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 2014  novembre 02 Domenica calendario

2 Articoli – GORBACIOV POTEVA ANDARE MEGLIO – [Intervista a Mikhail Gorbaciov] – MOSCA Venticinque anni dopo, dei grandi protagonisti che piegarono la Storia del Ventesimo secolo è rimasto lui

2 Articoli – GORBACIOV POTEVA ANDARE MEGLIO – [Intervista a Mikhail Gorbaciov] – MOSCA Venticinque anni dopo, dei grandi protagonisti che piegarono la Storia del Ventesimo secolo è rimasto lui. Non c’è più Reagan che un giorno gridò «Gorbaciov, abbatti quel Muro!». Non ci sono più la Thatcher né Mitterrand, che amavano talmente la Germania da preferire, dissero, «di averne due». E lo stesso Helmut Kohl, il cancelliere tedesco che appose la sua firma sotto la riunificazione, non parla più in pubblico da molto tempo. Così oggi spetta a Mikhail Gorbaciov ricordare quei giorni che archiviarono Seconda guerra mondiale e Guerra fredda, e giudicarne gli esiti. A ottantatré anni, l’ultimo presidente dell’Urss è seduto su una poltrona di pelle nel suo ufficio, e le emozioni attraversano i suoi occhi ancora così vivi, mentre getta lo sguardo sul viale Leningradskij in questa assolata giornata già quasi invernale. «Fu molto difficile arrivare a quel risultato» racconta, «ma era una tappa obbligata del processo di pacificazione e di disarmo. Prima o poi il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi, la fiducia. Quello che bisogna ritrovare». Mikhail Sergheevic, nel 2009 lei concesse al nostro giornale un’intervista da cui traspariva tutto l’orgoglio per essere stato l’artefice di una nuova pace mondiale, e una grande speranza per il futuro. «In quell’occasione raccontai per la prima volta cose che in passato mi erano sembrate premature. Il fatto è che la caduta del Muro fu un momento di arrivo, che ci colse tutti di sorpresa per la rapidità con cui avvenne. Quando morì Cernienko, nel 1985, i rapporti tra Est e Ovest erano al minimo storico. Da sei anni non c’erano incontri al vertice tra Usa e Urss. Il mondo era sull’orlo del baratro e correva ad armarsi sempre di più. Ma quella tremenda minaccia fu la spinta per cambiare. Credete sia stato facile? Per niente! Fu difficilissimo. La prima volta che incontrai Reagan, in Svizzera, sembrava impossibile. Poi ci furono altri incontri e fu chiaro che perfino lui, un falco, capiva che non potevamo permettere uno scontro nucleare. Dovevamo fermarci». Sul Muro, però, Reagan la sfidò fino all’ultimo giorno. «Era il suo modo di fare, era un attore e gli piacevano le frasi a effetto. Nessuno ci fece troppo caso. Il primo vero segnale fu durante la conferenza stampa che seguì la trattativa con Kohl nell’estate del 1989, quando qualcuno mi chiese che cosa pensavo del Muro. Risposi che su questa terra niente è eterno. Né io né Kohl potevamo immaginare che solo pochi mesi dopo la Germania si sarebbe riunificata». Lei come ricorda quel giorno? «Il Muro cominciò a cadere la sera del 9 novembre 1989. A Mosca era già tardi, e io ero andato a dormire». La svegliarono per darle la notizia? «No, nessuno mi svegliò, i dettagli mi vennero comunicati al mattino. Ricordo il senso di sorpresa, ma allo stesso tempo fu come se un muro crollasse anche dentro di me. Non ce lo aspettavamo, così presto; eppure lo sapevamo. Quando in Urss hanno cominciato a marciare i cambiamenti, si tennero le prime elezioni democratiche, e nei Paesi dell’Est scoppiarono le prime rivoluzioni, e quando anche il processo di disarmo tra Usa e Urss si consolidò, una triste realtà si mostrò netta ai nostri occhi: la Germania, e solo la Germania, restava sul ciglio della grande strada della Storia. Loro, i tedeschi, se ne sentivano offesi, amareggiati. E io li capivo. Così quel giorno fui felice per loro. Solidale. D’altra parte, in un certo senso la decisione era stata già presa». Secondo lei quale è la vera data di nascita della Germania unita? «Stiamo parlando del 1988. A Mosca ci arrivava notizia di tedeschi dell’Est che cercavano di andare nella Repubblica federale attraverso la frontiera ungherese. Poi lo stesso accadde in Polonia e in Cecoslovacchia, dove si poteva arrivare più agevolmente e dove ora i tedeschi dell’Est chiedevano di essere aiutati a passare a Ovest. Richieste sempre più massicce e incalzanti, che divennero un fiume in piena nell’estate del 1989. Ma erano cominciate molto prima che la stampa ne venisse a conoscenza, molto prima che Hans-Dietrich Genscher potesse annunciare a Praga l’apertura della frontiera. Io quell’anno andai in Germania ben due volte. A giugno ero a Bonn. Poi il 16 ottobre arrivai a Berlino per il Quarantesimo della Ddr. C’era anche la Fackelzug, la marcia delle fiaccole, a cui partecipavano i delegati di ventotto regioni. Mi trovai di fronte una massa di giovani e non solo, pieni di entusiasmo, che gridavano «Gorbaciov, resta qui! Gorby, libertà!». Il primo ministro polacco, Mazowiecki, venne da me e mi disse: “Mikhail Sergheevic, capisce il tedesco?”. “Forse per un trattato avrei difficoltà, ma quello che stanno gridando lo capisco”. E lui: “Allora capirà che questa è la fine”». Quale fu il problema più difficile da risolvere? «L’inadeguatezza di Honecker, allora a capo della Germania est, che non voleva capire. E, a parte gli Stati Uniti, anche l’atteggiamento dei leader europei. Dissi proprio a voi per la prima volta in un’intervista che la Francia di Mitterrand e l’Inghilterra della Thatcher non erano affatto d’accordo. Avrebbero preferito aspettare. Avrebbero preferito che l’Urss e il suo esercito bloccassero il corso degli eventi. I carri armati di Gorby. Il monito della guerra antinazista era ancora vivo. Ma il 26 gennaio del 1989, mentre a Berlino infuriavano le proteste, io avevo convocato una riunione allargata del Politbjurò. Tutti si dissero convinti che i tedeschi non si sarebbero arresi. Non ci furono obiezioni. Non avremmo mandato i soldati. Devo dire però che alla fine i leader europei si rivelarono estremamente responsabili». Che cosa è cambiato in questi cinque anni? «Abbiamo la guerra alle porte. Perfino ai confini dell’Europa, in Ucraina. Sempre più spesso, la politica cede il passo alle armi». I leader di oggi non hanno la saggezza di quelli di ieri? «Non voglio fare confronti. Dico che noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai principi di allora». Lei ha creduto in Obama? «Sì, certo, ci avevo creduto. E penso che lui capisca come stanno le cose e forse avrebbe potuto cambiarle. Ma evidentemente la macchina del complesso militare industriale in America è troppo potente, e quel che Obama aveva annunciato è sfumato come un sogno nella nebbia del mattino. Siamo ancora in tempo. Ma lo dissi in quei giorni e lo ripeto: la Storia punisce chi arriva tardi. Suggerisco di aprire gli occhi». I tedeschi almeno hanno fatto tesoro degli insegnamenti del Muro? «Il popolo sì, certamente. E io stimo molto Angela Merkel. Ma la Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa di Bruxelles, a causa degli Stati Uniti». Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata? «Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale». Recentemente, parlando dei fatti ucraini lei ha detto che gli Stati Uniti sono un virus peggiore dell’Ebola. Sembra di sentire Putin. «Sapete bene quante volte ho criticato Putin sulle libertà democratiche. Ma non posso criticarlo per la questione ucraina. Il nodo della Crimea non poteva essere eluso a lungo. La Crimea è abitata in stragrande maggioranza dai russi, non russofoni come dite voi, ma proprio russi. E c’è una bella differenza. L’errore fu fatto al momento della dissoluzione dell’Urss: bisognava stabilire per filo e per segno la sorte della Crimea. Le cose sono andate diversamente e la Storia non si può rifare. Oggi bisogna ripartire dal referendum in Crimea, i cui risultati non lasciano dubbi, e chiunque abbia assistito a quel voto, inclusi gli osservatori internazionali, lo può confermare. Per quanto difficile, non resta che prendere atto della realtà e accogliere la Crimea nella comunità internazionale come parte della Russia». Pensa che le sanzioni non risolveranno il problema? «Come si fa a pensare di punire con sanzioni un Paese con cui poi si è costretti a negoziare, alla pari? Pensate davvero che demonizzare la Russia possa servire alla causa comune? La pace è di tutti e possiamo salvarla soltanto tutti insieme». Fiammetta Cucurnia, la Repubblica 2/11/2014 GENSCHER MA ANCHE MOLTO PEGGIO – [Intervista a Hans-Dietrich Genscher] – BERLINO «Quella sera a Varsavia, con Mazowiecki e gli altri nuovi governanti di Solidarnosc, eravamo al ricevimento ufficiale quando arrivò la notizia. Il banchetto si trasformò in un rapido buffet». A ottantasette anni Hans-Dietrich Genscher rievoca con piacere quei giorni in cui fu lui, ministro degli esteri della Repubblica federale, l’uomo chiave della svolta, il Cavour tedesco. “Se due aerei Vip della Luftwaffe s’incrociano in direzioni opposte sull’Atlantico, a bordo di entrambi c’è Genscher”, era la battuta che circolava tra i Grandi d’allora. Signor Genscher, quali emozioni provaste alla notizia del crollo del Muro? «Fu una sorpresa assoluta. Del resto lei dovrebbe ricordaselo, era lì a seguire gli eventi no? Mazowiecki propose un brindisi, ci fece gli auguri nel suo tedesco perfetto. Adesso consultatevi tra voi, disse con un sorriso. Ci consultammo di corsa. Il tempo stringeva, le emozioni dovevano far spazio alla razionalità politica. Decidemmo di interrompere la visita, e di volare subito a Berlino». E come faceste? La Ddr esisteva ancora, e il vostro Boeing della Luftwaffe, come ogni aereo federale, non poteva sorvolarla né atterrarci… «Mazowiecki ci offrì un aereo polacco, ma volle anche essere così cortese da ricordarci che si trattava di un vecchio Tupolev russo, non esattamente conforme agli standard di sicurezza del governo tedesco. Alla fine volammo col Boeing della Luftwaffe fino nella Repubblica federale, da lì un jet della Royal Air Force ci portò a Berlino: gli inglesi potevano sorvolare l’Est coi loro aerei, noi no. L’indomani l’emozione prevalse sulla stanchezza, quando Kohl, Willy Brandt, il borgomastro di Berlino Ovest, Momper, e io, parlammo alla grande folla dal balcone del municipio di Schoeneberg. Sa, quello stesso da cui Kennedy disse la famosa “ Ich bin ein Berliner” poco dopo la costruzione del Muro. Beh, il giorno in cui toccò a noi parlare quel Muro era crollato». Davvero non si aspettava la fine della divisione della Germania e dell’Europa? «Pensai che eravamo al culmine di un lungo, difficile processo. Pensai ai trattati tra le due Germanie, alla conferenza di Helsinki, ma anche a quanto aveva aperto la strada alla situazione di quella sera: pensai alle rivolte popolari, nella Ddr nel 1953, nel 1956 in Ungheria, e sempre, in un dissenso di massa permanente, in Polonia, e ai coraggiosi di Charta 77 in Cecoslovacchia. La società civile dietro i Muri non si era arresa. E poi pensai a come il 1989 era cominciato: la svolta polacca, l’apertura della frontiera ungherese, il 30 settembre la fuga in massa di migliaia di esuli dalla Ddr nella nostra ambasciata a Praga. Eppure, allo stesso tempo, mi resi conto che non avrei mai immaginato che il Muro sarebbe caduto». Ebbe timore di un esito violento, come poi fu in Romania, o nel 1991 in Lituania? «Pochi giorni prima, a fine settembre, nel mezzo della crisi della nostra ambasciata a Praga affollata da migliaia di fuggiaschi, avevo incontrato i protagonisti all’assemblea generale dell’Onu: Shevardnadze, il ministro degli esteri della Ddr, Oskar Fischer, il collega americano, quello britannico e il francese. Avevo avuto l’impressione che Fischer guardasse alla realtà con realismo, e in generale ebbi sensazioni positive, favorevoli ». L’impero sovietico che crolla, la Germania che torna unita. Non temette per la pace nel mondo? «No, questa paura non l’ebbi mai. Al contrario: in quelle ore, le emozioni e la ragione mi dicevano che stava finendo la Guerra fredda, che si avvicinava il sogno per cui rischiarono e pagarono in tanti, tanti miei coetanei e tanti giovani, spesso anche con la vita, a Berlino Est nel ‘53, a Budapest nel ‘56, a Praga nel ‘68, e sempre, più volte, in Polonia”. Quale fu il momento più bello per lei? «Uno dei momenti più felici lo avevo già alle spalle la sera in cui il Muro crollò. Poco prima, il 30 settembre, sempre di sera, mi ero affacciato dal balcone della nostra ambasciata a Praga e a quei quattromilacinquecento concittadini dell’Est ammassati nel giardino annunciai che sarebbero potuti partire per la Repubblica federale». E quello più difficile? «Sempre quel 30 settembre 1989 a Praga. Perché a quella folla esultante dovetti anche annunciare che, in base all’accordo, avrebbero dovuto raggiungere la Repubblica federale viaggiando in treno attraverso la Ddr, e dovetti rassicurarli tenendomi dentro l’inquietudine. Sentivo la loro angoscia: diffidavano del regime, glielo leggevi negli occhi. Solo dando loro la mia parola che non avrebbero rischiato nulla riuscii a rassicurarli. Quanto a me, contavo sul fatto che il governo della Ddr avrebbe mantenuto la promessa. Ma solo quando, poche ore dopo, in piena notte, fui informato che il primo di quei treni passando dalla Ddr era arrivato senza problemi alla stazioncina bavarese di Hof, sentii come se mi fossi tolto un macigno da sopra il cuore». E come furono per lei i negoziati, dopo quella sera? «Una corsa contro il tempo, dovemmo trattare al ritmo più serrato con le quattro potenze occupanti. Quella sera del 9 novembre 1989 fu appena l’inizio insperato, ma solo il ‘Trattato 2 più 4” ci restituì la sovranità». E come fu, anche sul piano personale, negoziare coi Grandi? Con chi più facile, con chi più problematico? «Quello che segnò l’animo di Kohl e il mio, e che ci resta ancora dentro, fu il rapporto di fiducia personale con Gorbaciov e Shevardnadze. Fu anche quel clima di fiducia umana a rendere possibile la maturazione del processo di riunificazione. Anche gli americani, fin dall’inizio, sia Bush che James Baker, il suo segretario di Stato, ci appoggiarono con forza. Il loro sì alla riunificazione li rese i protagonisti più importanti». E con gli alleati europei? «Con la Francia fu più difficile: Parigi si sentiva e si presentava come l’avvocato della Polonia. Eppure per noi, con i buoni rapporti con Mazowiecki, e con il ruolo assunto dalla Polonia nell’89 e non solo, era chiaro che il Trattato sul confine sulla linea Oder-Neisse sarebbe stato ratificato dalla Germania unita senza obiezioni. E certo non rivelo alcun segreto dicendole chi si batté nel modo più acceso e con più veemenza contro la nostra riunificazione: Margaret Thatcher». Riunificazione: a molti sembra un’opera ancora incompiuta. Che ne pensava allora, e che ne pensa oggi? «Per me, allora, la riunificazione era semplicemente una cosa splendida. Finalmente, come disse Willy Brandt, cresce insieme chi deve stare insieme. Dopo quarant’anni di divisione e a ventotto dalla costruzione del Muro, mi sentivo grato alla realtà per la vittoria della rivoluzione pacifica dell’Est. Certo, le condizioni di vita reali nei due Stati non avrebbero potuto essere più diverse: da noi l’aggancio all’Occidente, l’economia sociale di mercato, all’Est l’economia di piano e i limiti brutali alla libertà politica e personale. È stato un processo difficile mettere insieme questi due mondi. Ma oggi, se mi guardo indietro, vedo e sento attorno a me una comune identità tedesca e l’idea di un futuro comune. Le differenze non sono solo tra tedeschi dell’est e dell’ovest: anche bavaresi e tedeschi del nord sono molto diversi tra loro. Ma sono diversità che, credo, rafforzano il valore costitutivo comune, il desiderio di vivere in pace e libertà». Venticinque anni dopo, nuove tensioni dividono l’Occidente dalla Russia: davvero non è neppure questa una delusione per lei? «Guardi, quando penso alle difficoltà di oggi mi consolo ricordandomi il lungo cammino che abbiamo percorso in questi venticinque anni. E rammentando l’auspicio che Mikhail Sergheevic Gorbaciov espresse allora: quello di vivere tutti in una “casa comune europea”». Andrea Tarquini, la Repubblica 2/11/2014