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 2014  novembre 01 Sabato calendario

IL NEUROLOGO CHE LASCIÒ GLI USA PER LAVORARE AL SAN RAFFAELE

Antefatto, maggio 1945. Su un’autovettura - 6 posti più strapuntini - del Comando alleato il piccolo Pepe Scotti insieme a sua madre Carmen, alla sorella Vittoria e a Germaine, Ada e madame Lecoq rispettivamente moglie, figlia e suocera di Giorgio Amendola passa la frontiera francese per riabbracciare il padre Francesco, comandante delle formazioni garibaldine in Piemonte. «I ponti erano distrutti, scendevamo lungo il greto dei fiumi tra carri armati rovesciati e carcasse di animali», narra Giuseppe (detto Pepe) Scotti, diventato un celebre neurologo e neuroradiologo.
Quel viaggio è il suo primo ricordo dell’Italia. Pepe era infatti nato nel 1939, nel campo di concentramento di Meaux, figlio secondogenito della compañera Carmen Español e di Francesco Scotti, mitica figura del Pci. Settembre 1987. Scotti jr è a San Francisco - ennesima tappa dopo Montreal e Toronto della sua brillante carriera - quando riceve l’offerta di creare il reparto di neuroradiologia al San Raffaele. Da anni Scotti lavora sui misteri del cervello, una frontiera resa sempre più affascinante dai continui progressi della scienza (nel 1972 è il solo italiano a New York alla presentazione di un rivoluzionario strumento, la Tac). A San Francisco gli offrono di restare più a lungo ma lui decide di puntare sull’ospedale voluto da don Luigi Verzè alla periferia Est di Milano. «Sapevo appena che era governato da un intraprendente e chiacchierato prete, don Verzé, che cercava di valorizzarlo e qualificarlo attraverso i migliori medici della facoltà di Medicina dell’Università Statale con cui aveva saggiamente convenzionato il suo ospedale. Avevo sempre pensato che mio compito fosse quello di riportare nel mio Paese ciò che con impegno mio, ma anche con la generosità dei miei maestri stranieri, avevo imparato all’estero. E in Italia avevo anche moglie e 2 figlie», scrive Giuseppe Scotti nel suo libro «Quale Provvidenza? 24 anni al San Raffaele. 1987-2011».
Direttore fino al 2011 quando è andato in pensione di un reparto d’avanguardia, preside dal 2002 al 2005 della Facoltà di medicina Scotti, partendo dai suoi diari, traccia una insolita, disarmante testimonianza sul San Raffaele, assai controverso simbolo del modello sanitario lombardo. Quale sanità? Come potevano convivere luminari come i prof Pozza, Rugarli, Bordignon e lo stesso Scotti con le Sigille, le fedelissime di don Verzé? Quale benedetto filo legava le feste con Sarah Ferguson alla nascita della Facoltà di filosofia, preside Massimo Cacciari e alle partitelle di calcio dei «raffaeliani», arbitro Mario Cal? Di pagina in pagina Scotti ricorda che don Verzé sempre più isolato si dice vittima di un complotto. Già nel 1998 però all’inaugurazione della facoltà di Medicina, monsignor Angelini, «ministro» della Sanità del Vaticano aveva fatto un durissimo intervento su ridicole vanità&azzardi finanziari. Alto in cielo sulla cupola del San Raffaele l’angelo in kevlar vegliava sulla Milano del centrodestra imperante; in attesa della Tac scortato dal fido Zangrillo, Berlusconi teneva lezioni di macroeconomia e Pio Pompa si presentava a Scotti come «numero 2 del Sismi» accompagnando tale signorina Jenny Tontodimamma. «Don Verzé non rispettava le regole, ma non era Satana come dicono colleghi cattolici impegnati», ribatte Scotti a chi l’accusa di troppa indulgenza. «Ho condiviso alcuni atteggiamenti, ma non ho lavorato per 24 anni in un luogo di malaffare! Ho avuto un’educazione molto rigida, sono una persona corretta». Quando nel 1987 decise di tornare in Italia notava: «Meglio straniero in patria che migrante permanente».
Chiara Beria Di Argentine, La Stampa 1/11/2014