Luca Gualtieri, MilanoFinanza 1/11/2014, 1 novembre 2014
CHI SALIRÀ SU QUEL MONTE
Per la seconda volta nel giro di un anno le sorti della finanza cattolica lombarda e del grande malato dell’ex finanza rossa tornano a intrecciarsi in un clima di emergenza. Se infatti le smentite arrivate venerdì 31 dai vertici Intesa Sanpaolo hanno sgombrato il campo dalle indiscrezioni su una possibile fusione tra la Ca’ de Sass e il Monte dei Paschi («Non è immaginabile in modo assoluto un nostro intervento», ha tagliato corto l’amministratore delegato Carlo Messina), Giuseppe Guzzetti, numero uno della Fondazione Cariplo (terzo azionista di Intesa al 4,7%) e dell’Acri, ha fatto una chiara apertura su un intervento «di sistema» a sostegno del grande malato della finanza italiana. Le principali fondazioni bancarie italiane sarebbero infatti disponibili ad acquistare dal Tesoro i Monti Bond per aiutare Mps a far fronte alle carenze di capitale emerse dall’esame Bce. Anche se a margine della giornata del risparmio Guzzetti ha escluso un intervento diretto sul capitale della banca, l’acquisto dei Monti bond renderebbe teoricamente possibile una conversione in equity del prestito che, agli attuali prezzi di mercato, permetterebbe alle fondazioni di salire fino al 30% di Mps.
L’ipotesi di un intervento delle principali fondazioni su Mps secondo una logica «di sistema» più che di reale convenienza economica circola da oltre un anno, anche se finora non erano mai arrivate conferme ufficiali. Alla fine del 2013 ad esempio si sussurrava di una cordata capitanata dalla Cariplo che avrebbe dovuto acquistare direttamente da Palazzo Sansedoni un cospicuo pacchetto di titoli Mps, permettendo così all’Ente di aderire all’aumento di capitale. Allora non se ne fece nulla, anche perché il rinvio della ricapitalizzazione diede ossigeno alla Fondazione Mps. Questa volta, invece, la deadline imposta dalla Bce per la presentazione del capital plan non lascia spazio a proroghe e per Mps il tempo stringe.
La caduta del titolo sta mettendo sotto pressione i grandi azionisti, a partire dai tre membri del patto di sindacato, la Fondazione Mps, Fintech Advisory e Btg Pactual. Oggi, ad esempio, il 6,5% in mano ai soci sudamericani, che hanno finora investito 505 milioni (180 milioni per l’acquisto delle partecipazioni dalla Fondazione e 325 milioni per la sottoscrizione pro quota dell’aumento di capitale da 5 miliardi), vale appena 217 milioni, mentre il 2,5% che la Fondazione ha difeso in sede di ricapitalizzazione con un investimento di 125 milioni viaggia intorno agli 84 milioni di prezzo di mercato. Solo questi numeri bastano a chiarire gli umori del corpo sociale di Mps alla vigilia di un rafforzamento patrimoniale che, di questo passo, rischia ancora una volta di valere quanto la capitalizzazione della banca.
Di alternative all’aumento di capitale ne sono state abbozzate molte, ma nessuna sembra ancora del tutto convincente. Ecco perché una ristrutturazione del prestito di Stato, nella forma di un riscadenziamento delle prossime due tranche da 750 milioni o di una cessione a investitori istituzionali come le fondazioni risulta oggi la strada maestra per uscire dall’impasse. Anche se, per dare maggiore credibilità al piano, il management di Mps potrebbe anche decidere di giocare una carta decisiva, l’aggregazione.
Sussurri su uno scenario di m&a per il Monte Paschi si rincorrono senza costrutto da almeno due anni. Solo per citare alcuni nomi, sono stati ipotizzati matrimoni con Bnp Paribas (che ha smentito di nuovo venerdì 31), Santander, Deutsche Bank, Bbva. Tutte banche di elevato standing o già presenti sul mercato italiano con una forte rete commerciale (come Bnp e Deutsche Bank) oppure con dichiarate ambizioni di crescita a livello internazionale come il Santander. Proprio la banca spagnola guidata oggi da Ana Botin è stata la protagonista dei gossip più accesi dell’ultima settimana, anche per il ruolo che Andrea Orcel, capo dell’investment banking di Ubs, starebbe giocando nella redazione del capital plan del Monte. Come noto, Orcel è in ottimi rapporti con i vertici del Santander per i quali in passato (quando guidava la divisione global markets & investment banking della sede londinese di Merrill Lynch) ha lavorato su diversi dossier come l’operazione Antonveneta o l’acquisto di Abbey National nel Regno Unito. A un interesse del colosso spagnolo per le banche italiane aveva accennato anche il patron di Fintech, David Martinez Guzman, in una sua recente intervista. Guzman è uomo di grandi relazioni internazionali e conosce molto bene il sistema bancario spagnolo, anche per quel 5% che Fintech possiede nel Banco Sabadell. Ma nessuno di questi indizi fa ovviamente una prova. Anche perché, ragionando in termini industriali, l’ingresso di un grande gruppo internazionale sul mercato italiano appare oggi poco probabile. Ecco quindi farsi strada l’ipotesi di una soluzione tutta italiana, che escluderebbe però i due big, Intesa Sanpaolo e Unicredit. Semmai il ruolo di cavaliere bianco potrebbe essere giocato da banche di medie dimensioni, come Ubi o il Banco Popolare, uscite con larghe eccedenze di capitale dallo stress test e pronte a giocare il ruolo di poli aggreganti. Oltretutto gruppi come Ubi (altro tassello fondamentale della finanza bianca lombarda) hanno il vantaggio di un modello federale che permette di conservare marchi e identità locali, rendendo così meno traumatica un’eventuale aggregazione. Ovviamente, però, l’acquisizione di Mps sarebbe un passo impegnativo anche per una banca (o un gruppo di banche) ben patrimonializzate e con una discreta qualità del credito. Ecco perché qualche osservatore suggerisce la possibilità che dal perimetro dell’operazione potrebbero uscire gli asset deteriorati, a partire dai crediti in sofferenza, che potrebbero confluire in una bad bank da affidare alle cure di qualche operatore specializzato.
Luca Gualtieri, MilanoFinanza 1/11/2014