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 2014  novembre 01 Sabato calendario

PECORARO, NESSUNO È PREFETTO

Solerte è solerte, Giuseppe Pecoraro. Se il ministro dell’Interno ordina, lui prontamente esegue.
L’ultima, zelante, iniziativa del prefetto di Roma riguarda le unioni gay registrate al Campidoglio da Ignazio Marino. Dopo aver invitato il sindaco a cancellare i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, senza successo, il buon Pecoraro è subito passato all’azione con un atto di annullamento inviato all’Amministrazione il 31 ottobre. Marino ha fatto sapere che disubbidirà agli ordini. Per ora è tutto da rifare, in attesa che il parlamento legiferi sulla materia.
LE MANGANELLATE AGLI OPERAI. Nel frattempo Pecoraro raccoglie il plauso del capo che, s’intuisce, non gli chiederà certo conto dei disordini che durante il suo mandato (è stato nominato nel 2008) hanno attraversato Roma.
L’ultimo episodio è di tre giorni fa: le manganellate agli operai di Terni che manifestavano davanti al ministero per lo Sviluppo economico. Pecoraro ha detto a Il Tempo che non era sua responsabilità mantenere l’ordine, che dovevano occuparsene la Digos e la questura, che solo se ci sono «eventi di particolare rilievo il questore riferisce al prefetto».
«I MANIFESTANTI HANNO CERCATO IL CONTATTO». Una carica sui lavoratori è di basso, medio o alto rilievo? Chissà. In ogni caso, ha fatto sapere il prefetto, «sono stati i manifestanti e non gli agenti a farsi avanti fino al contatto». E dunque «dobbiamo essere vicini alle Forze dell’ordine, come lo è stato il ministro Alfano, anche in questa occasione, esaltando il lavoro delle forze di polizia».
Vicini, vicini, come la notte del blitz che portò all’espulsione dall’Italia di Alma e Alua Shalabayeva, moglie e figlia del dissidente kazako ed ex banchiere Mukhtar Ablyazov.
Espulsione definita illegale da Amnesty international, dall’Onu ed evidentemente (ri)considerata tale persino dallo stesso Viminale, che a gennaio di quest’anno ha concesso lo status di rifugiate politiche alla madre e alla bambina kazake deportate da Roma in piena notte.
PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO. Il provvedimento di espulsione era viziato da «manifesta illegittimità originaria», secondo la Cassazione, che a luglio 2014 ha accolto il ricorso di Shalabayeva contro il decreto del giudice di Pace di Roma del maggio 2013. Quel provvedimento di espulsione portava la firma di Giuseppe Pecoraro.
All’ex capo di Gabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini, la vicenda è costata il posto di lavoro. Pecoraro invece resta saldamente al comando della prefettura e il suo nome sbuca di tanto in tanto nei retroscena politici per qualche futuro incarico di rilievo, da commissario di una - desiderabile, per l’opposizione - Roma demarinizzata a capo della Polizia.
Eppure la Capitale non ha brillato in questi anni per gestione dell’ordine pubbblico. Ad aprile fu l’ex vendoliano ora passato al Pd del governo con Alfano, Gennaro Migliore, a chiedere la rimozione di Pecoraro: «È insopportabile che il prefetto giustifichi le violenze con la “frenesia e frustrazione” dei poliziotti in servizio nelle manifestazioni. Chiediamo che il governo sollevi, con effetto immediato, il prefetto di Roma dal suo incarico», tuonava.
IN DIFESA DELL’AGENTE «CRETINO». Roma era stata teatro di violenti scontri tra manifestanti anti-asuterity e poliziotti: cinque arresti, un ferito grave, il centro città devastato. In quell’occasione il capo della Polizia, Alessandro Pansa, aveva definito un «cretino» l’agente immortalato dalle telecamere mentre calpestava una giovane stesa a terra. Tutte balle, secondo Pecoraro. Piuttosto, un atteggiamento «apparentemente inspiegabile. Forse lo ha fatto per dare una mano ai colleghi. Per la frustrazione e la frenesia di chi, improvvisamente, si sente alla mercé di chi - i manifestanti - è chiamato a tutelare».
LA SEPOLTURA DEL NAZISTA. In precedenza, ricordava Migliore nella sua interrogazione parlamentare (a proposito, ora che è nella maggioranza di governo continuerà a chiederne le dimissioni?) il prefetto di Roma si era già distinto per iniziative «poco lodevoli rispetto alla garanzia dell’ordine pubblico, autorizzando le esequie di Priebke ad Albano Laziale nonostante la contrarietà della popolazione e del sindaco di Albano, città medaglia d’argento al valore della Resistenza».
Baruffe tra nostalgici e rivoluzionari senza rivoluzione, si potrebbe dire. Di certo di gravità non paragonabile a quanto accaduto a Roma il 3 maggio scorso, quando, in occasione della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, scontri tra tifosi romani e napoletani nei pressi dello stadio sono costati la vita all’ultrà napoletano Ciro Esposito, 33 anni, di Scampia. Le autorità quella notte decisero di far giocare lo stesso la partita, con una scelta probabilemente inevitabile, visti rischi che si sarebbero corsi a evacuare uno stadio pieno in un clima di tensione altissima.
ARMI INDISTURBATE ALLO STADIO. Dopo quel tragico giorno, Pecoraro ha proposto di organizzare «un’amichevole, una partita della pace tra Roma e Napoli per ristabilire regole di civiltà e non dimenticare quanto accaduto a Ciro Esposito».
Resta ancora da capire, però, come possa essere accaduto che uomini armati si aggirassero liberamente intorno allo stadio in quel momento raggiunto da centinaia di migliaia di tifosi, tra cui famiglie e bambini. La giustizia, come si dice, farà il suo corso.
LA CARRIERA AL MINISTERO. Nato a Palma della Campania, in provincia di Napoli, il 20 marzo 1950, Pecoraro è passato dalle scrivanie di molti ministeri: ex vice capo di Gabinetto vicario del ministro Maroni, durante il governo Berlusconi, e di Brancaccio e Coronas con l’esecutivo Dini. E ancora, ex capo del dipartimento di pubblica Sicurezza quando al Viminale sedeva Claudio Scajola.
A maggio Pecoraro è stato sentito dai pm di Bologna proprio in relazione a un episodio risalente a quegli anni: la revoca della scorta al giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Br il 19 marzo del 2002.
IL CASO BIAGI. Agli inquirenti il prefetto di Roma, tirato in ballo dell’ex capo di Gabinetto di Scajola, Zocchi, ha spiegato: «Non sapevo neanche chi fosse Biagi. Ero arrivato al dipartimento a gennaio del 2002 e non avevo seguito tutta la vicenda della revoca della scorta. Mi ci volle insomma un po’ per inquadrare la cosa. Zocchi non mi fece vedere nessun appunto e mi parlò genericamente di un allarme raccolto in ambienti confindustriali».