ammesso di non aver avuto scelta. Far niente avrebbe esacerbato la recessione e forse portato a un remake della Grande Depressione degli Anni 30. Il QE offriva un barlume di speranza.
L’idea è abbastanza semplice: comprare obbligazioni sui mercati aumenta i prezzi dei beni del Tesoro e tiene i tassi d’interesse bassi (prezzi e tassi si muovono in maniera inversa). Questo, a sua volta, offre denaro a poco prezzo alle imprese, che possono investire e assumere, e ai consumatori, che possono prendere mutui e spendere. Il risultato è, o dovrebbe essere, la crescita del prodotto interno lordo.
Dico «dovrebbe essere», perché le prove non ci sono. E’ vero che l’economia americana ha evitato la depressione e che ora sta crescendo intorno al 3%, ben più di Europa e Giappone. Ed è vero che la disoccupazione è quasi la metà dei tempi di Lehman. Ma nessuno, nemmeno Helicopter Ben, può dire con certezza che la ripresa non sarebbe arrivata senza il QE.
I numeri sono poco chiari. Durante il «QE 3», l’ultima fase di stimolo iniziata due anni fa, l’economia americana ha creato 2,6 milioni di posti di lavoro l’anno, più dei 2,2 milioni creati nei dodici mesi precedenti ma non abbastanza da attribuire la crescita alle politiche della Fed. Anche altri dati - sugli investimenti delle imprese, le spese dei consumatori e la salute delle banche - non sono definitivi.
I due grandi beneficiari del QE - e su questo non c’è nessun dubbio - sono stati gli investitori, nei mercati azionari e dei beni del tesoro americani, e i consumatori, che si sono potuti permettere di rifinanziare il mutuo a tassi molto più bassi. Due corti importanti dell’economia Usa ma non decisive e certo non abbastanza grandi da giustificare un programma di questa portata.
L’altra certezza è che i molti esperti che avevano paura che stampare denaro per il QE portasse all’inflazione hanno avuto torto.
Quest’ ultimo elemento rivela la vera utilità dello stimolo americano: il QE funziona più come manovra difensiva che strategia d’attacco. E’ un catenaccio economico che ha evitato la Depressione senza creare inflazione o altre conseguenze nefaste ma che probabilmente non aiuta più di tanto la crescita o l’occupazione.
Meglio di niente. E’ un slogan un po’ triste per la Bce e le altre banche centrali che vogliono seguire l’esempio della Fed.
Ma quando l’alternativa è il disastro economico, vale la pena chiamare gli elicotteri.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. Francesco.guerrera@wsj.com
Twitter: @guerreraf72
Francesco Guerrera, La Stampa 2/11/2014