Antonio Gnoli, la Repubblica 2/11/2014, 2 novembre 2014
CLARA GALLINI
[Intervista] –
Clara Gallini è stata una delle prime antropologhe italiane. In un mestiere prevalentemente per maschi ha affrontato gli aspetti più desueti, originali e ostici della professione. È nata a Crema. Ha 83 anni. Vive a Roma dove vado a trovarla. Incontro una donna dal corpo stanco e provato. Possiede un’intelligenza che sconfina nell’ironia. Ama l’insolito: si è occupata di miracoli e dunque di Lourdes. Di immacolate, di veggenti e sonnambule. Bellissimo il suo libro recentemente ristampato e dedicato a un caso di sonnambulismo femminile ( La sonnambula meravigliosa ed. L’Asino d’oro). È un’etnologa del mistero, dell’impalpabile, dei viaggi senza un vero ritorno. Clara si inabissa nei suoi saperi evanescenti con l’eleganza della lontra. È stata assistente di Ernesto De Martino, il più grande antropologo italiano. Ne dirige l’archivio. «De Martino mi ha insegnato quasi tutto. Provenivo dagli studi classici. Mi ero laureata alla Statale di Milano con un lavoro sul Labirinto di Arianna».
Il mito ha a che vedere con l’antropologia?
«C’è qualche punto di contatto. All’inizio sognavo di fare l’archeologa. Poi fu fondamentale la “Collana viola” che Pavese aveva creato per l’Einaudi. Su alcuni di quei libri — allora visti dalla cultura marxista e comunista come il fumo negli occhi — feci il mio apprendistato intellettuale».
Cosa leggeva?
«Jung, Kerényi, Otto, Eliade. Ero infarcita di studi sulla storia delle religioni. A Milano avevo incrociato Uberto Pestalozza, studioso del mito della Grande Madre. Facevo l’assistente volontaria. Un giorno arrivò De Martino in facoltà. Presentava Morte e pianto rituale del mondo antico. Avevo letto Il mondo magico, senza capirci granché. Finita la presentazione mi si avvicinò, pensai che volesse qualche informazione».
E invece?
«Mi disse che aveva sentito parlar bene di me. Mi offrì il posto di assistente alla cattedra che aveva appena vinto all’università di Cagliari. “Non sarà pagata, ma so che la sua è una famiglia benestante che potrà mantenerla”, disse».
I suoi cosa facevano?
«Mio padre era direttore di banca. Con mia madre vivevano a Crema. Ma il punto non era quello dei soldi. Semmai di come avrebbero accolto la notizia di un mio trasferimento in Sardegna».
Temeva che non l’avrebbero condiviso?
«Mi osteggiarono, dicendo che era per il mio bene. E poi, commentò mio padre, chi era questo De Martino che voleva strapparmi al loro amore asfissiante? C’era una zia in casa che, soffrendo la notte di insonnia, dormiva tutto il giorno chiusa nella sua camera. Pretendeva che noi parenti girassimo scalzi per non fare rumore. Era un mondo surreale. Chiuso nelle sue nevrosi, quello che stavo per abbandonare».
Come pensava di mantenersi?
«Avevo appena vinto il concorso come insegnante per i licei. Perciò chiesi che mi fosse assegnata una scuola di Cagliari. Era il 1959. Feci il viaggio in nave in una cabina di terza classe, con altre quattro donne. Le ricordo vestite con dei costumi bellissimi. Tornavano alla loro terra. Per me si annunciava la scoperta di un mondo straordinario».
Quanto tempo è rimasta?
«Per 18 anni. I primi con De Martino che fu un uomo di grande energia intellettuale».
Si dice che fosse anche un grande seduttore.
«Una voce che circolava. Ma ero troppo timida e introversa per accorgermene. In ogni caso, pochi anni dopo, si ammalò gravemente e si trasferì a Roma per essere curato. Lo sostituii nelle lezioni e quando potei andai a trovarlo. Fui turbata nel vederlo a letto, trasformato dalla malattia. Non era piacevole. Affrontava — lui che si era interessato così profondamente ai temi della morte e del pianto — la sua fine con grande serenità. Percepii l’affetto degli amici. Notai spesso la presenza di Angelo Brelich».
Il grande storico delle religioni.
«Proprio lui. Lo avevo conosciuto nel mio breve periodo romano. All’università di Roma si era formata una scuola molto importante di studi di storia della religione, guidata da Raffaele Pettazzoni che sarebbe morto proprio l’anno in cui io mi trasferii in Sardegna. Ebbene, oggi quel mondo di studi e analisi sul sacro, sul mito, sulle origini cosmiche è del tutto ignorato. Ma ha avuto un’importanza fondamentale anche per le ricerche antropologiche».
Ha qualche ricordo di Brelich?
«Era un uomo freddo e distante. Pensavo che nascondesse le sue emozioni dietro l’eterna sigaretta che gli spuntava tra le labbra. Il che appariva in contrasto con quello che si diceva a proposito di una branda che aveva fatto sistemare nella sua stanza all’università».
E cosa si diceva?
«Che lì portasse le sue studentesse».
Avverto una certa ironia.
«Ma no, era un pettegolezzo, come ne circolano tanti in ambienti per lo più chiusi. Posso invece dirle di un certo dissidio che ci fu tra noi in occasione della pubblicazione del mio libro Protesta e integrazione nella Roma antica».
Come reagì Brelich?
«Non bene. Mi spedì una lettera in cui manifestava il suo totale disaccordo metodologico. Quel libro pubblicato nel 1970 circolava nel movimento studentesco e, sorprendentemente, ebbe successo in America Latina. Studiavo i movimenti di protesta nella Roma repubblicana e le ideologie che c’erano dietro. Il fatto cioè che non si poteva immaginare una rivolta senza che ci fosse un Dio che la legittimasse».
E quanto all’integrazione?
«Facevo l’esempio di Augusto che riuscì a individuare gli elementi della protesta per poi assimilarli a una ideologia del potere. Del resto, è un classico: ogni rivoluzione finisce con l’essere integrata in un nuovo ordine. Anche simbolico. Brelich, i cui studi erano molto accademici, non comprese la lettura che avevo dato di certi fenomeni».
Perché dice accademici?
«Perché tali erano i suoi lavori. Se li rileggessi oggi coglierei la grande raffinatezza che c’era dietro. Ma a parte il fatto che venivamo da scuole diverse — Brelich era di origine ungherese e si formò con Kerényi — c’era stato il ’68, si era in ballo e bisognava ballare. Devo invece molto a Pettazzoni che mi insegnò due cose: il metodo della comparazione e la libertà ad aprirmi mentalmente a mondi diversi dal mio. Fu uno degli stimoli che mi portò a riconsiderare radicalmente l’idea del primitivo».
Allude a quel mondo arcaico sul quale non c’è mai stato grande accordo tra le scuole di antropologia?
«Dice bene. Ci siamo scannati. Per quanto mi riguarda ho sempre sostenuto che il primitivo in sé non esiste. Ciò che elaboriamo attorno a questo concetto appartiene alle nostre immagini, alle nostre idee. È, in un certo senso, una nostra invenzione».
In che senso?
«Ha mai visto degli uomini primitivi? Esistono, invece, uomini moderni che vivono in società moderne che noi chiamiamo primitive. Ma non lo sono».
In fondo quel primitivo era ciò che Levi-Strauss cercò nelle foreste del Brasile fra le tribù indios.
«È un’obiezione che mi ha dato da pensare».
Come l’ha risolta?
«Dopo essermi interessata al consumo del sacro, mi occupai sia del fenomeno “Lourdes” sia di un caso, diciamo di microstoria, in cui raccontavo le strabilianti vicende di una donna affetta da sonnambulismo e il dilagare nell’Italia ottocentesca del magnetismo animale».
Si riferisce al suo libro La sonnambula meravigliosa?
«Affrontavo lì un caso vero di una donna che nel corso degli anni aveva sofferto di varie malattie tra cui interruzioni del ciclo del mestruo, convulsioni, morte apparente».
Sonnambula in che senso?
«Non in quello che di solito si pensa cioè della persona affetta da disturbi che cammina nel sonno. Il sonnambulismo divenne di moda nel Settecento. Si scrissero trattati e libri di divulgazione. Perfino negli almanacchi popolari ci si occupò di questo fenomeno che finì con l’abbracciare diverse esperienze: dalle pratiche mediche a quelle teatrali. Ciò che a me interessava era cogliere nelle persone, fatte oggetto di sonnambulismo o di magnetismo animale, lo scatenamento dell’immaginario. Le donne colpite diventavano visionarie, veggenti, in certi casi, perfino guaritrici».
E questo in seguito l’ha condotta a occuparsi di Lourdes?
«Fu il passo conseguente. Cos’era Lourdes se non un immenso ricettacolo di emotività fuori controllo, di tragici inganni, di tensioni insopportabilmente potenti in grado di fornire all’immaginario un vasto campionario di miracoli? Lourdes sembrava un fenomeno antichissimo. Invece le prime apparizioni sono del 1858, come narrava benissimo Émile Zola in un libro che commentai direttamente».
E cosa concluse?
«Che sonnambulismo, magnetismo e ipnotismo erano, come del resto Lourdes, espressioni della modernità».
Non furono un’eccezione dentro la modernità?
«No, appartenevano alla modernità. È interessante osservare che mentre sonnambulismo e magnetismo finirono con l’esaurire il loro fascino e tramontarono, Lourdes ancora continua ad esistere e a riprodursi in esperienze molto simili: Padre Pio, Medjugorje, tanto per fare degli esempi».
Perché secondo lei?
«Dipende molto dalla potenza della Chiesa che può legittimare il miracolo. Farne un’inesauribile fonte di speranza, di fede e di aggregazione religiosa».
E lei ci crede?
«Non è questo il punto. Per me la questione era se un fenomeno ritenuto “antichissimo”, in qualche modo primitivo, in realtà fosse prodotto dalla modernità».
Vuole dire che la modernità può dar vita al suo contrario?
«Perché si sorprende? L’arcaico è qualcosa di rimosso che continua a vivere in forme invisibili nel moderno».
Una specie di inconscio?
«Appunto, che ogni tanto affiora, viene alla luce senza che se ne abbia consapevolezza. Su tutt’altro versante ho studiato il fenomeno del razzismo inconsapevole. C’è un immaginario razzista, che non sa di esserlo e che si comporta da razzista».
Il suo lavoro mi fa pensare a un’antropologia del vuoto di coscienza.
«Mi piace la definizione. Verrebbe voglia di approfondirla ma sono vecchia e malandata. Cambia non il modo di percepire le cose, ma la forza con cui portarle avanti».
Si acuiscono certe difficoltà.
«Diciamo che si passa da un regime di autosufficienza a qualcosa che lo minaccia seriamente. A un certo punto ho sofferto di una forma idrocefalica — hanno riscontrato del liquido nel cervello — e mi è stato diagnosticato un tumore alla base della cervice che è risultato benigno. Mi hanno installato una valvola in testa e un cannello diretto allo stomaco per drenare quel liquido. La mia vita è cambiata. Sono i progressi della medicina!».
Le consentono di lavorare.
«Lo dicevo ironicamente. In realtà lavoro pochissimo ormai. Dopo l’ultimo intervento ho dimenticato l’impiego del computer. So ancora usarlo come una macchina da scrivere. Ma non so fare più tutto il resto. È bizzarro per una che in tarda età si è occupata di cyber, non trova? Vorrei interrogare il mio vuoto di coscienza. Chissà cosa risponderebbe».
Ha figli?
«Non ne ho, non li ho mai agognati. E il fatto di essere rimasta una donna nubile ha contribuito a questo stato di single solitaria».
Posso chiederle se è mai stata innamorata di De Martino?
«Me lo sono chiesto e la verità è che avevo troppo timore reverenziale perché accadesse. Del resto, non ha mai manifestato per me un interesse in quel senso. Però le posso dire che il primo vero innamoramento l’ho avuto solo quando è morto. Improvvisamente mi sono sentita liberata dalla sua presenza. Poi ci sono state solo storie casuali. Niente di importante».
Cos’è la malattia per chi che ha studiato le guarigioni?
«Non sto qui ad attendere che il miracolo si compia. Quando si è malati si pensa solo al proprio corpo e a cosa si dovrà fare per tenerlo relativamente in esercizio. Diventano fondamentali gli appuntamenti con l’oculista, con il neurologo, con il geriatra. I farmaci scandiscono il mio tempo, la mia giornata».
È un po’ come se l’arcaico tornasse anche nella malattia.
«Mi fa pensare questa affermazione. Non solo il corpo, perfino la mente finisce con l’esserne coinvolta».
Crede nella fine del mondo?
«Allude al libro di De Martino, immagino. Il prossimo anno saranno cinquant’anni dalla sua morte. La fine del mondo uscirà in un’edizione francese. Lo curai negli anni Settanta. Quanto tempo è trascorso. I miei astri guardano immobili e beffardi. Sì, credo che a un certo punto il mondo finirà. Siamo una specie a rischio. I nostri convulsi anni saranno niente. È difficile immaginare qualcosa di eclatante. Effetti speciali. Certo. Con la magra consolazione che noi non ci saremo».
Antonio Gnoli, la Repubblica 2/11/2014