Giuliano Foschini e Fabio Tonacci, la Repubblica 2/11/2014, 2 novembre 2014
“LIBRI, VIDEO E RITUALI PER MANDARCI A MORIRE” COSÌ LA JIHAD RECLUTA IN ITALIA
ROMA.
In Italia ci sono tre pentiti della Jihad. Tre uomini, tunisini, che sono stati nei campi di addestramento militare in Afghanistan. Ci sono finiti seguendo passo dopo passo quel rigido protocollo di indottrinamento inventato da Al Qaeda e utilizzato oggi dall’Is, nelle moschee clandestine e su Internet. Quando sono entrati in Italia nemmeno pregavano Allah e ne sono usciti terroristi. Si chiamano Jelassi Riadh Ben Belgacem, Zouaoui Chokri e Tlili Lazhar Ben Mohamed, tutti arrestati negli anni scorsi. Pentiti. La loro collaborazione con i carabinieri del Ros è servita nell’ultima indagine che ha portato, a settembre, alla condanna a Bari dell’imam Hosni Hachemi e di altri quattro estremisti islamici. I tre hanno contribuito a sbrogliare le dinamiche della cellula. E hanno raccontato i metodi di arruolamento, le regole cui gli jamaat, i gruppi salafiti, devono conformarsi, le corde che toccano per spingere un ragazzo, africano, mediorientale o occidentale che sia, a immolarsi nella macelleria siriana o irachena.
IL CULTO DELLA MORTE
I reclutatori, dunque. «Non hanno un’estrazione povera e di emarginazione sociale — si legge nelle informative del Ros — ma al contrario provengono da contesti socio-familiari agiati ed elitari, hanno una ottima cultura universitaria e spesso esperienze belliche significative». Sono gli indottrinati ad essere disperati. Quindi deboli.
Ricorda Jelassi, che fu “arruolato” nel milanese da Al Qaeda: «Ci fanno il lavaggio di cervello. Ci sottopongono libri e video, poi c’è la loro filosofia che non ti lascia scampo. Ti fanno sembrare la vita un inferno. Non c’è via di uscita tranne che la morte. Ma tu puoi renderti utile morendo. Perché se uno ha fatto degli anni di carcere, è in mezzo alla strada a Milano, nevica, fa freddo, non ha da mangiare, non ha una coperta, rischia l’espulsione, nel suo Paese ha vent’anni da scontare, l’unica soluzione è morire! Se sei in quelle condizioni e ti parlano di Paradiso... tu dici, io sono già morto. E quindi ti piace l’idea. Ti lasciano fare la doccia, un pasto caldo, un giorno dopo l’altro, così viene inculcato il pensiero (di andare a combattere, ndr ) ».
Fino ad avere la percezione di essere un eroe per la “causa”, ancor prima di sapere bene quale essa sia. «Mi sentivo veramente un Dio sulla terra — mette a verbale Chokri Zouaoui, nell’inchiesta di Bari — a dire: “Oggi, cavolo, devo uccidere 50 o 60 persone”. Tutti ti portano sulle mani, ti mettono un tappeto rosso sul quale potresti camminare, è una sensazione bellissima ».
IL RITO DI INIZIAZIONE
E però l’accesso alle cellule salafite che nascono in Europa, «composte al massimo di 4-5 persone», è condizionato. Come nella criminalità organizzata, i soggetti interessati hanno riti da rispettare. E prove da offrire. «Quando uno per esempio lavora — spiega Jelassi — e lascia il lavoro e lascia anche la casa e lascia tutto. Questo è un gesto che dimostra (ai reclutatori, ndr) di essere molto disponibile. Quando uno abbandona la fidanzata, poi ritira tutti i suoi soldi dalla banca. Ecco, queste sono cose importanti». Segnali, messaggi. Che non bastano. Per ottenere il via libera c’è bisogno di una “raccomandazione”, e cioè che un terrorista già inserito, a mo’ di padrino, garantisca per te. «E questo qualcuno deve avere visto e toccato le prove». Cosa consentì a Jelassi di far parte del gruppo? «Soldi... cinquemila euro. Per i fratelli ho rubato cinque passaporti, ho mollato la fidanzata... devi avere tanta pazienza, sacrificio e così vedono se sopporti».
I LIBRI
Ogni dottrina ha i suoi manuali, e l’”università” del terrorismo islamico ha i suoi. «Ti fanno vedere dei testi — ricorda Tlili Lazhar, con un passato tra Francia e Italia — e anche dei poster. Per esempio c’era un documento, “La strada del Futuro”, dove erano tracciati due distinti percorsi di vita ultraterrena: il mondo occidentale è rappresentato con le immagini di un’autovettura, di dollari americani e di cibo, e viene illustrato il cammino dei kuffar (infedeli), che andranno direttamente all’Inferno ». Ci sono poi due libri, uno dei quali è stato ritrovato in un appartamento a Milano, considerati la “letteratura” di riferimento: “Elementi di base per la preparazione della Jihad per la causa di Allah”, scritto da un membro del gruppo Al Jihad («l’addestramento — vi si legge — è un obbligo per tutti i musulmani che godono di salute e dell’età adulta, il contri- buto economico per la causa di Dio è dettato a chi è esentato militarmente da compiere la guerra santa»), e “Abu Musab Al Suri e la decentralizzazione della Jihad”.
IL VIAGGIO E L’ADDESTRAMENTO
Durante questa fase, cresce l’ansia di imbracciare le armi e di preparare attentati. Prima di raggiungere il Medio Oriente, però, «si rimane per diversi giorni, per far crescere la barba e i capelli. Ti fanno imparare come camminare, perché tu devi viaggiare come un pakistano. C’era il barbiere, il parrucchiere, ti fanno assomigliare al pakistano, non puoi partire con un aspetto così», spiegava Rihad agli investigatori un paio d’anni fa. «Puoi stare bloccato qui a Roma anche per mesi, quando non si può viaggiare perché la strada è un po’ “calda”…». Ci sono due modi per arrivare in Afghanistan. «Roma-Peshawar diretti o Milano- Francoforte e Francoforte-Peshawar ». La prima tratta in aereo fino in Germania avviene con i documenti autentici, «ma quando arrivi lì, nascondi i tuoi e vai con altri documenti falsi, che ti servono per andare e poi tornare». Il campo paramilitare sulle montagne è l’epilogo. «Sono stato quattro mesi — sostiene Tlili Lahzar — ho fatto addestramento con armi leggere, kalashnikov, pistole... (c’erano) queste bombe artigianali con detonatori, ci allenavamo a programmarle per farle esplodere dopo un mese, una settimana, un’ora».
Giuliano Foschini e Fabio Tonacci, la Repubblica 2/11/2014