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 2014  novembre 02 Domenica calendario

SAPORI, PROFUMI E COLORI LA TAVOLA SI RACCONTA DAGLI EGIZI ALLA POP ART

Una carrellata sull’immagine del cibo nell’arte non può non partire dalle grotte di Lascaux e Altamira, dove l’artistasciamano mette al servizio della tribù il suo potere magico di catturare le prede «in effigie» per propiziarne la caccia, o dalle tombe egizie, dove le scene dipinte servivano a far continuare nell’oltretomba la vita del faraone e dei suoi dignitari, mostrandoceli in barca mentre arpionano pesci e cacciano uccelli sul Nilo.
Non è strano che le scene di caccia e pesca o i banchetti più animati li si debba cercare nelle tombe: per sconfiggere il buio dell’ignoto, il sepolcro si accende di colori e pulsa di vita. Nelle domus vesuviane, invece, le pareti dipinte prediligono le scenografie architettoniche e i quadri simulati a trompe l’oeil. Il cibo vi compare sotto forma di doni simbolici con cui si accoglieva in casa l’ospite: ceste colme di fichi o di altri frutti saporiti, capaci di ingannare gli uccelli che tentano invano di beccarli. Ma il trompe l’oeil più geniale è il mosaico inventato da Soso di Pergamo: l’asároton, il pavimento non spazzato, in cui bucce, semi, torsoli di frutta, lische di pesce e gusci di riccio svuotati sono gli eloquenti testimoni di lauti banchetti.
Nell’alto medioevo le Ultime Cene , più che sobrie, sono anemiche e disseccate dalla mortificazione della carne. Con l’avvento di Giotto, però, i pani e i pesci si moltiplicano e acquistano colore. Nel gotico cortese, invece, prevale il gusto della digressione narrativa e della mescolanza tra l’alto e il basso. Un esempio? Le Nozze di Cana affrescate ad Atri da Andrea Delitio, dove l’occhio indugia sullo sguattero accovacciato accanto al camino, che con la sinistra aziona lo spiedo, mentre con la destra si scherma il viso per ripararsi dalle fiamme.
In campo profano, il ciclo dei mesi è il più propizio alla rappresentazione del cibo: in dicembre si ammazza il maiale e si confezionano salsicce e sanguinacci, come mostrano gli altorilievi policromi della Pieve di Arezzo. Ma il trionfo ideologico della pacifica convivenza di signori e sudditi è stato dipinto all’alba del ‘400 da Venceslao a Trento, nel Castello del Buonconsiglio, dove principi e cortigiani giocano a tirarsi le palle di neve e colgono fiori, a seconda della stagione, mentre i contadini, sarchiano, seminano, vendemmiano.
Con i maliziosi cetrioli fallici che penetrano succulenti fichi spaccherelli nei festoni di Giovanni da Udine alla Farnesina, il revival dell’antico inaugura un genere grottesco che sfocerà un secolo dopo nelle stravaganti «teste composte» da Arcimboldo, inventore di un genere a mezza strada tra il ritratto e la natura morta, che nasce da una feconda mescolanza tra il naturalismo lombardo e certa pittura di genere fiammingo-olandese, rappresentata al meglio dalle Macellerie e dalle Cucine di Pieter Aertsen. Le Fruttivendole di Vincenzo Campi le Macellerie di Passarotti e lo stesso Mangiafagioli di Annibale Carracci discendono dal filone nordico, al quale non è estraneo il giovane Caravaggio, che si era formato come alunno di Peterzano nella Milano di Arcimboldo e Ambrogio Figino. Il nitido realismo della Canestra di frutta dell’Ambrosiana, con le avvisaglie di avvizzimento nelle foglie e i primi bachi nei pomi, è la versione lombardo- veneta delle allusioni alla vanitas vanitatum che fanno da paravento allegorico alla sfacciata golosità delle nature morte del Secolo d’oro olandense.
La controffensiva cattolica trovò nel Sacro Monte di Varallo, prima con Gaudenzio e poi con i fratelli d’Errico, Giovanni e Tanzio, un modo di narrare la Passione capace di coinvolgere il fedele davanti al trompe l’oeil multimediale composto da affreschi, statue con indosso vestiti di stoffa e tavolate imbandite con posate vere e pietanze in facsmile. In Toscana, invece, il realismo della Cena del Pontormo o delle «palette» con le ricottine «pure, semplici e naturali» di Lorenzo Lippi, si presenta in una versione più casta e purgata.
Con un salto triplo, piombiamo a piè pari nella contemporaneità dell’iconismo ironico pop: le bistecche «puntinate» di Lichtenstein, le zuppe Campbell di Warhol e soprattutto le ipercaloriche e ipercolorate pietanze di Oldenburg, prontamente imitate, senza un filo d’ironia, nelle vetrine dei fast food di Tokio. Lo svizzero-rumeno Daniel Spoerri, inventore della Eat Art, merita un posto d’onore, ma è Damien Hirst, con i suoi squali in formaldeide e le dimostrazioni sul ciclo della vita esemplificate da carcasse di mucca divorate dalle mosche, a riportarci all’origine del rapporto tra cibo, desiderio di vita e paura della morte.
Antonio Pinelli, la Repubblica 2/11/2014