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 2014  novembre 02 Domenica calendario

COME SONO DIVENTATO UN KILLER

Sono ormai anni che ho come un vizio d’osservazione. Quando incontro una persona nuova tendo a evitare di categorizzarla secondo le valutazioni solite: ambizioso, furbo, ignorante, colto, gentile. Tendo invece a inserirla in una categoria tutta mia. Per esempio cerco di cogliere il grado di sofferenza che ha patito. Parto da lì. Quanto ha sofferto, quanto dolore ha provato. Quando ho incontrato David Tell ho visto un volto con addosso tutte queste tracce. Sembrava un Charlie Brown ma pieno di casini e di rovelli, persino emozionato nell’incontrarmi e totalmente disabituato alle interviste. È la prima della sua vita. Ho voluto incontrarlo dopo aver letto il suo libro, Io sono un’arma, che racconta come un uomo che entra nei marines (corpi speciali FastCo) si tramuta poi lentamente in un’arma.
David non è il suo vero nome: «Ho deciso di firmarmi con uno pseudonimo perché la mia filosofia è sempre stata questa: non emergere. Non voglio che i miei figli si debbano mai preoccupare per me. Durante le mie ultime missioni era stata messa una taglia su di me, sia dai narcos che dai vecchi alleati di Saddam. Non voglio fargli il favore di dirgli dove sto e quanto sono facile da raggiungere. Quanto al corpo dei marines è possibile che qualcuno non apprezzi il mio libro, e che quindi voglia screditarmi, boicottarmi, persino accedere ai miei file e decidere così di gettarmi in pasto ai leoni svelando la mia identità. Ma potrebbe anche accadere il contrario: più feroci e spietati vengono descritti, più i marines si sentono forti. Sono quasi certo che dopo aver letto questo libro diversi ragazzi andranno persino ad arruolarsi…». Le prime pagine ricordano in ogni dettaglio Full Metal Jacket, il film di Kubrick. «È il film che più di tutti racconta il disumano addestramento nei marines, ma è anche il film che i marines considerano quasi uno spot. “In quanti lo hanno visto?” urlano gli istruttori alle reclute appena arrivate. E davanti alle tante mani alzate proseguono: “Beh, non è così che verrete trattati, sarà molto peggio che nel film”».
David ha partecipato a operazioni considerate “terminali”, ossia da cui è difficile tornare. È stato in missione senza mai tornare a casa per un anno intero: «Sono missioni che può fare solo chi non ha famiglia, chi non la vuole, chi non vuole nessuno che gli voglia bene e chi effettivamente non ha nessuno che gli voglia bene». David ha ucciso, e molto, e anche da lì non si torna mai indietro. Come si fa a diventare un killer? Gli chiedo se ha ancora dinanzi i volti di chi ha ammazzato, se si ricorda attimo per attimo le volte in cui ha ucciso. «La prima volta senti una scossa elettrica nel corpo e nel cervello. I primi due non li dimentichi. Poi, in genere, te ne ricordi un altro paio, ma per altri motivi… che ne so magari uno ti stava ammazzando e tu ti sei salvato per un pelo, o a spararti era una donna. Ognuno di noi ha dei morti che ricorda, il numero ha una rilevanza relativa». Insisto, almeno ci provo — «Ma quindi tu quanti… » — ma non riesco a finire la frase. «Io non lo so quanti ne ho uccisi, e poi devi tenere conto del fatto che dove c’è fuoco incrociato tu vedi quello che cade ma non sai se la raffica è stata la tua o quella di un tuo compagno, oppure fuoco amico». Il cinema rende la guerra ordinata e razionale per esigenze di copione, altrimenti lo spettatore non comprenderebbe nulla. Ma è proprio quello che succede sul campo di battaglia. Non si capisce nulla. Il comandante forse ha una visione ipotetica di quello che sta succedendo ma i soldati che sono lì sparano tra rumori assordanti, panico, urla. «Non so di nessuno che sia mai andato a controllare se quello a cui hai sparato fosse davvero morto. Spari e basta. Io ricordo i primi due, poi è come se sfumasse tutto in una sorta di brodo. Non li ho mai contati. Sicuramente avrò ammazzato più di trenta persone, non credo di superare le settanta».
Il libro scritto da David è un manuale su come l’uomo possa essere modellato a non temere, non soffrire, non provare empatia né pietà, a obbedire immediatamente, a tendere tutto se stesso alla realizzazione di un obiettivo, a saper sopravvivere in condizioni estreme, a svuotare la testa da ricordi tristi, o felici. Essere solo biologia militare. Hai mai provato schifo per questa mattanza? O davvero l’addestramento ti ha anestetizzato? «Tutto è cambiato quando il cervello di un mio amico si è spiaccicato contro la mia maschera antigas. Da allora non riesco più a mangiare cibi che abbiano una consistenza liquida». E perché ci si arruola sapendo che di te vorranno fare un’arma? «Io sono entrato nei marines senza nessuna motivazione particolare. Quando hai diciott’anni hai una visione deformata della guerra e una visione ingenua delle cose. Non sono partito pensando di voler diventare un killer. Ti lasci influenzare dagli amici. Poi, sai, basta anche un piccolo episodio...». Tipo? «Tipo trovarsi con una pistola puntata in faccia in un parcheggio, fottersi dalla paura e pensare: va bene, vediamo se diventando un marine una pistola in faccia mi farà ancora paura». D’accordo, ma durante l’adde- stramento — violentissimo, disumano — nulla ti suggerisce di mollare? «Lì è una prova con te stesso. Ti chiedi: quanto riuscirò a resistere? Mollare è da merde, da falliti. Io mi sentivo un patriota, volevo ripagare il mio paese per ciò che il mio paese mi aveva dato». Poi, un giorno, David molla, lascia i marines, proprio lui, uno dei più fidati, sopravvissuto a missioni impossibili, diventato per la sua compagnia quasi una leggenda. «No, ero diventato una bestia, ed ero stanco di uccidere. Ha un senso quando sai perché lo stai facendo. Ma io non sapevo nemmeno chi uccidevo. Chi è sbarcato in Normandia sapeva chi ammazzava e perché, io non più. Durante una missione contro trafficanti di droga in una zona aeroportuale dovevamo prendere pilota e corriere. Ce la prendemmo invece con chi non c’entrava nulla. Un’altra volta ci avevano tolto piastrine identificative e documenti, tutto ciò che avrebbe potuto identificarci come americani. Anche le munizioni non erano dell’esercito ma di quelle che puoi recuperare sul mercato nero. Lì mi sono detto: ma questi cosa cazzo stanno facendo, mi stanno abbandonando sul ciglio della strada come un cane? Il fatto è che per il corpo dei marines tu sei solo una parte. Il fatto che il corpo dei marines ti usi per uccidere gli innocenti non frega a nessuno. Io non ho mai pensato di essere un killer, piuttosto un’arma a disposizione del corpo dei marines. Un’arma come ce ne sono tante nei loro magazzini. Così come non ho mai pensato che il mio fucile avesse del risentimento o delle emozioni, credo che i marines non abbiano preso in considerazione che ne avessi io. Solo un mezzo, uno strumento di loro proprietà».
E dopo? «Quando esci da un corpo speciale come FastCo ti serve tempo per riprendere contatto con la realtà, scrollarti di dosso la paranoia. Sei così abituato a sospettare di tutto e di tutti che è dura tornare a vivere. Ho passato anni a nascondermi e a scappare, soprattutto da me stesso. Oggi per me è molto difficile trovare cose in comune con la maggior parte delle persone che mi circondano». Si crede che vivere il dolore renda migliori. Ma questo può crederlo solo chi non ha davvero vissuto una grande ingiustizia. Non credo sia facile, dopo un trauma e dopo un grande dolore, tornare a una vita serena, persino riuscire a vivere con dignità. Il dolore ti spezza per sempre. Ma questa è solo la mia opinione, David non la pensa così. Si è costruito una famiglia. «Sì, sono passato attraverso la pazzia e ora mi sento meglio. Mi sono sposato, ho dei figli e cerco di fare di tutto per avere un codice morale». Cerca di stare lontano dai casini, me lo immagino come lo scienziato Robert Bruce Banner che quando si innervosisce si trasforma in Hulk. Cerca di stare lontano dalle risse e dai guai perché altrimenti rischia «di buttare giù i muri». Chiunque viva un dramma e un trauma riversa il dolore poi soprattutto sulle persone a cui vuol bene. E la mia ultima domanda è: come regge sua moglie tutto questo? «Vivere con me so che può essere molto difficile. Di notte mi sveglio piangendo e urlando, ma la persona che mi abbraccia e consola è mia moglie, e non c’è ragione perché io debba essere violento con lei».
“IO SONO UN’ARMA.MEMORIE DI UN MARINE” DI DAVID TELL (TRADUZIONE DI ALESSIO LAZZATI, LONGANESI, 624 PAGINE, 19,90 EURO) È ORA IN LIBRERIA
Roberto Saviano, la Repubblica 2/11/2014