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 2014  novembre 02 Domenica calendario

IL GIOGO/ APPARATO DI MORTE


Oggi Benito Corghi avrebbe 76 anni, se gli fosse stato consentito di vivere. Invece gli è toccato di essere ucciso lungo il Muro, senza aver violato alcuna legge o regolamento, mentre faceva il suo lavoro di camionista. E su di lui, unica vittima italiana della macchina di morte messa in piedi dalla Ddr al confine inter-tedesco, è calato il silenzio. Tranne i suoi familiari, pochi lo ricordano, quasi quarant’anni dopo.
È l’alba del 5 agosto 1976 e Benito Corghi, 38 anni, di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, autotrasportatore dipendente della cooperativa Ara, pensa di aver concluso la parte più difficile della trasferta. A mezzanotte del 4 è stato completato il carico del suo Tir: carne di maiale, stivata nel macello di Cottbus, non lontano da Berlino Est, in quella che allora è la Deutsche Demokratische Republik, la Germania comunista. Il camion ha poi attraversato lentamente il territorio della Ddr, sull’autostrada rivestita da lastre di cemento invece dell’asfalto, lungo la quale non si affacciano cartelloni pubblicitari ma striscioni rossi che inneggiano al socialismo e ripetono gli slogan del comitato centrale. Almeno con l’idea di socialismo, Corghi è pienamente d’accordo: è un membro attivo del Pci. La sua è una famiglia che ha fatto la resistenza. E lui è dipendente di una coop nel cuore dell’Emilia rossa.
IL BOOM DELLA CARNE
Sono gli anni nei quali gli italiani hanno scoperto la fettina. La carne, cibo un tempo riservato ai ricchi, è sulle tavole di tutti. Quella italiana non basta, tocca importarla. Qui entrano in gioco il Pci e le sue relazioni con il mondo comunista, grazie alle quali molte industrie italiane hanno stretto accordi con l’Est. La carne ungherese e quella della Ddr diventano un affare per le coop rosse.
Quelle che danno lavoro a Corghi. Il quale nel frattempo ha attraversato la Turingia ed è arrivato al posto di confine di Hirschberg (ultima località della Ddr). Di fronte, oltre il posto di controllo e gli sbarramenti, c’è Rudolphstein, in Baviera: l’Ovest, la Repubblica federale tedesca. Il camion italiano dopo i controlli passa il confine più sorvegliato d’Europa. Sono ormai le 3 dell’alba del 5 agosto.
LA TRAPPOLA
L’intoppo sorge a Ovest. «Manca un certificato veterinario: il carico non può passare». Così si sente dire il camionista italiano dalle guardie di frontiera tedesco-occidentali. Corghi è attonito. È un guidatore esperto, è abituato a muoversi all’Est e non capisce come sia potuto accadere. «Allora giro il camion e vado a recuperare il documento», dice. Niente da fare. Gli viene spiegato che se il mezzo torna indietro, salta tutta la procedura di autorizzazione. I funzionari dell’Ovest sono inflessibili. Niente bolla veterinaria, niente passaggio. L’italiano è disperato. È finito in una trappola burocratica. Ma il carico è troppo importante. È il suo lavoro. È lui il responsabile. Così decide di fare l’unica cosa possibile: tornare indietro, a piedi, al posto di confine tedesco-orientale di Hirschberg, a prendere quel maledetto pezzo di carta.
Poco meno di un chilometro a piedi. In una terra che, fino a trent’anni prima, era lo stesso Paese. E che ora è divisa in due Stati nemici. Basterebbe che quelli dell’Ovest alzassero la cornetta e chiamassero quelli dell’Est e le cose si chiarirebbero. Ma le cose funzionano così in una realtà normale. Non lungo la cortina di ferro, il confine tra due mondi. Che parlano entrambi il tedesco, ma non si parlano.
Corghi si incammina, una sigaretta in una mano, un borsello pieno di tutti i documenti possibili nell’altra, lungo la strada in cui la luce fioca dei lampioni combatte con la nebbia e l’oscurità delle 3,40 del mattino. Ma quello è un percorso riservato ai veicoli e vietato ai pedoni. Dal posto di guardia di Hirschberg viene immediatamente individuato dai Grenzpolizisten, gli agenti di confine dell’Est, quelli che noi chiamiamo “Vopos”. Che pensano a un intruso che sta violando l’integrità territoriale della Ddr. Scatta l’allarme.
LA TRAGEDIA
Viene inviata una pattuglia per catturarlo. Il graduato Uwe Schmiedel, 20 anni, lascia avvicinare l’uomo fino a quindici metri, poi sbuca fuori da un nascondiglio col mitra puntato e gli urla: «Alt, fermarsi, posto di confine, mani in alto!». Intimazione regolamentare. Alla quale Corghi reagisce «alzando tuttavia soltanto una mano», come è scritto nel rapporto delle autorità militari della Ddr. Nell’altra ha i documenti. Cerca di spiegare come può la situazione. Ma il giovane militare pensa soltanto a rispettare gli ordini.
«Stehenbleiben, Grenzposten, Hände hoch!», alt, posto di confine, mani in alto!, urla Schmiedel. Corghi non capisce, si gira, torna indietro verso l’Ovest. Il militare grida di nuovo, poi spara: «due colpi di avvertimento, tre mirati», sempre da regolamento. Due proiettili raggiungono il camionista alla schiena. Rantolante, viene caricato dai soldati su un’auto e portato al posto di controllo, dove viene messo sul cassone di un camion. L’ambulanza arriva dalla città di Jena soltanto dopo mezz’ora, quando Corghi è morto.
LO SDEGNO E LE SCUSE
Il 6 agosto è il giorno dello sdegno e dell’imbarazzo. Protestano il Pci e la Farnesina. Per la prima e unica volta nella sua storia, la Ddr si scusa formalmente per una uccisione avvenuta lungo il suo confine. Un funzionario viene mandato a Rubiera, a porgere le condoglianze al partito e alla famiglia. «Non si difende il socialismo ammazzando la gente», gli risponde, dura, la moglie di Corghi, Silvana Bertarelli. Lei e i figli, Loretta e Alessandro, all’epoca 18 e 16 anni, non accettano la versione ufficiale della «tragica catena di fatalità». Soltanto dopo la fine del Muro e della Ddr si saprà la verità: i controllori dell’Est avevano dato il via libera al camion di Corghi minuti prima che il veterinario di turno, ispezionato il Tir, tornasse al gabbiotto di guardia con la bolla firmata. Schmiedel, processato nel ’94, sei anni dopo la caduta del Muro, è stato assolto.
Quasi quarant’anni dopo, a Rubiera, dove persiste un tenue ricordo di quei fatti, il Comune sta riflettendo se, accanto a via Che Guevara e via Salvador Allende, non sia il caso di dedicare una strada anche a Benito Corghi, eroe del dovere e del lavoro che l’Italia ha rimosso.