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 2014  novembre 02 Domenica calendario

CIBOSOFIA

L’oste mestrino raggiunge il capannello dei fumatori fuori dal locale, alla fine della cena. Se ne accende una anche lui, incomincia a parlare. Già al momento delle ordinazioni aveva dimostrato una grande sapienza oratoria, nel descrivere i piatti con esattezza, senza enfasi e ridondanze, e in modo — proprio per questo — tanto più invitante. Saggio e fascinoso, ora racconta dei suoi lontani inizi come enologo e afferma che passando alla ristorazione si è accorto di comporre i piatti come se stesse curando vini. L’analogia è di grande effetto; ma cosa voglia effettivamente suggerire, e cosa io ne abbia capito ascoltando, francamente non saprei precisare.
É che di cibo si parla, si parla tanto, si parla in continuazione, mangiando e soprattutto non mangiando. Si parla di cibo, anzi di “food”, come una volta si parlava di sport, o di musica: esibendo competenze, rammentando esperienze, cercando di comunicare l’ineffabilità degli aromi e delle loro combinazioni. È la “gastromania” dice il semiologo Gianfranco Marrone, che oltre che all’Università di Palermo tiene corsi all’Università del Gusto di Pollenzo. Con tale neologismo ha intitolato il suo ultimo libro, un pamphlet divertito e apparentemente disimpegnato che viaggia fra cucine stellate e junk food, streetfood e food blog, talent show culinari e diete, tenendosi lontano dalla strumentazione concettuale della semiotica ma non dall’acutezza del suo sguardo (o meglio dalla sensibilità delle sue papille; Gastromania , Bompiani, pagg. 204, euro 14). Il passaggio della radice “gastro—“ dal rigore categoriale della “—nomia” alla dimensione dionisiaca della “—mania” è quasi un anagramma: ma rovescia la prospettiva. E innanzitutto incomincia a registrare un sostanziale svanimento dell’esperienza gastronomica vera e propria. Insomma, si parla, si parla e non si mangia mai.
Certamente non scopriamo ora la centralità mediale e sociale del chiacchiericcio su cibi, ingredienti, preparazioni, ristoranti, personaggi del settore. «Food is the New Fashion», ha proclamato la già celebre anchorwoman Martha Stewart nel 2011. Ma che gli chef abbiano sostituito gli stilisti, nell’immaginario mitologico contemporaneo, Carlo Freccero lo ripete da molto tempo prima. A proposito di fashion, quello che Marrone segnala è che la gastronomia è qualcosa di più profondo di una moda: è una forma d’arte (con autori, critici, accademie, bibliografie, esclusivismi...) e un modo di essere.
Il discorso investe la società e la cultura nel suo complesso ed è tanto fitto da arrivare a sminuzzare, tritare e alla fine polverizzare l’esperienza attorno a cui ruota. Il discorso del cibo si complica, si fa multi — e transmediale, incrocia ricette e combinazioni, informazioni ed evocazioni in algoritmi che prenderanno corpo tramite quella vera e propria stampante 3D che è, a pensarci, il forno. Ma arrivare a tavola, o piluccare a un banco, è l’ultima delle questioni, e non solo in ordine di arrivo ma anche di importanza. Nei talent show come nelle fiere, non si mangia: si assaggia; e tutti conoscono bene la differenza fra un sempre deludente buffet e La grande abbuffata di Marco Ferreri (film del 1973: arrivato cioè in anticipo di buoni quarant’anni). Non è solo la fine della fame atavica, passate guerre e carestie, il risveglio dalle smisurate fantasticherie di Rabelais e di Ruzante. Né è il mero passaggio dalla pancia-capanna al palato fino. È la nascita di categorie come il “food design” (Dario Mangano, Che cos’è il food design , Carocci editore, pagg. 140, euro 12), l’affermarsi di termini come «impiattamento », la conseguente abitudine di fotografare e postare pietanze, oramai proibita da inorriditi ristoratori francesi, newyorkesi e italiani (mentre lo chef Albert Adrià, fratello del più noto Ferran, ha abbozzato e ha progettato le luci del suo ristorante di Barcellona in modo che gli scatti possano almeno venire decentemente).
Quelle che ci mangiamo, insomma, sono spesso le parole. Se il cibo, come il teatro, richiede la presenza fisica e possibilmente collettiva (nei canoni della convivialità), noi godiamo, in realtà, anche della sua smaterializzazione. Foodporn, si chiama: è l’appagamento ottenuto indirettamente, tramite la parola e soprattutto l’immagine. E infatti il fenomeno dilaga sui social, attraverso una valanga di selfie in cui il soggetto si ritrae accanto al cibo: la bibbia storica del genere è il sito Pictures of hipsters taking pictures of food , ma non è certo il solo. L’hashtag #food già nelle classifiche riepilogative del 2013 ha superato, per numero di utilizzi, quello#selfie (ventiduesimo posto contro trentasettesimo). Mentre su Youtube i video — professionali, ma soprattutto amatoriali — si moltiplicano all’infinito. Non possiamo ingerire più di tanto; e allora, oltre che il suo non sempre desiderabile apporto proteico, il cibo ci offre la sterminatezza del nominabile, l’inesauribilità dell’inquadrabile. Peraltro, se la letteratura del dolore si rivolge più alla nostra pancia che alla nostra ragione, non è più sensato provare a soddisfare la pancia al ristorante, anziché in libreria?
Tra sapere e sapore vi è distinzione ma anche prossimità. Italo Calvino lo ha proclamato nella novella in cui una coppia in età scopre di avere tramutato la sopita passione carnale in un affiatamento da commensali. Ma il bello del discorso gastromaniaco è che mette in diretta comunicazione la ragione con la brutalità del gusto personale. Quelle pompose didascalie di menu su cui qualche anno fa Michele Serra esercitò la sua arguzia («Confidenze dell’orto raccolte in coccio») indicano il livello di astrazione da cui si può partire per giungere alla più primitiva e brutale delle forme di giudizio.
Alla fine “mi piace” non lo ha certo inventato lo Zuckerberg di Facebook. Tutta la sapienza culinaria, letteraria, teatrale, storica, chimica, ecologica dei gastronomi deve poi passare dalla cruna dell’ago di quei quattro giudizi che fin da bambini impariamo ad applicare, prima al cibo e poi a tutto il resto: mi piace, non mi piace, non mi dispiace, mi fa schifo.
Più è complessa la composizione gastronomica, più è spettacolare (e labirintica) la distanza da percorrere per raggiungere il nostro piacere, o il nostro disgusto. Più è alto il grado di condivisione, tramite social, più ci si dovrebbe interrogare se la condivisione sia la nuova forma della nostra convivialità. Ci accorgiamo così che attorno al cibo, inteso come possibile soggetto pornografico, si agitano questioni che investono un metabolismo molto meno fisiologico di quanto si potrebbe sospettare.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 2/11/2014