Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 1/11/2014, 1 novembre 2014
NAPOLITANO E IL RICATTO DELLA MAFIA «IL BERSAGLIO ERA IL GOVERNO»
«E allora, buongiorno presidente. La ringraziamo innanzitutto per la disponibilità che ha voluto dare con questa udienza qui organizzata e per l’ottima organizzazione e ospitalità che apprezziamo. È mio dovere ricordarle, avvertirla dell’obbligo di dire la verità, come la legge impone di fare, e quindi delle responsabilità previste dalla legge per il testimone. Abbiamo necessità, sempre per le formalità, di acquisire le sue generalità. Quindi Giorgio Napolitano, nato?». «Nato a Napoli il 29 giugno 1925» , risponde il capo dello Stato (le sue parole, d’ora in poi, sono riportate in corsivo ndr).
Dopo l’introduzione del presidente della corte Alfredo Montalto la deposizione del presidente della Repubblica al processo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia comincia con un atto di deferenza del procuratore di Palermo «facente funzioni» Leonardo Agueci, dovuto ma anche significativo. Nei giorni precedenti, infatti, all’interno dell’ufficio c’erano state polemiche sulla partecipazione all’udienza al Quirinale di un capo provvisorio che non s’è mai occupato né dell’indagine né del dibattimento sui possibili «patti occulti» tra boss e uomini delle istituzioni. «La mia presenza è rivolta anche a conferire piena rappresentanza all’ufficio del pubblico ministero, istituzione dello Stato deputata a dare attuazione all’esercizio obbligatorio dell’azione penale, nel momento in cui procede a un atto di indubbia e straordinaria rilevanza pubblica». Un atto che sarà condotto nel «massimo e deferente rispetto da parte nostra per le implicazioni e le prerogative di natura costituzionale, oltre che ancora e soprattutto per la sua persona. Ma accanto a ciò è ancora più forte da parte nostra l’aspirazione all’accertamento della verità per le vicende indubbiamente molto gravi che costituiscono materia di questo processo».
La deposizione si svolge dentro il labile confine tra l’impegno del presidente della Repubblica a dire tutta la verità e i limiti costituzionali sulla riservatezza «assoluta» garantita alle sue attività anche informali.
«Da un lato sono tenuto e fermamente convinto che si debbano rispettare le prerogative del capo dello Stato così come sancite dalla Costituzione — spiega Napolitano —. Dall’altra faccio il massimo sforzo per dare il massimo di trasparenza al mio operato e il massimo contributo anche all’amministrazione della giustizia. Sono su una linea sottile: quello che non debbo dire non è perché abbia qualcosa da nascondere, ma perché la Costituzione prevede che non lo dica; e quello che intendo dire è per facilitare il più possibile un processo di chiarificazione... E anche lo sviluppo della legittimazione di indagine e processuale della magistratura» .
La lettera
di D’Ambrosio
L’elemento essenziale della deposizione è il passaggio della lettera con cui nel giugno 2012 Loris D’Ambrosio — all’epoca consigliere giuridico di Napolitano, morto d’infarto un mese più tardi — confidò al presidente il sospetto di essersi sentito «un utile scriba» per fare da «scudo a indicibili accordi» fra il 1989 e il 1993, anni di veleni, bombe e omicidi «eccellenti». Napolitano ribadisce che D’Ambrosio non gli diede chiarimenti, e riconosce: «È difficilissimo dare una interpretazione» a quelle parole. La deposizione diventa anche un modo per rendere omaggio alla figura di un uomo rimasto molto turbato dalle polemiche seguite alla pubblicazione delle sue intercettazioni con l’ex ministro Mancino. Napolitano conobbe D’Ambrosio nel 1996 e dieci anni dopo lo trovò al Quirinale, collaboratore del suo predecessore Ciampi. «Lo rinominai consigliere, con un mandato più ampio per gli Affari di giustizia in generale... Mi aveva trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po’ di insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni, insofferenza che poi espresse più largamente nella lettera... Era anche un po’ assillato da queste telefonate... Era la lettera di uomo sconvolto, scritta d’impulso, con l’obiettivo di dimettersi e però sapendo che oramai era dentro un certo tipo di movimento di opinione, chiamiamolo così, o comunque di campagna giornalistica che lo stava ferendo a morte. Ho constatato de visu il suo profondissimo stato di ansietà e anche di indignazione, perché un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al servizio dello Stato. Ritengo che alcune di queste espressioni siano lo specchio di un uno stato d’animo veramente esasperato... Poteva concludersi forse anche drammaticamente, dato il grado di enorme tensione, e quindi con questa lettera lui si libera senza raccontare quello che probabilmente aveva da raccontare».
Il «41 bis»
e Ciancimino
Nella ricostruzione dell’accusa, l’introduzione per decreto dell’articolo «41 bis» dell’ordinamento penitenziario dopo la strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone, divenne subito uno dei principali temi di trattativa fra mafia e Stato; non a caso la sua abrogazione è indicata nel «papello» che sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino ai carabinieri, proveniente da Totò Riina. I pm chiedono a Napolitano se ebbe conoscenza dei contrasti tra i partiti nella conversione in legge di quel decreto.
«Il Presidente della Camera — risponde Napolitano — non entra nel merito dei provvedimenti sottoposti all’esame del Parlamento, né si confronta con i singoli gruppi parlamentari sui contenuti delle loro posizioni... Divenendo io Presidente della Camera dopo la strage di Capaci, prima dell’assassinio di Borsellino, mi trovai come prima questione di grande rilievo quella di incoraggiare la rapida soluzione con un voto in Parlamento che non ritardasse... In quel momento non vi furono, per quel che posso ricordare, distinzioni e contrapposizioni gravi sul da farsi... Le forze fondamentali, i gruppi parlamentari più forti, non avevano dubbi su quella linea... Più che ricordare dati specifici, cambiamenti di posizioni da parte di alcune forze politiche, del che non rammento nulla, sono convinto che la tragedia di Via D’Amelio ( l’attentato a Paolo Borsellino, il 19 luglio ‘92, ndr ) rappresentò un colpo di acceleratore decisivo, perché si era arrivati quasi al limite dei sessanta giorni per la conversione in Legge del decreto».
Scalfaro
al Quirinale
Napolitano divenne presidente della Camera dopo che il suo predecessore, nominato all’indomani delle elezioni del 1992, fu eletto capo dello Stato. «Fu talmente forte l’impatto emotivo della strage di Capaci che mentre si stavano prolungando le votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, ne venne un forte stimolo direi anche morale a trovare l’intesa necessaria per eleggere senza ulteriori prolungamenti il nuovo presidente nella persona, non a caso, di un parlamentare di lungo corso come l’onorevole Scalfaro che era stato molto intransigente su tutte le questioni del controllo di legalità e di lotta contro la criminalità...» .
Sulla situazione nelle carceri nel 1993 Napolitano spiega che Scalfaro «come poi è apparso anche in ricostruzioni più o meno recenti, aveva un rapporto privilegiato con organizzazioni cattoliche di assistenza ai detenuti. Era un campo di relazioni sue, strettamente personali» .
Il passaggio sulla richiesta dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino di essere ascoltato, nell’autunno ‘92, dalla commissione parlamentare antimafia all’epoca presieduta da Luciano Violante, è rilevante perché lo stesso Violante, nel 2009, svelò che a proporgli un incontro personale con Ciancimino fu l’allora vicecomandante del Ros Mario Mori, oggi imputato nel processo. Successivamente la richiesta dell’ex sindaco di parlare davanti all’Antimafia addirittura in diretta tv venne certificata negli atti parlamentari, ma l’audizione non avvenne.
Napolitano dice che fu informato della richiesta di Ciancimino, «molto probabilmente dallo stesso presidente Violante. Poi fu assunto un orientamento negativo nei confronti di quella richiesta... Ricordo vagamente, poi fu notizia apparsa rapidamente anche sulla stampa» .
Il presidente della corte Montalto chiede lumi sull’aspetto più significativo della questione:«Le fu fatto il nome del generale Mori, all’epoca? La richiesta di Ciancimino le fu in qualche modo ricollegata a possibili contatti precedenti tra Ciancimino e Mori o altri carabinieri?». La risposta di Napolitano è categorica: «No» .
Le bombe
del 1993
Gli attentati compiuti da Cosa nostra sul continente nel 1993 fra Firenze, Roma e Milano, rappresentano un altro passaggio chiave perché diventano — nell’ipotesi accusatoria — lo strumento di pressione per ottenere l’allentamento del «carcere duro». Le esplosioni del 27 luglio avvennero all’indomani della proroga dei «41 bis» decisi dal governo un anno prima, all’indomani della strage di via D’Amelio. «La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di governo in particolare — dice Napolitano — fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia, si parlava in modo particolare dei corleonesi, e in realtà quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via, si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché questi aut aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese, e naturalmente era ed è materia opinabile. Comunque non ci fu assolutamente sottovalutazione...» . Poco dopo il pm Di Matteo chiede: «Quindi si ipotizzò subito la matrice unitaria e la riconducibilità ad una sorta di aut aut , di ricatto della mafia. Ho capito bene?». Risposta di Napolitano: «Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema» . Poi si passa ai timori di colpi di Stato con tanto di blocco delle linee telefoniche evocati da Ciampi, all’epoca presidente del Consiglio: «Il fulcro della responsabilità era senza alcun dubbio il governo e non a caso il black out i presunti eversori l’avevano fatto a Palazzo Chigi, non a Montecitorio né a Palazzo Madama. Noi seguivamo, eravamo coinvolti eccetera, però in quel momento il bersaglio era il governo, e di conseguenza la sede delle decisioni da prendere era palazzo Chigi» .
L’allarme
del Sismi
Il ventilato attentato della mafia a Napolitano o a Spadolini, presidente del Senato, comunicato dal servizio segreto militare nell’agosto ‘93 è entrato di recente nel processo per dimostrare a quale livello poteva arrivare il ricatto mafioso allo Stato nelle intenzioni di Cosa nostra.
Secondo il presidente, quell’episodio rientrava «in qualche modo» nello stesso disegno delle bombe: «Questa ipotesi attinta presso una qualche fonte confidenziale dei Servizi, nuova strage con quante più vittime possibile e attentato a due uomini politici, evidentemente era il prolungamento di una strategia di attacco frontale allo Stato; quella che poi, in fasi successive, dopo la sconfitta dei corleonesi fu superata. È chiaro che c’era una certa unicità di contesto» .
In ogni caso, «posso dire con molta semplicità, e credo valga anche per il compianto Spadolini, che io accolsi questa notizia con assoluta imperturbabilità, perché avevo già vissuto tutti gli anni della stagione del terrorismo in cui di minacce ne fioccavano da tutte le parti e purtroppo non fioccavano solo minacce, ma anche pallottole a esponenti politici, sindacali, eccetera. Come dire che, un po’ per natura e un po’ per fredda considerazione politica, non ci scomponemmo minimamente. Anche perché abbiamo sempre considerato che il servire il Paese, e voi magistrati lo sapete meglio di chiunque altro, significa anche mettere a rischio ipotesi di sacrificio della propria vita, e guai a farsi condizionare da reazioni di timore o di allarme personali» .
L’avvocato
di Riina
Quando tocca ai difensori, il confronto tra Napolitano e il legale di Totò Riina — l’avvocato Luca Cianferoni — diventa in qualche modo la trasposizione del mancato faccia a faccia, sia pure virtuale, tra il capo dello Stato e il capo della mafia, Totò Riina, che aveva chiesto di presenziare all’udienza in videoconferenza.
L’avvocato affronta la «interessenza dei nostri servizi segreti all’associazione Cosa nostra», e Napolitano risponde: «Non ruberò il mestiere alla pubblica accusa avventurandomi in temi come quello dei rapporti tra Servizi Segreti...» , ma il presidente della corte lo ferma perché la domanda non è ammessa. A un altro quesito respinto dai giudici, ancora sulle eventuali confidenze ricevute da D’Ambrosio, il capo dello Stato replica: «Voglio accontentare l’avvocato... Sono tenuto a non rendere pubblico il tenore delle mie conversazioni con collaboratori e con non collaboratori, ma stia tranquillo che non mi ha dato nessun elemento di riferimento» .
Quando il presidente boccia un’ulteriore domanda perché «le riflessioni del teste non sono ammissibili» l’avvocato ribatte, forse irridente o forse no: «Non sono riflessioni , sono scienza di un presidente della Repubblica». Poi insiste con domande su scioglimenti delle Camere e formazioni di governi, ma stavolta è Napolitano che ironizza: «Se vogliamo fare un talk show sulla storia della Repubblica...» . Il presidente della corte lo blocca sul nascere. Il duello tra avvocato e giudice prosegue, e tra una domanda ammessa e una respinta Napolitano alla fine taglia corto: «Non ho mai preteso di essere un mafiologo, quindi queste sottigliezze non sono in grado di rappresentargliele in modo convincente».