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 2014  novembre 01 Sabato calendario

IL NODO SU D’AMBROSIO CHE IL PRESIDENTE NON PUÒ SCIOGLIERE

Il contenuto dell’audizione del presidente Giorgio Napolitano da parte dei giudici della Corte d’Assise di Palermo è ormai pubblico e la trascrizione è stata ultimata.
È, dunque, possibile tracciare un bilancio definitivo dell’incontro tra il Capo dello Stato e i magistrati che celebrano il processo sulla trattativa Stato-mafia.
Un bilancio finalmente depurato da interpretazioni e ricostruzioni affidate a fonti non sempre obiettive.
L’idea che si ricava dallo stenografico ci consegna la scena di un Napolitano disponibile, per nulla condizionato dalla lunga scia di polemiche che hanno preceduto l’incontro. Il Presidente appare concentrato e ben disposto, dimostra una buona conoscenza del tema su cui dovrà rispondere ai giudici. Senza, tuttavia, trascurare il dovere, imposto da limiti istituzionali, di mantenere la riservatezza dovuta al suo ruolo e al rapporto coi propri collaboratori.
Ed è proprio la drammatica vicenda della lettera di dimissioni scritta da Loris D’Ambrosio, suo consigliere giuridico, il nodo che i magistrati vorrebbero sciogliere.
Su questa storia verte la prima parte dell’audizione.
D’Ambrosio scrisse la lettera all’indomani delle rivelazioni giornalistiche che rendevano pubblico il contenuto di alcune telefonate intrattenute con l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino, preoccupato e convinto di essere oggetto di accanimento giudiziario da parte dei pm palermitani che indagavano sulla trattativa e lo ritenevano uno dei protagonisti del cedimento dello Stato nei confronti della mafia che cercava di sfuggire ai rigori della repressione e al carcere duro.
La domanda che ritorna per la durata dell’interrogatorio è se Napolitano abbia chiesto a D’Ambrosio spiegazioni sugli «indicibili accordi» di cui scrive nella lettera.
Napolitano ricorda di avere dei vincoli che non può oltrepassare, ma tuttavia, non vuole ritirare la propria disponibilità. «...vorrei pregare la Corte - dice - e tutti voi di comprendere che da un lato sono tenuto e fermamente convinto che si debbano rispettare le prerogative del Capo dello Stato, dall’altra mi sforzo, faccio il massimo sforzo per dare nello stesso tempo il massimo di trasparenza al mio operato e il massimo contributo alla Giustizia».
Non chiese spiegazioni a D’Ambrosio, non commentò ulteriormente quelle frasi. Racconta di averlo incontrato e di avergli consegnato, a sua volta, una lettera di risposta, invitandolo a ritirare le dimissioni.
Ma sul terribile momento delle stragi del 1993, Napolitano ha dato tutte le delucidazioni possibili. Sempre, però, tenendo separati i fatti dalla ipotesi o dalle congetture.
Quando gli chiedono se c’era preoccupazione per quell’ondata terroristica, il Presidente spiega perfettamente che non poteva essere diversamente.
Racconta i timori di Ciampi di fronte al black-out a Palazzo Chigi in concomitanza con le bombe di Roma e Milano e, da uomo di Stato con grande esperienza di governo, spiega perché fosse quasi scontato che si parlasse addirittura di timori di golpe.
Napolitano indica anche il testo di un libro che spiega come la tecnica del golpe preveda per prima cosa l’isolamento del centro del potere governativo, cioè il luogo fisico, in quel caso Palazzo Chigi, appunto. E spiega come la separazione di ruoli e dei poteri impedisse la confusione delle contromisure. «Ero presidente della Camera e le azioni di contrasto ad eventuali attacchi erano compito del governo».
Dice di aver commentato col presidente Scalfaro ed anche col «collega Spadolini», la notizia di possibili attentati ad uomini politici, tra cui gli stessi presidenti di Camera e Senato. «Lo seppi dal capo della Polizia che mi comunicava un rafforzamento della mia scorta con uomini dei Nocs».
Il racconto è senza enfasi, anzi Napolitano dice di aver accolto quella notizia con «imperturbabilità» e condivide coi giudici quella sensazione «perché sapete meglio di me che il rischio può far parte del ruolo che si ricopre».
La domanda di uno degli avvocati è maliziosa: «Ha parlato col dottor Gianni De Gennaro delle minacce ricevute?». «E perché avrei dovuto, dopo aver parlato coi vertici della polizia?».
La testimonianza del Presidente conferma, dunque, l’esistenza di una vicenda torbida ancora poco chiara.
E non esita a definire «analisi non del tutto originale», la deposizione dell’ex ministro Conso in Commissione antimafia a proposito dei 330 provvedimenti di non rinnovo del 41 bis per altrettanti mafiosi. Come a voler sottolineare che era abbastanza chiaro a tutti come nella mafia si fosse determinata una divaricazione e che a vincere fossero gli stragisti corleonesi.
Napolitano racconta serenamente, ma non si può dire che abbia offerto rivelazioni tali da giustificare la «battaglia» che ha preceduto la sua audizione.
Francesco La Licata, La Stampa 1/11/2014