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 2014  novembre 02 Domenica calendario

“GRANDI AUTORI E DIALOGHI PAZZESCHI: RECITARE È STATO FACILE”

[Intervista a Giovanna Ralli] –
Caratteri del tempo in cui Giovanna Ralli fu ragazza: «Furio Scarpelli era incazzoso, non a caso adorava Sergio Amidei, il mio compagno dell’epoca, comunista come lui. Una sera a cena con Anna Magnani e Antonello Trombadori ospitammo Marisa Merlini. Era diventata famosa con il teatro di rivista durante il Fascismo, Marisa. E a quel periodo era rimasta legata. In regalo, mi aveva detto qualche giorno prima, aveva intenzione di portare provocatoriamente un libro su Mussolini. “Siete tutti compagni, così facciamo un po’ di casino”. L’avevo sconsigliata “sei matta figlia mia? Lascia perdere, su certi argomenti Sergio perde la testa, dico sul serio”». E così andò. «Tra il primo e il secondo Marisa fece la mossa, tirò fuori il volume con il profilo del Duce e Amidei impazzì. Tirò giù una madonna memorabile e poi diede un pugno alla boisserie. La attraversò e si fratturò una mano. Un mese e mezzo con il braccio alzato, come in un saluto romano permanente».
Quando ricorda un episodio o si proietta nel passato, l’attrice di De Sica, Rossellini, Fellini, Monicelli e Scola miscela i sentimenti e riempie la stanza con il timbro di un rumoroso sorriso senza età: «Anche se a gennaio compirò ottant’anni, è lo stesso che mi porto dietro da quando ho memoria di qualcosa. Si rideva a casa, nonostante la fame e si rideva sugli spalti del vecchio campo di Testaccio, dove mio padre, con la terra che al primo alito di vento si sollevava e ti finiva negli occhi, mi portava a vedere la partite della Roma. Papà faceva il fornaio e anche se era un uomo dolce, aveva il brutto vizio di andare a Capannelle a giocarsi tutto alle corse ippiche. “Ho perso solo per una testa di cavallo” amava dire e vederlo sperperare anche il poco che avevamo era terribile. Quando il suo negozio andò per aria e fallì, un fallimento onesto, pagando i debiti fino all’ultima lira, gli rimasero solo un po’ di pecorelle di zucchero. Quanto ci andammo avanti con quelle pecorelle. A colazione, a pranzo, a cena».
La prima spinta artistica fu di radice alimentare?
«Più che alimentare. Facevo la comparsa, ma in realtà sognavo solo di comprare una bicicletta, sposare un operaio e andare all’altare vestita di bianco, su due ruote, senza particolari ambizioni».
Invece venne il cinema.
«E chi se lo sarebbe mai aspettato? Ancora minorenne, mentre tiravo su due spicci come generica a Cinecittà, avevo fatto domanda di assunzione alla Chlorodont. La fabbrica di dentifrici. Poi, quasi per caso, mi presentai a un provino. Mi presero. Niente più operaio, niente più bicicletta. Alla Clhorodont m’avrebbero anche assunta, ma non tornai più indietro. “Sei nata per recitare” mi dicevano».
E avevano ragione?
«Assolutamente. Non c’era nessuno sforzo, nessuna scuola alle spalle, nessuna Accademia che tenesse. Essere attrice era un talento naturale. Come diceva Eduardo: “In teatro non si recita, è nella vita che si recita”. Io passavo con grande leggerezza dal cinema al teatro, dal ruolo di protagonista al Carosello del sapone Lux».
Lo considerava sminuente?
«Erano compromessi. Compromessi benedetti. Dovevo guadagnare per pagare le tasse e siccome io le tasse le pagavo e a differenza di tanti altri, soldi in nero non ne prendevo, non mi sono mai vergognata di niente. E di nero, nel cinema italiano, ce n’era e ce n’è veramente tanto. Come le spiega altrimenti le misteriose ricchezze dei produttori? Io ero diversa, stavo alle regole e se accettavo un ingaggio, lo facevo per risolvere qualche questione più importante di un moto d’orgoglio. Il cibo, la casa, la sopravvivenza. Il rimpianto d’artista o la ripulsa altera non me li sono mai potuti permettere».
Rifarebbe tutto?
«Tutto. Comprese certe sottovalutate commedie della giovinezza, in cui immancabilmente mi facevano interpretare la ragazza romana, impulsiva e popolana. Erano film semplici e genuini, ma non erano filmetti. Noi attori avevamo a disposizione dialoghi pazzeschi, occasioni vere per mostrarci».
Un’altra epoca.
«Il cinema era un’industria. Si giravano 300 film l’anno. Oggi se ne fanno 30, la qualità degli sceneggiatori è imparagonabile ad allora e in molti si sono messi a scrivere per la televisione».
Ed è un male?
«Capisco che tutti debbano mangiare e non voglio dire cose sgradevoli, ma “autore televisivo” fa proprio ridere. Non si può sentire. Ma che definizione è?»
Che definizione è?
«La definizione di un tempo che ha perso per strada il concetto di relatività. Nel decennio tra i ’50 e i ’60 dei copioni si occupavano Age o Flaiano, gente senza spocchia che dava senso alle parole e sapeva raccontarti delle storie. Se li chiamavi autori ti toglievano il saluto». Lei Flaiano lo conosceva bene.
«Simpatico e malinconico. Sua figlia, una bambina in un corpo d’adulto, stava molto male e lui si preoccupava per il domani: “Quando non ci sarò più, chi penserà a lei?”. Quando mi misero sotto con la macchina ero proprio con Ennio. Era passato a prendermi e fu a quel punto, mentre gli davo indicazione per fare manovra, che una macchina di passaggio guidata da un impiegato di Mario Cecchi Gori mi prese in pieno. Un disastro. La gamba si spezzò in due, l’osso era uscito fuori dalla pelle. Flaiano, reduce da un infarto, era terreo».
Come ne uscì?
«Con tre trapianti, non so quante operazioni e un calvario infinito. Mi salvò un luminare svizzero, il professor Muller. Mi ricordo che a Berna, al controllo decisivo, scoppiai a piangere. Non lavoravo da tempo, temevo di non riuscire più a tornare la persona di prima e proprio pochi giorni prima avevo ricevuto la telefonata di Flavio Mogherini».
Il regista, il padre di Federica, già ministro degli Esteri?
«Lui. Mi offriva il ruolo di protagonista, una puttana, in Per amare Ofelia. Io ero dubbiosa, ero stata meretrice con Gassman, venivo da Una prostituta al servizio del pubblico e in regola con le leggi dello Stato e di interpretare ancora una volta una mignotta non avevo voglia. Glielo dissi e Mogherini minimizzò: “Ho scritto il film per te, la Magnani ha fatto la prostituta almeno 5 volte, che problema c’è?”. Presi tempo. Poi arrivò il responso di Muller. (Qui Ralli imita il dottore svizzero con lo stesso accento di Paolo Villaggio nei panni del professor Kranznda): “Lei benizzimo, lei cuarita, lei perzona nuofa”. Però nuova non ero, avevo le stampelle e un film in quello stato non l’avrei mai potuto affrontare. Così chiesi consiglio: “Professore, devo rimettermi urgentemente in piedi. Come faccio?” E lui: “Lei andare mari del sud, nuodare, camminare, ripozare”. Gli diedi retta e andai con un’amica alle Seychelles. Dopo 4 giorni buttai la prima stampella, dopo 10 la seconda, tornai rinata. E finalmente dissi sì a Mogherini».
Recitava con un Renato Pozzetto alle prime armi.
«Penso fosse proprio il suo esordio. Nei miei film ho avuto quasi sempre un contraltare maschile. Gassman, Sordi, Tognazzi, Mastroianni, Manfredi. Si fa prima a vedere con chi non ho recitato».
Piccola galleria dei suoi compagni di avventura?
«Con Mastroianni eravamo proprio amici. Io e Marcello abbiamo diviso la scena in quattro film. E qui ai Parioli, nello stesso quartiere in cui abito, ho recitato con lui in Verso Sera di Francesca Archibugi. Lavorare con Mastroianni mi faceva felice perché incontrare uno più bravo di me, mi stimolava a rendere di più. Mai sofferto di gelosie, mai voluto un primo piano in più. Mastroianni poi era un gran signore. In Verso sera interpretavamo due amanti fuori tempo massimo. Lui ne scherzava: “Siamo stati fidanzati, poi marito e moglie, poi amanti clandestini in vecchiaia, che vuoi di più?”. Dovremmo fare l’amore. Lui fa cilecca e mi chiede di riprovarci e io ridendo: “No, no, no, per carità, siamo due vecchi”. Ero molto amica anche di Tognazzi. In Liolà, per dare forma a uno strano tipo di amante siculo, Blasetti aveva fatto applicare a Ugo una dentatura posticcia. Al primo bacio, la protesi venne giù di colpo e dopo molte risate e qualche discussione, saltò poi del tutto. Avevo buoni rapporti anche con Sordi. Con Alberto feci due film. Costa azzurra di Sala in cui, nel ’59, con conseguente scandalo, siamo una coppia di fruttaroli in balia di un regista omosessuale e Un eroe dei nostri tempi, con Monicelli regista».
Sordi è Alberto Menichetti, impiegato timorato e complessato che ripete in continuazione “Ahò, me volete incastrà?”.
«Nella vita Alberto era un libro aperto. Un semplificatore, a iniziare dalla tavola. Non mangiava pesce e funghi ed era felice solo con un piatto di spaghetti al pomodoro. Non è che fosse riluttante nei confronti delle donne, anzi. Ma semplicemente non voleva saperne del matrimonio: “Sangue estraneo in casa mia? Perché mai?” diceva. E poi rideva forte».
Ettore Scola le offrì un abito da moglie infelice in C’eravamo tanto amati.
«A Scola devo tanto. Blake Edwards mi chiamò a Hollywood perché mi aveva vista nel suo esordio, Se permettete parliamo di donne. E in quegli otto mesi, anche se il film in cui recitavo, Papà, ma che cosa hai fatto in guerra, non era un granché, l’esperienza, tra una roulotte completamente foderata di leopardo e una fuga al supermercato con Virna Lisi, fu meravigliosa. Una sera devo andare a cena con Barbra Streisand e Omar Sharif, innamoratissimi. Nella hall del Beverly Hills Hotel incontro Domenico Modugno. Sa come siamo noi italiani quando ci incontriamo all’estero, no?».
Come siamo?
«Indecenti, beceri, eccessivi. Per fargliela breve è tutto un urletto, un bacio, un abbraccio, un pianto da emigranti. Finimmo a cantare Meraviglioso nella stanza di Mimmo. Lui e Barbra a duettare, cose che non hanno prezzo. Ma parlavamo di altro, no?».
Di C’eravamo tanto amati.
«Elide Catenacci, figlia di un costruttore rozzissimo, era stata sposata da Gassman per interesse. Il film parlava di disillusioni, emancipazioni impossibili e infelicità attraversando le epoche. Ogni mutazione fisica del personaggio la pagavamo con ore di sessione in sala trucco. Aldo Fabrizi, un uomo e un attore meraviglioso, vergognosamente meno considerato di quanto non avrebbe meritato, porello, si lamentava: “Ma quanto ci imbruttiscono Giovà? ma perché?”. In effetti, tra denti finti, ferri dietro alle orecchie e parrucche, la metamorfosi era totale. Con Fabrizi, nella stessa dinamica tra padre e figlia, avevo fatto La famiglia Passaguai. Ritrovarsi 25 anni dopo aveva qualcosa di tenero. La tenerezza è importante. Mio marito Ettore diceva che per passione si può uccidere, ma per tenerezza si può dare la vita. Aveva ragione. Sapesse quanto mi manca. Se mi avesse chiesto di rinunciare al mio mestiere, l’avrei fatto subito. Ma lui si divertiva, si commuoveva nel vedermi».
Ettore Boschi, l’avvocato che dopo lunghe battaglie legali aveva portato in Italia il tema del Dna. Lei l’aveva sposato nel 1977.
«È mancato l’anno scorso, mio marito. Era spiritoso, solare, colto. Senza di lui è tutto così diverso, la mia vita è cambiata, non mi sono ancora ripresa e non so se accadrà. Con lui ho trascorso 37 anni stupendi e adesso non ho più voglia di uscire la sera, di fare le cose».
Proprio niente?
«Vado al cinema ogni tanto, passeggio raramente di mattina e ho ripreso a leggere, almeno. Cechov mi aiuta. Ha qualcosa di terapeutico».
Le basta?
«Non lo so. Non so se supererò questa mancanza. Lo spero. C’è la fede, ma la fede a volte svanisce, evapora, è meno solida e allora di fronte hai il vuoto assoluto. Ed è dura. Dura, dura, dura. Carlo Lizzani e Mario Monicelli, due artisti, due amici con cui ha lavorato a lungo, si sono tolti la vita».
Li capisce?
«Forse non è bello pensarlo, ma non li giudico e certo, li capisco. Ci ho pensato anch’io. Carlo, un galantuomo antico, un eterno ragazzo con il ciuffo, forse non voleva assistere alla sofferenze di sua moglie. Mario al declino fisico che lo rendeva schiavo dopo una vita avventurosa e straordinaria. Avevano il diritto di decidere. Ogni volta che parlo o leggo di eutanasia mi incazzo. Ma perché in Italia non ci deve essere libertà di scelta? Perché, se uno è stanco di vivere, non può scegliere di farla finita? Quello che hai fatto hai fatto, ma la vita è tua. Tempo fa, ne ho parlato con Marco Risi: “Vado in Olanda” gli dico. E Lui: “Papà diceva sempre la stessa cosa”».
Davanti alla voliera dello zoo di Roma, conviveva con l’abisso anche Dino Risi.
«Essere vecchi è difficile, stare soli è complicato».
Lei non ha figli, ma ha Cechov.
«Questo medico sposato con un’attrice, morto troppo giovane, impegnato a scrivere commedie che tutti fraintendevano leggendole alla stregua di drammi. Come mi sarebbe piaciuto interpretare Il Gabbiano. Ho calcato il palco per una vita e non mi è mai capitata l’occasione. Peccato».
Se si guarda indietro cosa vede?
«Le bombe sul quartiere Ostiense e il ricovero di Via Marmorata in cui i miei incontrarono una famiglia di ebrei e gli diedero asilo. L’irruzione dei tedeschi in piena notte con gli ospiti che hanno lasciato casa nostra da pochi minuti, la paura della guerra e la febbre degli Anni 50, quando tutto sembrava possibile e niente pareva potesse fermare progresso e felicità. Poi le occasioni, i momenti speciali, le persone importanti della mia vita. Garinei e Giovannini che mi chiamano per recitare in Un paio d’ali, il giorno in cui alle otto del mattino sento da una radio che al Festival di San Francisco ho vinto il premio come miglior attrice per Era notte a Roma di Rossellini e la figura di Valerio Zurlini che da un letto d’ospedale chiede alla sua compagna Marie-Françoise di sposarlo. Lui sta per morire. Lei lo capisce e invece di disperarsi, gli sussurra dice parole dolci e rassicuranti. Parole d’amore».
Zurlini fu suo compagno in giovane età.
«Avevo diciott’anni. La nostra relazione durò tre anni, lui era sposato e fu sofferta anche per le pressioni familiari e le mie ascendenze cattoliche. Ma sull’arte, la pittura e la bellezza, Zurlini mi insegnò tanto. A pensarci bene, la ragazza di Testaccio di umili natali volevano aiutarla in tanti. Amidei appena mi conobbe mi regalò Guerra e Pace, Rossellini Le Idi di Marzo».
L’hanno aiutata davvero?
«Molto. Proprio come Elide, il mio personaggio in C’eravamo tanto amati, ero partita da zero, da assoluta autodidatta. E avevo scoperto la bellezza strada facendo. Sono stata fortunata. Le possibilità dell’epoca non erano quelle di oggi. I ragazzi del 2014, a 30 anni sono già spacciati. Che fanno con mille euro al mese? Chi farà qualcosa per loro?».
La politica?
«La sinistra non c’è più o forse sono io che non capisco bene. Quando li sento dire: “Sono di sinistra” mi chiedo: “Ma di quale sinistra parlate?”. Non mi appassionano né Grillo né Renzi e mi pare che nessuno più pensi al ceto medio per cui la sinistra, ad esempio, non ha mosso un dito lasciando che venisse massacrato».
Ma lei è ancora di sinistra?
«La cosa giusta l’ha detta una mia amica. “La sinistra è dentro di me”».
È come dire che la categoria politica non esiste più. Che è solo uno stato d’animo.
«Esattamente. Non avrei saputo dirlo meglio».
Malcom Pagani