Sergio Romano, Corriere della Sera 3/11/2014, 3 novembre 2014
MEMORIE DEL 28 OTTOBRE, CRONACA DI PAOLO MONELLI
Il 28 ottobre è trascorso quest’anno senza che venisse ricordata la ricorrenza infausta per l’Italia. Nel libro «In Italia ai tempi di Mussolini» di Emilio Gentile viene ricordata la sera del giorno successivo, il 29 ottobre 1922, in cui Mussolini, alla domanda del giornalista Edgar Hansel Mowrer che gli chiedeva che cosa stesse succedendo, rispose tronfio: «Vado a Roma ad instaurare il fascismo». Però malgrado la sua prosopopea non si può trascurare quello di cui lo rimproverò De Vecchi, che aveva mandato gli altri in avanscoperta e si era mosso solo quando non rischiava più nulla.
Antonio Fadda
antonio.fadda@virgilio.it
Caro Fadda,
recentemente è stato ristampato dall’editore Mursia un piccolo libro di Paolo Monelli in cui sono raccolti, a cura di Beppe Benvenuto, gli articoli apparsi su «Storia Illustrata» nell’ottobre del 1972, in occasione del cinquantesimo anniversario della Marcia su Roma. Il quadro che ne emerge, sotto la penna di uno dei migliori giornalisti italiani del Novecento, è quello di una tragicommedia in cui i maggiori personaggi recitano a soggetto con progetti imprecisi, dubbi, incertezze.
Monelli racconta tra l’altro il suo incontro con Italo Balbo in Libia nel 1934 quando il governatore della colonia gli aveva fatto qualche confidenza sui continui tentennamenti di Mussolini. La marcia aveva avuto luogo, secondo Balbo, perché lui stesso aveva bruscamente costretto Mussolini a fare una scelta: o la fai tu o la faremo senza di te. Il capo del partito fascista esitava perché non sapeva quali sarebbero state le reazioni delle autorità e non escludeva la possibilità di una sorta di rimpasto in cui il fascismo sarebbe andato al potere senza assumere la guida del governo. I timori non erano interamente infondati. A Milano, la mattina del 28 ottobre, quando la marcia stava per cominciare, una trentina di guardie regie, appoggiate da tre autoblindo, decisero di dare l’assalto a una specie di fortilizio che era stato costruito intorno alla redazione del «Popolo d’Italia». Mussolini scese dal suo ufficio e andò a negoziare con il comandante delle guardie quando un colpo di fucile, sparato da un fascista troppo nervoso ed eccitato, gli sfiorò l’orecchio. Un soffio più in là e il fascismo avrebbe perso il suo capo.
A Roma, nel frattempo, il maggior problema del governo dimissionario di Luigi Facta era quello della proclamazione dello stato d’assedio, lungamente discussa, ma non ancora decisa. La decisione fu presa nella notte del 28 ottobre, e una copia del decreto fu inviata ai comandi militari e alle prefetture. Ma occorreva la firma del re e questi, quando Facta apparve nel suo studio, rifiutò di apporla. Sappiamo ora che Vittorio Emanuele, mente i ministri scrivevano il decreto per lo stato d’assedio, aveva convocato a palazzo alcune personalità fra cui due generali: Armando Diaz, comandante supremo dell’esercito italiano dopo la rotta di Caporetto, e Guglielmo Pecori Giraldi, governatore militare della Venezia Tridentina dopo la fine della guerra. Ad ambedue Vittorio Emanuele chiese quale sarebbe stata la reazione dell’esercito se gli fosse stato chiesto di fermare le camice nere con le armi. Diaz rispose: «Credo che l’esercito obbedirà all’ordine che gli sarà dato, ma le consiglio di non metterlo a questa prova». E Pecori Girardi fu ancora più asciutto: «L’esercito è fedele; ma è bene non farne l’esperimento». Per Mussolini la strada di Roma era aperta.