Giancarlo Perna, Libero 1/11/2014, 1 novembre 2014
IL DALEMIANO PENTITO: «GOVERNO SCARSO CI MANDA A SBATTERE»
Se quindici anni fa avessi voluto incontrare il prof. Nicola Rossi l’avrei trovato a Palazzo Chigi a fianco dell’allora premier, Max D’Alema, di cui era consigliere economico. Oggi invece Rossi, per tre legislature parlamentare Pds-Pd, mi dà appuntamento nella sede milanese dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl), areopago liberista, di cui fino a poco fa è stato presidente. «Da diessino a liberale. Dov’è il trucco, prof?», chiedo. «Ho fatto un errore», risponde placidamente Rossi. «Ho creduto che la sinistra potesse aprirsi alla cultura liberale, che è la mia. Sbagliavo e mi sono dimesso nel 2011 da senatore del Pd, tornando alla cattedra di Economia politica a Tor Vergata». Vi ho anticipato queste scampolo, ma non crediate che le cose siano andate così semplicemente. L’appartamento dell’Ibl, al Parco Sempione, è di medie dimensioni ma super affollato. L’atmosfera è accattivante. Nella sala grande siedono diversi stagisti. Ambosessi, tra i venti e i trent’anni, hanno le teste chine sui ponderosi trattati dei loro idoli intellettuali von Hayek, von Mises, Popper ecc. Aldilà del corridoio ha una stanza sua - invasa di libri e tre computer - Alberto Mingardi. Se uno non sapesse che Mingardi è il direttore generale e cofondatore del think thank, lo scambierebbe per uno dei giovanetti che, in preda a manie di grandezza, ha voluto una stanza per sé. Mingardi, trentatreenne, è infatti un loro coetaneo che avendo pubblicato il suo primo libro a diciannove anni, seguito da molti altri, è un prodigio da così tanti anni da essere il più decrepito dei precoci. Ma il punto dolente per Rossi e me è che non sembrano esserci stanze dove isolarci per l’intervista. Falliscono anche i tentativi nei locali residui nei quali si affastellano altri studiosi intenti e concentrati. Tra il fumo dei cervelli, giungiamo all’ultima fucina, quella di Oscar Giannino. La sua testa con barbetta sbuca dietro il computer e ci sorride festoso. Intavola immediatamente con Rossi una discussione su Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia. Il tema è: come ha potuto Padoan fare una Legge di Stabilità tanto scombiccherata da sembrare l’opera di un politico (vedi Renzi) invece che di un tecnico di valore? I due, confabulando in modo complicatissimo, concludono che Padoan è un tipo diplomatico che cerca la strada meno impervia di convivere col premier. Inoltre pur soffrendo per le spericolate ingerenze di Renzi, esita a minacciare le pur desiderate dimissioni per non allarmare i mercati. Su ciò, Oscar scioglie l’intrattenimento e scappa via per lavoro, lasciandoci padroni della stanzetta. È solo a questo punto che nasce lo scambio di battute che ho riferite all’inizio. Prendo atto che il prof considera un errore la sua milizia tra i dalemiani e gli chiedo perché, sentendosi liberale da sempre, non abbia pensato di fare politica nel centrodestra. «Consideravo Berlusconi un ostacolo a una vera politica liberale», è la sua risposta. Dunque, mi trovo in un ambiente sicuramente liberale ma certamente non filo Cav. Giannino polemizza con lui da anni, Mingardi è distante. Non è la sola constatazione che faccio. Qui molti luoghi comuni dei moderati nostrani sono banditi. C’è, a cominciare da Rossi, una forte ortodossia europea. L’euro è sacro, la Germania va imitata, le regole Ue sono benefiche. Utopia? Miopia? Chissà. Il prof è un tipo calmo che, per un’ora intera, parla con le braccia conserte. La situazione italiana? «Preoccupante, perché questa maggioranza non è consapevole di come stiano le cose. Se lo fosse, si attrezzerebbe». Politici non all’altezza dei nostri guai? «A giudicare dagli ultimi vent’anni, assolutamente no. I loro risultati sono sconfortanti». Boccia Berlusconi… «E Prodi e Monti e Letta e Renzi. Il punto in comune è l’incapacità di dire la verità. Senza verità è impossibile che ottengano la nostra fiducia. La verità consiste nel dire: siamo qui, vogliamo andare lì e la strada è questa». Come valuta Renzi? «Finora ho visto poco. La Legge di stabilità, punto cardine, ha confermato tutti i miei dubbi». Il suo amico Padoan? «Lo stimo molto. Vorrei però chiedergli se la Legge di stabilità è stata scritta da lui, come era logico, o da Renzi, che sarebbe improprio». Pare che Renzi voglia cacciare tutti i funzionari dell’Economia colpevoli di poco zelo renziano. «Ho sentito di peggio. Che la bollinatura (il via libera del Ragioniere dello Stato alla Legge di stabilità, ndr) potrebbe essere fatta a Palazzo Chigi, scavalcando l’Economia. Alterare l’equilibrio dei poteri sarebbe punito dai mercati. Se bollina lo stesso che ha fatto il provvedimento che credibilità ha?». Renzi strafà? «Tende a circondarsi di fedeli, segno di debolezza. Giusto volere attorno a sé persone di cui fidarsi, che condividano lo stesso progetto e siano di grande valore. Ma qui è diverso. La sua squadra è di scarso livello ed è legata a lui dalla cieca fedeltà, non dalla lealtà degli ideali comuni. Non ci sono voci dissenzienti e, poiché sono in ballo i nostri soldi, mi preoccupo». Renzi è un pericolo per la democrazia? «Lo è per se stesso. La qualità dell’azione di governo è data dall’opposizione. Renzi fa di tutto per non avere oppositori e, non dovendo confrontarsi, rischia errori e mediocrità». Cos’è che non va nella Legge di stabilità? «Aldilà dei proclami, moltiplicati dalla stampa, non ci sono né minori imposte, né tagli di sprechi. La spesa pubblica, anzi, aumenta. E con questa poca cosa apriamo un contenzioso con l’Ue con il solito ritornello della maggiore liquidità?». Non è quello che ci vuole per lo sviluppo? «Renzi non capisce che, nelle attuali condizioni, ci sono due idrovore: banche e fisco. Sono loro a inghiottire qualsiasi liquidità venga immessa nel sistema. Ecco perché gli 80 euro in busta paga e il pagamento dei debiti della Pa non hanno sortito effetti sulla domanda. Non capirlo è costruire sulla sabbia». Si fa strada l’idea di uscire dall’euro. (Ride) «Miserie di cui non ci si deve occupare. Sarebbe una catastrofe. Chi chiede l’uscita, non dice ciò che accadrebbe: energia più cara del cinquanta per cento, tassi di interesse doppi, risparmi in fumo. Resteremmo fuori dai mercati per anni, come ha testimoniato sull’Economist il governatore della Banca centrale argentina, Mario Blejer, concludendo: “Non ci pensate nemmeno”». Battere i pugni a Bruxelles? «Renzi lo minaccia da mesi. Poi, richiamati sulla Legge di stabilità, versiamo altri quattro miliardi di riserve che dovevano servire a tagliare le tasse. Invece di alzare la voce, dovremmo rispettare le regole, schierarci con la Germania, anziché con i Paesi meno virtuosi e pretendere che i 300 miliardi di investimenti Ue promessi da Juncker vadano solo a chi ha i conti in ordine, escludendo gli altri. Se è vero che siamo un Paese leader, come dice Renzi, il Paese leader è quello che chiede agli altri di rispettare le regole». Si possono diminuire le imposte? «Sì, aggredendo la spesa pubblica. Ci sono interi settori da cui lo Stato deve ritirarsi. Tutti i risparmi saranno poi utilizzati per diminuire le tasse». Tra i tagli, lei vuole anche quelli delle pensioni. «Lo Stato non deve mai mancare di parola e la retroattività è odiosa. I tagli alle pensioni riguardano quindi il futuro. Ma se fossero stati fatti vent’anni fa, oggi ci sarebbe più giustizia generazionale». Lei che farebbe subito? «Creerei, accanto alle banche, canali non bancari per finanziare le imprese: facilitazioni per l’emissione di obbligazioni e cose così. Frenerei la voracità del fisco con la riduzione della spesa pubblica. Incentiverei la formazione dei giovani». Che c’è dopo Renzi? «Un altro presidente del consiglio. In politica, le alternative ci sono sempre. È l’opposizione che dovrebbe essere pronta. Tu non ce la fai? Ci siamo noi. L’attuale assenza di opposizione del centrodestra è il più grave dei suoi fallimenti». Non teme che, a furia di immigrazione, il figlio di suo figlio diventi domani Ahmar, Rossi in arabo? «L’immigrazione indiscriminata non va bene. Vorrei da noi ingegneri indiani, che non vedo. Dovremmo essere una società attrattiva che accoglie ciò che è utile per sé».