Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 2/11/2014, 2 novembre 2014
“M’IMMAGINAVO I CORROTTI CON LA LINGUA VERDE COME I VISITORS”
[Intervista a Piercamillo Davigo] –
Tutti sono stati bambini. Anche quelli che nell’immaginario collettivo assomigliano molto a Javert – l’implacabile ispettore di polizia che per tutta la vita sta alle calcagna di Jean Valjean nei Miserabili di Hugo e che rappresenta l’ineluttabilità della Giustizia. Molto prima di Mani pulite, a metà degli anni 50 in un piccolo centro della Lomellina, incontriamo un ragazzino con i pantaloni corti che gioca per le strade del paese. All’anagrafe Piercamillo Davigo: mamma impiegata della Stipel (l’antenata della Sip), papà agente di commercio. La scuola non è cominciata per il meglio: “Il maestro, il secondo giorno in prima elementare, ci disse: ‘In Italia l’istruzione è obbligatoria per almeno otto anni, questo significa che potete fare otto volte la prima elementare. Come accade a lui’. E fece alzare un ragazzo altissimo che lui aveva avuto in prima elementare ed era stato bocciato da tutti i maestri che si erano succeduti: si accingeva a fare con noi per la sesta volta la prima elementare. Questa storia mi levò il sonno: pensavo al mio triste futuro, otto volte in prima elementare. La scuola dei miei tempi era irragionevolmente autoritaria”.
Non farà l’elogio dell’anarchia?
Non ho assolutamente nulla contro l’autorità, altrimenti non potrei fare il mestiere che faccio. Una cosa che mi ha colpito nel Piccolo principe di Saint Exupéry è quando il re spiega al piccolo principe che l’autorità riposa soprattutto sulla ragione. Se ordini al tuo popolo di andare ad affogarsi in mare, farà la rivoluzione. Nel ’68 il ministro della Pubblica istruzione aveva autorizzato i capi d’istituto a far svolgere assemblee studentesche. Il preside rispose così alle nostre richieste: non se ne parla neanche. Un professore, con cui ci lamentavamo del diritto negato, ci disse che era giusto. Noi ci indignammo: “Ma è un nostro diritto!”. E lui: “Diritto? Se io vado dal sarto con una stoffa per fare un vestito, il sarto ha dei diritti, io anche ma la stoffa no. I vostri genitori vi hanno mandato qui per prendere la maturità: loro hanno dei diritti, noi abbiamo diritti. Voi siete la stoffa”.
La scuola che è venuta dopo non era meglio.
No, forse però la nostra era basata solo sull’apprendimento di nozioni.
È vero che ha preso 7 in condotta?
Io ero molto vivace, però allora la disciplina era di ferro.
Ha fatto l’università negli anni Settanta, un periodo movimentato.
All’epoca mi facevo dare i volantini perché su di me non avevano effetto, ma almeno ne toglievo un po’ dalla circolazione. Chiedevo: posso averne anche degli altri? Ho frequentato Giurisprudenza a Genova, la contestazione lì è arrivata tardi. Poi mi sono laureato in scienze politiche a Torino.
Perché due lauree?
I giuristi non hanno nessuna preparazione nelle scienze sociali e questo significa che in genere non capiscono i fenomeni sottostanti alle norme. Mentre Giurisprudenza qualcosa che sia suscettibile d’immediata applicazione t’insegna, Scienze politiche serve a poco da un punto di vista pratico, molto da un punto di vista culturale. M’iscrissi alla seconda facoltà mentre lavoravo all’Unione industriali di Torino. Avevo già fatto il militare, come ufficiale. Siamo nel ‘76.
Pieno terrorismo. E Torino era una città pericolosa allora.
Io mi occupavo di relazioni sindacali, ovviamente dal punto di vista delle organizzazioni imprenditoriali.
Non la parte giusta...
Una volta un mio amico mi ha detto: una vita al servizio della repressione. Comunque, dopo una trattativa molto dura, avevano cominciato a scrivere su un muro antistante il mio ufficio: “Davigo fascista sei il primo della lista”. Regolarmente gli imbianchini la cancellavano e loro la riscrivevano. Non mi sono mai preoccupato perché dopo un po’ cambiarono frase: “Davigo abbiamo perso la lista, ma tu sei sempre il primo”. La trovai meravigliosamente ironica e pensai che nessuno con quel senso dell’umorismo poteva davvero spararmi.
Questa cosa del fascista le è rimasta appiccicata. Cossiga una volta ha detto a Claudio Sa-belli Fioretti: “Borrelli, un aristocratico conservatore, D’Ambrosio, un vero comunista, Davigo, un fascista, Colombo, un extra-parlamentare e Di Pietro uno di estrema destra”.
Quando mai! Chi fa questo mestiere crede nel rispetto delle regole, nell’uso della ragione e non della forza: l’esatto opposto del fascismo.
Ma i magistrati hanno il monopolio dell’uso della forza!
Certo. Infatti io non penso che uno che ha fatto l’obiezione di coscienza al servizio militare possa fare il magistrato. Che differenza c’è tra usare la forza e ordinare di farlo?
Torniamo a lei. Quando diventa magistrato?
Dopo l’Unione industriale vinsi il concorso e feci l’uditorato a Milano. Il mio decreto ministeriale è del 27 giugno 1978. Subito dopo il sequestro Moro, sembrava che lo Stato non esistesse più. Ricordo le immagini sconfortanti del Palazzo di giustizia circondato da cani lupo, agenti armati, poi costruirono addirittura un’inferriata. Una volta ero insieme al magistrato con cui facevo il tirocinio. Gli agenti, in ottemperanza agli ordini ricevuti, pretendevano di perquisire la sua borsa. Lui si rifiutò, ebbe una reazione molto ferma: “Le persone che sono qui, sono qui perché l’ho disposto io”. Da allora non fecero più le perquisizioni ai giudici. L’idea che lo Stato, che non riusciva nemmeno a impedire la consegna delle lettere di Aldo Moro, pensasse di perquisire dei magistrati era a dir poco una stravaganza.
Gherardo Colombo in un’intervista a questo giornale ha detto: “Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa”.
Io ho sempre avuto una forte dose d’incoscienza. Ma quando mi occupavo di criminalità organizzata – dal 1982 all’86 – ero scortato in modo pesante: avevo l’auto blindata e un’altra macchina con tre carabinieri di scorta. La radiomobile di zona arrivava quando entravo e uscivo da casa e ufficio. Quando si avvicinava una moto, magari con due che portavano il casco integrale, e il carabiniere armava la M12, il cuore aumentava le pulsazioni. Erano tempi in cui le persone venivano uccise e per ragioni incomprensibili. Non voglio togliere nulla ai meriti di chi è morto, ma molti di loro sono caduti senza una ragione. Sotto questo profilo il crimine organizzato è molto più attento nella selezione dei propri obiettivi. I terroristi uccidevano persone che ritenevano un pericolo, ma non lo erano più di altri.
Falcone era veramente un pericolo per la mafia?
Era un pericolo, inoltre era pericoloso l’esempio che aveva dato. Il maxiprocesso era stato un risultato straordinario. Bisognava impedire che a qualcun altro venisse in mente di fare altrettanto. Non ha funzionato. Ricordo quando la procura mandò Corrado Alunni - brigatista fondatore di Prima linea - a giudizio per direttissima: era l’epoca in cui non si riuscivano a fare le Corti d’Assise perché i giudici popolari si davano malati. E perfino qualche magistrato lo faceva. Borrelli era il presidente dell’ottava sezione penale, davanti alla quale Alunni fu tradotto per essere giudicato. Ma era a casa con una gamba ingessata. Rientrò in servizio, presiedette il processo, condannò Corrado Alunni a 12 anni. Una pena severa e a quei tempi una sovraesposizione.
Perché lo fece?
Disse: se si devono correre dei rischi, li deve correre il presidente di sezione e non qualcun altro al suo posto. Io pensai: questo è un uomo coraggioso e con il senso delle istituzioni. C’è un altro episodio che mi ricordo di quegli anni. Dopo l’omicidio di Emilio Alessandrini, l’Anm convocò un’assemblea. E venne anche Pertini, allora Capo dello Stato. Un giovane pretore, Giovanni Porqueddu, si alzò e disse: “Io credo che abbiano ucciso Emilio Alessandrini per intimidire i colleghi della Procura. Devono sapere che per ognuno che cade, c’è qualcuno che prenderà il suo posto. Oggi stesso presenterò domanda di trasferimento alla Procura. Io non li so fare i processi che faceva Alessandrini, però potrò sollevare quelli che sono capaci da un po’ di lavoro, in modo che si possano concentrare su quei processi”.
Prima di Milano la sua sede era stata Vigevano. Piccolo tribunale.
Nel ’79, eravamo in sei magistrati, sette con il presidente. M’imbattei subito in una vicenda che suscitò clamore. Tre impiegati dell’Ufficio Iva di Pavia vanno a fare un controllo fiscale da un orefice a Mortara, vicino a Vigevano. E gli chiedono un orologio d’oro per il loro capo e cinque milioni per loro. L’orefice - contrariamente alle statistiche era una persona per bene - va dai Carabinieri, che lo portano subito dal procuratore. Questo gli dice: lei paghi, ci dia il numero di serie delle banconote e domani fuori dal suo negozio troverà i Carabinieri. Cosa che puntualmente accade e i tre vengono arrestati in flagranza. Il procuratore li va a interrogare e nota un particolare: cioè che questi facevano il servizio insieme per la prima volta. E spiega: ma se la prima volta uscite insieme fate una cosa del genere, vuol dire che lo fate sempre! Sennò ognuno avrebbe dovuto aver paura degli altri. Questi confessano tutto, cioè una marea di fatti antecedenti, chiamando in correità tutti i loro colleghi. Tranne uno, che alla fine sarebbe stato prosciolto per insufficienza di prove. L’ufficio Iva fu chiuso.
E lei?
Facevo il giudice istruttore e il procedimento mi è stato subito trasmesso. Dovevo interrogare tutti questi qui, far tornare i conti delle mazzette, che non tornano mai perché se li dividono e ognuno deruba gli altri. Andai a interrogare il mio primo imputato di corruzione. Un giovane funzionario che aveva già confessato di aver ricevuto denaro in quattro occasioni, la prima volta 250mila lire. Mentre lo aspettavo cercavo d’immaginarmelo: non avevo mai visto un corrotto in vita mia. Me li immaginavo come i Visitors, con la lingua verde. Invece no, era identico a me. Quasi la stessa età, avrebbe potuto essere un mio compagno di università o di serate in discoteca.
Scusi, lei andava in discoteca?
Si certo, e ballavo anche.
Torniamo al suo primo corrotto.
L’unica domanda che gli feci fu: come fa un ragazzo di 27 anni a vendersi per 250mila lire? È un’età in cui bisognerebbe essere pieni di entusiasmo, di ideali... Lui rimase un po’ in silenzio e poi mi disse: “Lei non può capire, perché fa parte di un mondo dove essere onesto o disonesto dipende soltanto da lei. Io dopo qualche giorno che ero arrivato lì ho capito, non solo che rubavano tutti, ma anche che non sarebbe stato tollerato un comportamento differente: sarebbe stato un pericolo per gli altri. Quando il mio superiore mi ha messo in mano i soldi la prima volta, ho temuto che se non li avessi presi mi avrebbero cacciato. E non avuto il coraggio che ci voleva per essere onesto. Lei non lo può capire perché a lei questo coraggio non è richiesto”. Questa risposta me la sono portata dietro per tutta la mia vita professionale. A oggi non è mi è mai capitato che qualcuno mi offrisse dei soldi.
Solo un matto potrebbe pensare di offrire a lei del denaro.
Vabbè adesso perché sono famigerato, ma non lo sono sempre stato.
La morale di questa storia?
Serve a capire come funziona la corruzione. Le condizioni facilitano il meccanismo. La corruzione non è come normalmente viene dipinta dai media, un insieme di episodi. La corruzione è un reato seriale. Chi fa queste cose, le fa tutte le volte che ne ha occasione e con una ragionevole certezza d’impunità. Poi è diffusiva: chi è dedito a queste pratiche cerca di coinvolgere altri, per creare un habitat favorevole alla commissione di reati.
Come ha cambiato, umanamente, la sua vita
Mani pulite?
C’è stata la conseguenza di essere riconosciuto, che è svantaggiosa. Perché non ti permette di essere in incognito. Se nessuno sa chi sei, puoi parlare con gli altri e ascoltarli sentendo commenti, idee, opinioni che non arrivano più quando sei riconosciuto.
Mentre facevate cadere un intero sistema di potere un po’ di euforia l’avete provata?
Al contrario! Gran parte della giornata la occupavamo a parare i tentativi di impedirci di fare le indagini o di mandarci in galera.
In che senso?
A qualcuno di noi hanno cercato di aprire un conto in Svizzera. Un ex maresciallo dei carabinieri si era inventato una serie di calunnie contro di noi per mandarci in galera. E non è stato l’unico.
La privazione della libertà è una cosa violenta, specie per quelli di cui lei si è occupato a lungo: i colletti bianchi. Chi l’ha subita ha raccontato spesso le difficoltà e il dolore. E chi la ordina, come si sente?
Qualcuno dice: chi finisce in carcere per reati non violenti, come quelli contro la pubblica amministrazione, non è abituato al carcere, dunque la detenzione gli fa più male. Però o la legge vale per tutti o no. La legge vale per tutti vuol dire che mi spiace molto per te se non sei abituato, ma l’assunto è universale.
Le dispiaceva mettere in galera le persone?
Infliggere dolore non è mai bello. Ma nemmeno il medico è contento di operare qualcuno, lo fa perché è necessario. S’interviene per eliminare un male maggiore.
Le è mai capitato che un suo detenuto s’ammazzasse in cella?
Due volte. Una volta era un tossicodipendente arrestato in flagranza di reato, che era in crisi d’astinenza. L’altra una guardia giurata che aveva ucciso i suoi vicini che facevano rumore e non lo lasciavano dormire.
Ne ha sofferto?
Ma che domanda è? Ovviamente sì. Però vede, sul lato di via Manara del Palazzo di giustizia di Milano, c’è un bassorilievo con la figura di un patibolo e a fianco un’incisione latina che dice: “I delitti eressero”. Cioè: le conseguenze dei delitti ricadono su chi li ha commessi, non su chi li persegue.
Qualcuno sostiene che avete abusato delle norme sulla custodia cautelare.
(silenzio, sorriso). Forse abbiamo esagerato con le scarcerazioni....
Poi le danno del forcaiolo manettaro.
Esiste il reato di corruzione? Allora va perseguito.
La sua tesi sulla custodia cautelare è: noi non li mettiamo dentro per farli parlare, è che quando parlano cessano le esigenze cautelari. Secondo lei qualcuno ci crede?
(sorriso) Ci pensi: chi collabora si rende inidoneo a commettere questi reati. Darebbe mai denaro a uno che quando lo arrestano fa l’elenco di quelli che gli han dato soldi? Quelli che non collaborano o che lo fanno parzialmente, tenendosi aree di ricatto, lo fanno per assicurarsi un futuro come intermediari. Questo è il tema centrale, che non si vuole vedere. E torniamo al punto: la corruzione dà vita a un mercato illegale in cui tutti gli attori accettano le regole del gioco. È chiaro che puoi far uscire qualcuno da questo gioco solo se lo rendi inidoneo. Ricordo che una volta, durante Mani pulite, avevo dei giornali sotto il braccio. Quel giorno i quotidiani davano conto dell’arresto di un politico – ora davvero non ricordo chi fosse – che mi accingevo a interrogare. Lui mi chiese: posso leggerli? C’era, oltre alla cronaca dell’arresto, qualcuno del suo partito che diceva la solita frase: è un’isolata mela marcia. Mi restituì il giornale e mi disse: adesso le descrivo il resto del cestino.
Stare dalla parte dello Stato è un bello stare.
Vuol dire sentirsi dalla parte giusta: le è mai capitato di avere un dubbio?
Non è affatto un bello stare, perché lo Stato dovresti averlo sempre dietro le spalle e qualche volta non accade. Il sistema di pagamento generalizzato che è emerso con Metropolitana milanese, secondo quanto hanno raccontato molti, era stato ideato da Antonio Natali. Noi l’abbiamo scoperto alla fine del ‘92. Ma poteva essere scoperto nell’87 quando Natali venne arrestato, per il fallimento di una società con bancarotta fraudolenta e vennero fuori le mazzette. Allora il presidente del Consiglio, che era Craxi, chiese di avere un colloquio in carcere con Natali, facendolo sapere ai giornali. Secondo lei la gente ha pensato che lo Stato lo rappresentassero i magistrati o il detenuto, visto che il Presidente del Consiglio lo voleva incontrare? Comunque ho sempre detto ai miei collaboratori: ricordatevi che noi siamo i buoni.
Mai successo di pensare di essere dalla parte sbagliata?
C’è un aneddoto raccontato da Cicerone, su Alessandro Magno e il pirata. La flotta macedone catturò una nave pirata e portò il comandante al cospetto del re perché lo giudicasse, allora non c’era la separazione dei poteri. Il pirata s’immaginò che il processo sarebbe finito male e si permise di essere impertinente. Quando Alessandro gli chiese: con che diritto infesti i mari? Lui rispose: con lo stesso tuo, solo che io lo faccio con una nave e sono chiamato pirata, tu con una flotta e sei chiamato re. Questo aneddoto lo riporta Sant’Agostino, che lo commenta così: “Bandita la giustizia, che cosa sono i grandi imperi se non bande di briganti che hanno avuto successo? E che cosa sono le bande di briganti se non imperi in embrione?”. Allora ciò che fa la differenza non è, come pensava il pirata, il numero delle navi. Ma la giustizia. Perché la norma più importante della Costituzione – nessuno la ricorda mai, chissà perché – è l’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Attenzione: non li istituisce, perché se tu una cosa la istituisci, puoi anche revocarla. Li riconosce, sono un limite di sovranità. Cosa nostra non riconosce i diritti inviolabili dell’uomo: questo fa la differenza. Io sono dalla parte giusta perché rappresento o dovrei rappresentare un’organizzazione che si fonda sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti inviolabili. Certo, a volte ci sono leggi sbagliate, ma il nostro sistema prevede una serie di rimedi e correttivi.
Il momento in cui è stato più in difficoltà, stando dalla parte dello Stato?
Nel 1994, dopo il decreto Biondi che impediva la custodia cautelare per i reati di corruzione: li scarcerarono tutti. Dicemmo allora che avremmo applicato la norma – le leggi si applicano anche quando non ti piacciono – ma chiedemmo di essere assegnati a un settore dove fosse meno stridente il contrasto tra ciò che imponeva la legge e ciò che le nostre coscienze avvertivano.
Perché state così antipatici alla gente?
Ma no! Alla gente no. A chi governa, a chi detiene il potere economico certamente perché rappresentiamo ciò che non è compromettibile fuori dalle regole legali e quindi siamo un ostacolo. È un sistema di gestione delle cose diverso da quello il potere pratica.
È un discorso senza nessuna autocritica.
Mario Cicala ha detto una cosa che sottoscrivo in pieno: “Noi magistrati paghiamo per i nostri pochi meriti, non per le nostre gravi colpe”. Tristemente vero. I processi fatti dai pm incapaci si sfasciano in dibattimento: ma sono quelli portati avanti dai pm bravi che li impensieriscono.
Un avvocato, dovendo prendere accordi economici per la sua parcella con il cliente, gli chiese chi fosse il pubblico ministero che lo aveva indagato. Quello rispose: “Davigo”. “Allora voglio il doppio”. È vero?
Sì, ma lei non lo scriva.
Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 2/11/2014