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 2014  novembre 01 Sabato calendario

PER FRANCIS FUKUYAMA: SE UNO STATO VUOL DIVENTARE DEMOCRATICO, PRIMA DEVE RIUSCIRE AD ESSERE EFFICIENTE

Il profeta smentito dai fatti ha dovuto rivedere le sue previsioni. Nel 1992, l’Occidente era ancora sconvolto dalla rapidità con cui il sistema sovietico ed i suoi satelliti s’erano dissolti. La guerra fredda tra comunismo e democrazia, durata 44 anni, era finita. Il politologo americano Francis Fukuyama trasse da quel mutamento radicale la convinzione che, insieme col muro di Berlino, fosse finita anche la storia. Il libro ebbe sicuro successo e spietate demolizioni: La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli). Fukuyama si era convinto che con la caduta del muro di Berlino si era conclusa una intera epoca. Proprio il marxismo, il più grande mito escatologico della modernità, aveva parlato di «fine della storia». Con soddisfazione, Fukuyama capovolgeva la profezia: il mito comunista era in frantumi e la storia non era finita nel comunismo, ma nella universalizzazione della economia di mercato: «Non è finita soltanto la guerra fredda. La democrazia liberale è divenuta la forma finale del governo umano».
Come ogni autentico studioso, ha ammesso più tardi di avere esagerato. E in tutte le opere successive ha girato la faccia della moneta. Ora non parla più di «end of history», fine della storia, ma di un modo diverso di fare la storia. Ed è la faccia oscura che prevale, tardivo riconoscimento al suo grande maestro ad Harvard, Samuel Huntington. Questa analisi angosciata, molto simile a quelle dei «pessimisti culturali», caratterizza anche la più ampia delle sue opere, in due volumi pubblicati tra il 2011 e il 2014: Ordine politico e decadenza («Political Order and Political Decay»; Farrar, Usa; Profile, UK). Il primo volume (2011) esanimava l’ordine politico dai gruppi scimmieschi sino alla rivoluzione francese; il secondo, appena comparso, dalla rivoluzione industriale alla globalizzazione della democrazia.
Già nel 1999 The Great Disruption («La grande distruzione», Baldini & Castoldi) descriveva quella decadenza dei paesi democratici, soprattutto Usa, che appare evidente nell’esplosione dell’individualismo, nella crisi della famiglia a partire dal suo membro più importante, la donna (divorzi, aborti, riduzione delle nascite), nell’aumento della criminalità, soprattutto giovanile, nella invasione afro-ispanica, nella disoccupazione. Ormai la politica americana è stata occupata dai gruppi economici e viene impedita da controlli eccessivi per finalità corporative. Non è più «democracy», ma «vetocracy», che blocca il bene comune: «un paese profondamente malato».
Nell’ultima parte del suo corpulento volume (672 pagine!) Fukuyama si apre ad una tenue speranza. Esiste per lui una sacra trinità politica. Una nazione è felice quando ha tre cose: uno stato efficiente («presidenzialismo»), uno stato democratico («checks and balances») e un diffuso rispetto delle legalità. Ma lo stato deve essere prima efficiente, solo dopo può essere democratico. Così è accaduto all’Inghilterra e agli Stati Uniti e, più recentemente, al Giappone e alla Germania, non all’Italia e alla Grecia. Fukuyama condivide una accorta e convalidata certezza culturale: la democrazia non si inventa e non si trasferisce, nasce lentamente dalla tradizione. Che in occidente è diritto naturale, cristianesimo, primato della persona, carte dei diritti.
Pensare di trapiantarla in luoghi che non l’hanno mai avuta e farla nascere in una notte come un fungo è ridicolo. Anzi: disastroso, soprattutto nel momento in cui la democrazia è in crisi in Occidente. Si pensi all’Irak, Afghanistan, Egitto, Libia, Siria, e tanti paesi africani e sudamericani. La cacciata dei despoti non ha prodotto democrazia, ma sfacelo, guerra civile, nuove tirannie e rinascita dell’integralismo antimoderno: «portare la democrazia dove non c’è uno stato forte non serve». In altri paesi, che senza dubbio funzionano come il Brasile, la Russia e la Cina, il loro progresso economico e sociale non si è accompagnato con la scoperta della democrazia, hanno aumento del benessere, ma rimangono regimi autoritari.
Questo giudizio negativo sull’Occidente non risparmia l’Italia, nella quale i mali di tutte le nazioni sono aggravati da difetti atavici: scarso senso sociale, criminalità mafiosa, guerra fra le istituzioni. Sul «Washington Post» (24 ottobre), discutendo l’opera di Fukuyama, Gerard De Groot, professore universitario in Scozia, ha raccontato che, quando affittò una casetta vicino a Napoli, il padrone di casa lo ammonì a non bere l’acqua del rubinetto, perché infettata dai rifiuti illegali deposti dalla mafia: «Se n’è andato con una scrollata di spalle tipicamente italiana, come una accettazione fatalistica di un problema insolubile».
Lo sa anche Fukuyama. L’Italia ha perso il tram negli anni Novanta: «Vent’anni fa l’Italia poteva invertire la rotta, invece Berlusconi ha fatto solo del populismo. Renzi, con la sua agenda coraggiosa, ha capito la strada: le grandi riforme sono più importanti dei piccoli provvedimenti urgenti, perché guardano lontano. Ma non gli sarà facile».
Gianfranco Morra, ItaliaOggi 1/11/2014