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 2014  novembre 02 Domenica calendario

CAPAREZZA

LONDRA
Sono in milleduecento al Koko di Camden Town, prezioso club londinese dove si esibisce la crema del rock britannico. Tutti paganti, non tutti italiani. Michele Salvemini da Molfetta, in arte Caparezza, artista dalla parola facile e dalla rima al vetriolo, non è salito fin quassù per ammansirli con le trite storielle sul paese d’o sole, della pizza e del bel canto. Sa che lì sotto, a pogare divertiti e arrabbiati, ci sono un venti per cento di inglesi, un trenta di varie nazionalità e un cinquanta di italiani in fuga dallo stivale solatio. «Siamo tornati a essere un paese di emigranti», sbuffa scuotendo la generosa capigliatura che gli ciondola sul viso (capa rezza in pugliese vuol dire testa riccia). «In questo tour europeo ho scoperto che ci sono ovunque un sacco di italiani. In Belgio siamo la prima comunità, a Londra senti parlare la nostra lingua in ogni angolo. L’emigrazione è di nuovo un fenomeno, anche se ancora sottovalutato. Oggi è facile, prendi un aereo e via, non devi fare come mio nonno che per fuggire in Australia dovette farsi un mese di nave. E non è bello sentir dire: con tutto il bene che voglio all’Italia io non ci torno, sto bene qua».
Caparezza è allegro, irrequieto, curioso. Ciondola per i corridoi cavernosi del backstage alla ricerca di segni tangibili del passaggio, tra quelle mura (una volta si chiamava Camden Theatre, fu edificato nel 1900), di personaggi come Charlie Chaplin (qui furono proiettati i suoi primi film muti) e, molto più tardi, quando il punk prese Londra d’assedio, Boomtown Rats e Clash; e, perché no?, di una targa che ricordi Bon Scott degli AC/DC, che al Camden Palace, come era stato ribattezzato, si prese la ciucca che il 19 febbraio del 1980 gli causò l’intossicazione fatale. «Sono nato con l’hip hop ma cresciuto con il rock, metal soprattutto, e un certo tipo di elettronica», esplode con l’aria sorniona e beffarda che tanto lo fa somigliare a Frank Zappa. Con Museica, l’album disco di platino pubblicato quest’anno, Caparezza si è confermato presenza irrinunciabile nella top ten delgendario l’Italian pop, o rap, o rock che dir si voglia (il concerto è tutto questo, e anche di più).
Il tour mondiale è il coronamento di vent’anni di carriera iniziata con uno scivolone («Esordii come Mikimix, avevo i capelli a zero, un Will Smith all’italiana, feci anche Sanremo; emigrante a Milano, molto incosciente e con una passione. Sarei finito sulla china di Gangnam style se avessi continuato») e consolidata da scelte responsabili e intelligentissime. Ora lo aspettano due date negli Usa, il 6 novembre nel leg- Whisky a Go Go di Los Angeles e l’8 alla North Beach Bandshell di Miami. «Mi stupisce questo interessamento. Non ho la voce dell’italiano che piace all’estero, anzi non ho la voce. Ho sempre ammirato gli artisti che all’ugola d’oro sopperiscono con le idee, ma per molti anni mi sono sentito inadeguato». Sa già quel che lo aspetta in America, una manciata di curiosi — che come i londinesi resteranno conquistati dalla sua verve — e un manipolo di italiani incazzati e poco inclini alla nostalgia. Non gli dirà di tornare, racconterà le molte verità che hanno raso a zero la generazione di quelli nati come lui nel ‘73, diventati bamboccioni non per comodità ma per necessità. Gli ricorderà, magari giocando sul palco con i découpage di quadri famosi (come il toro di Guernica), con quanta criminale indifferenza lasciamo che il nostro patrimonio artistico vada in malora. «Qualche giorno fa è crollato il solaio di un museo in Sicilia, il degrado di Pompei è sui tiggì di tutto il mondo. L’Italia è sempre in fondo a tutte le classifiche di civiltà. Ci sentiamo fighi perché stiamo seduti al tavolo dei G8, c’illudiamo di appartenere ai grandi, poi quando si parla di cose importantissime come l’istruzione siamo allo sfascio: la Finlandia in testa, noi al ventesimo posto. Mi pare siamo al 140esimo su 144 per efficienza politica. Però c’è una classifica in cui siamo primi, quella del patrimonio Unesco. Allora c’è qualcosa che non torna: come mai non riusciamo a valorizzare le nostre bellezze? Dicono: non sarà l’arte a salvare il mondo né l’immaginazione. Allora divento egoista e rispondo: sì, però hanno salvato la mia vita. Sento dire sempre più spesso “la strada è stata la mia scuola”; risponderò sempre più spesso la scuola è la tua strada».
Arrabbiato com’è riesce a malapena a controllare «quel branco di bolscevichi» che alberga nella sua testa. «Negli anni passati i cantanti erano tutti comunisti; bastava criticare un certo modo di fare del politico di turno per essere automaticamente di sinistra; oggi col tramonto del berlusconismo chi fa musica si sta smarcando dall’ideologia. Io invece voglio recuperarla giocandoci: facciamo che sono il comunista di turno, anche se non ho mai avuto in tasca la tessera di un partito. Nell’epoca degli sms è più facile parlare in maniera diretta. Mi piace la complessità per questo mi bollano sempre come uno schierato». Troppo deluso dalla politica per scrivere l’inno del Pd o del M5S. «Seguo solo le mie idee, non ho più un partito che mi rappresenti, perché al contrario di loro sono uno che cambia idea. Scrivere un inno vuol dire sposare una causa; in passato l’ho fatto piuttosto spesso e apertamente, ma oggi non lo rifarei, perché ogni volta che ho appoggiato un politico poi mi sono dovuto ricredere».
Anche musicalmente non ha sponsor. Se il talent è il lasciapassare per la contemporaneità, lui resta aggrappato alla old school, tanto per i musicisti non ci sono certezze, né per Caparezza né per i campioni di X-Factor. Sa che la canzonetta è traditrice: l’incubo di Mikimix si riaffacciò, questa volta per eccesso, quando Fuori dal tunnel diventò il tormentone del 2003. «Mi regalò un successo che non avevo, ma mi costrinse a fare i conti con quella che Pasolini chiamava la dannazione, il lato oscuro della celebrità», racconta. «Panico, per un timido e introverso come. Mi resi conto che ero diventato… di moda. Habemus Capa, il successivo, è a tutt’oggi quello che ha venduto meno, perché era un album senza hit, molto indie, volutamente oscuro. Risultato: persi un sacco di fan, quelli che mi seguivano per moda, ovvio. L’importante è che chi è restato e chi si è accodato sappia chi sono e come la penso».
L’ha detto chiaro e tondo, non ha paura di restare indietro, ha bisogno di una prospettiva, come negli anni Sessanta. «Tremo quando sento dire che la più grande rivoluzione dei nostri tempi è quella operata dalla Rete. Il pensiero unico è il mio incubo. Una volta ci si ammazzava per l’ideologia, ora ci si spara non si sa per cosa: fanghiglia, gossip, mancanza di approfondimento. I giornali sono diventati pagine web di cui si leggono solo titoli e didascalie. È tutto così rapido che inevitabilmente faremo dei passi indietro. Il rischio del pensiero unico? Che da un momento all’altro arrivi uno che si propone come salvatore della patria e in pochi anni diventa un super leader: ne abbiamo esempi lampanti. Non vedo spiragli in politica, viviamo in un paese ammorbato dalla religione. Per anni ho avuto paura del buio, l’educazione cattolica di provincia mi ha riempito di ansie che solo Odifreddi è riuscito a togliermi di dosso. Se tutto va in una direzione devo leggere qualcosa che va in senso contrario, non per spirito di contraddizione ma per avere un ventaglio di possibilità. Mi piace la democrazia della Rete che contrasta l’oligarchia televisiva, ma resto un analogico. Il cd? Un emulazione del vinile. Ho vissuto gran parte della mia vita senza un cellulare e ascoltando musica fuori da internet. Se sei Mozart da qualche parte vai, anche senza promozione. Internet è un mezzo formidabile, ma non può essere l’unico, non può essere dio. Dicono “il web ha detto questo, il web ha detto quello”, come se fosse un oceano di scienza, infallibile, un medium manovrato da extraterrestri. Il popolo è uno solo, non esiste il popolo del web.
Basta con questa idea messianica della Rete. Detesto chi nei blog sgureggia». Prego? «Detesto chi fa il guru».
Giuseppe Videtti, la Repubblica 2/11/2014