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 2014  novembre 01 Sabato calendario

APPUNTI SULLA CRISI DEI SINDACATI PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 3 NOVEMBRE 2014


ENRICO MARRO, CORRIERE DELLA SERA 31/10 -
Il sindacato ha bisogno di una rifondazione. Non perché lo dice il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Ma perché, soprattutto ai vertici, è ancorato da troppo tempo a una visione miope: la difesa dei pensionati e dei lavoratori dipendenti col posto fisso, a scapito dei giovani. E a un assetto organizzativo e di selezione della classe dirigente fondato sulla cooptazione. Il molto che c’è ancora di buono sta nel territorio, nella creatività contrattuale sui luoghi di lavoro, nella capacità di fare associazionismo e offrire occasioni di riscatto in realtà sociali difficili, nell’impegno sconosciuto di tanti sindacalisti di base. Ma ciò che succede ai vertici rischia di oscurare tutto ciò. Solo qualche flash a caso. Raffaele Bonanni ha lasciato in fretta e furia la guida della Cisl, ufficialmente per accelerare il rinnovamento, in realtà è forte il sospetto che lo abbia fatto per evitare i riflettori sulla sua pensione d’oro (5.122 euro netti al mese) e sugli stipendi ancor più luccicanti da segretario generale, finalizzati proprio a costruire la superpensione. Qualcuno tra i dirigenti della Cisl aprirà una discussione su questo? Difficile, se il nuovo segretario, Annamaria Furlan, deve la sua ascesa allo stesso Bonanni. E se tutta la segreteria ha coperto questo andazzo. Legittimo, per carità. Ma compatibile, opportuno per un sindacato?
Passiamo alla Uil. Anche il sindacato che si picca di essere il più riformista sta per cambiare segretario. Dopo 14 anni, al posto di Luigi Angeletti arriverà Carmelo Barbagallo, 67 anni. Può essere lui il motore del rinnovamento in un’organizzazione dove nella segreteria nazionale e in quelle periferiche ci sono persone che stanno lì da 20-25 anni e dove le donne e i giovani sono una rarità?
E lasciamo perdere l’Ugl, sindacato vicino alla destra, che sotto Renata Polverini sosteneva di avere più di due milioni di iscritti (tanto chi controlla?), e il cui ex segretario generale, Giovanni Centrella, messo lì dalla stessa Polverini, è stato travolto da un’inchiesta per appropriazione indebita aggravata (centinaia di migliaia di euro sottratti al sindacato) e i cui dirigenti, riuniti l’altro ieri per eleggere il nuovo leader, non ci sono riusciti perché hanno fatto a botte.
Non parliamo delle sigle del sindacalismo autonomo: mistero sugli iscritti, curano i loro interessi nel sottobosco dei patronati e degli enti bilaterali.
Del resto, l’articolo 39 della Costituzione non è mai stato applicato e noi oggi ancora discutiamo di quanti siano gli iscritti ai sindacati (ma vale anche per le organizzazioni imprenditoriali), della opacità dei loro bilanci, della loro democraticità.
Abbiamo lasciato per ultima la Cgil. Prima e meglio degli altri si è data limiti alla durata degli incarichi e regole di pubblicazione dei bilanci. E più degli altri fa presa tra i giovani e le donne. Ma è rimasta, anche quando la cinghia di trasmissione con il Pci è finita, irrimediabilmente prigioniera di un primato dell’azione politica sull’azione sindacale, che ne ha condizionato le scelte e la stessa selezione dei dirigenti. E prigioniera di un primato del conflitto e di una cultura incline a considerare l’impresa più un avversario da piegare che il motore dell’economia.
Ora, se il sindacato fosse anche uno strumento di promozione personale (e lo è, basti pensare a tutti gli ex leader di Cgil, Cisl e Uil passati alla politica), non sarebbe un problema. Lula diventò presidente del Brasile dopo una lunga carriera sindacale. Il guaio è un altro. È che il sindacato da troppo tempo ha perso la capacità di elaborare una visione strategica di promozione dei lavoratori, delle loro condizioni e del loro salario, adeguata ai tempi. I risultati, non a caso, sono deludenti. È mancata la definizione di obiettivi inclusivi delle necessità e aspirazioni delle nuove generazioni. Ed è mancato il coraggio dell’unità. La divisione, rispondente a interessi politici o di bottega, ha indebolito il sindacato. Che oggi, appunto, avrebbe bisogno di una rifondazione coraggiosa. Di rinascere e presentarsi in una veste nuova e con un programma ambizioso davanti a tutti i suoi iscritti facendo, per esempio, una cosa semplice ma rivoluzionaria, disdettando cioè tutte le tessere e chiedendone l’esplicito rinnovo, ai lavoratori come ai pensionati. Un nuovo inizio, per un nuovo sindacato. Ne uscirebbe un’Italia migliore.

DARIO DI VICO, CORRIERE DELLA SERA 1/11 -
Il sociologo veneto Paolo Feltrin parte in quarta: «È mai possibile che quando un leader sindacale lascia diventi subito presidente del centro studi? È così per Bonanni, lo sarà per Angeletti come era stato per Epifani. Il rinnovamento dovrebbe iniziare anche da queste scelte».
Il sindacalismo italiano si trova davanti a un passaggio delicatissimo della sua storia. Il successo degli scioperi generali e delle mobilitazioni di piazza servono a respirare – come si dicono nel fuorionda Susanna Camusso e Stefano Fassina – ma forse c’è da inventare un nuovo posizionamento. Suggerisce Feltrin: «Vedo in difficoltà il sindacalismo che va in tv mentre nei territori la situazione è diversa».
In periferia Cgil-Cisl-Uil in qualche misura hanno già scelto: in molte aziende sono diventati partner dell’impresa. «In fondo in Luxottica che fa il sindacato se non garantire che l’assenteismo sia basso e che produttività e qualità siano le più alte possibili?». Feltrin racconta come all’Acc di Belluno, che produce compressori e che è stata comprata dai cinesi della Wanbo, i sindacalisti abbiano accettato di ridurre il salario e di rendere più efficiente l’azienda pur di salvarla. E il referendum operaio ha confermato la scelta. In verità nella totalità dei casi di accordi «dolorosi» il voto segreto ha confermato le scelte dei delegati. «Dico allora che quello che si finisce per accettare in extremis dovrebbe essere discusso e negoziato a monte, in condizioni di normalità». Un sindacato pragmatico potrebbe anche candidarsi a gestire nuovi servizi: Feltrin addirittura affiderebbe a Cgil-Cisl-Uil i centri per l’impiego piuttosto che farli morire nel pubblico impiego.
In Emilia il sindacato risulta pienamente coinvolto nel clima di rivalutazione del lavoro manuale e di relazioni industriali moderne che si respira nelle grandi aziende e nelle multinazionali. Stiamo parlando di automotive e packaging (Ducati, Lamborghini, Coesia, Ima), imprese che vanno bene e che macinano utili. Un ruolo chiave lo gioca la Fiom, che opera secondo un modello sui generis in cui un sindacato fortemente identitario produce sindacalizzazione elevata ed è però attentissimo in fabbrica a firmare accordi (ad esempio sui turni) che rispettano l’opinione di una base moderata.
Molto gioca la paura di perdere il posto di lavoro, magari anche il fatto che marito e moglie lavorino sotto lo stesso padrone e il rischio sia doppio. Fuori dalle aziende le centrali sindacali emiliane vivono sui servizi e sul patronato ma sono organizzazioni legnose, lente a capire i cambiamenti. Come quelli che avvengono nella logistica popolata da lavoratori extracomunitari. I Cobas stanno conquistando spazio tra i facchini mentre Cgil-Cisl-Uil faticano a reinsediarsi nel cuore del lavoro povero. Capita così che i lavoratori iscritti al sindacato manifestino contro gli scioperi selvaggi e il blocco dei cancelli operato dai facchini, come è accaduto prima all’Ikea di Piacenza e a Ferrara nei giorni scorsi. Sono piccole marce alla Arisio organizzate però da impiegati ed operai con la tessera in tasca.
Intervenendo a Omnibus venerdì scorso l’ex leader Cgil Sergio Cofferati ha rivendicato a sé la nascita del Nidil, la sigla rivolta ad organizzare i giovani. In verità il Nidil non ha mai carburato perché i giovani sono un altro pezzo di società non coperto dal sindacato.
I motivi sono molteplici. I rituali di Cgil-Cisl-Uil inevitabilmente riportano al secolo passato e sono incomprensibili agli occhi di ragazzi che stanno maturando una visione diversa del rapporto tra tutele e merito, tra lavoro dipendente e autonomo. I veri luoghi di aggregazione si chiamano talent garden o coworking e presentano caratteri di modernità che il sindacato non avrà mai. Sono ambiti cosmopoliti, dove i giovani costruiscono il loro futuro innovando e assumendosi rischi in prima persona. Come fa il sindacato dei congressi che durano 5 mesi, e si concludono con documenti chilometrici «elaborati dai compagni della commissione politica», a dialogare con loro? Cambiando argomento come dimenticare poi gli scioperi dei trasporti pubblici del venerdì che stanno scavando un altro solco tra confederali e società?
Giorgio Benvenuto quando guidava la Uil aveva lanciato il sindacato dei cittadini. Racconta: «Pensai che dovessimo porci obiettivi di riforma dei servizi, dai trasporti alla sanità e dovessimo autoregolare gli scioperi. Non l’abbiamo fatto e il rischio oggi è che il sindacato appaia impopolare. Il cittadino è un suddito, vorrebbe trovare un aiuto e invece aspetta inutilmente alla fermata un bus che non passa».
A mettere in fila queste valutazioni verrebbe da dire che il problema non è dunque Matteo Renzi ma Giuseppe De Rita, sorprendentemente, lega strettamente il futuro dei confederali alla sfida con il premier. «La Cgil potrebbe fare la mossa del cavallo. Invitare i suoi a iscriversi al Pd e partecipare a tutte le primarie. In molti casi le vincerebbe così a brigante risponderebbe brigante e mezzo».
Se invece il sindacato non volesse invadere la politica e preferisse posizionarsi totalmente nella società civile dovrebbe diventare «il soggetto che lotta contro le disuguaglianze». Niente battaglie di retroguardia sull’articolo 18 o per salvare le fabbriche decotte ma intestarsi una nuova committenza: i cinquantenni estromessi, il Sud, gli esodati, i nuovi poveri. «Dimostrerebbe a Renzi che l’Italia non è fatta di Cucinelli e di Farinetti. L’avevo già suggerito a Bonanni ma non mi ha dato retta».

STEFANO ZURLO, IL GIORNALE 30/10
Numeri a fisarmonica. Cifre che si gonfiano e si sgonfiano a seconda dell’uditorio. Quanti sono gli iscritti ai sindacati? Domanda sdrucciolevole, come le risposte dettate, più di una volta, dalla convenienza. «Negli anni Ottanta – spiega Giuliano Cazzola, oggi economista e politico ma all’epoca pezzo grosso Cgil – dovevamo comunicare alla Federazione internazionale il numero dei chimici legati alla Cgil. E visto che dovevamo pagare una quota, salata, in franchi svizzeri io e Cofferati, il mio vice, decidemmo di ridimensionare il nostro esercito per risparmiare un po’». Vent’anni dopo, lo stesso meccanismo viene descritto dal giornalista dell’Espresso come Stefano Livadiotti nel libro L’altra casta.
Quando si siedono intorno al tavolo per una trattativa i dirigenti della Triplice scandiscono dei numeri che «cambiano di colpo quando le tre organizzazioni vengono chiamate a versare i loro contributi alla Confèderation Europeenne des Syndicats». Il divario è clamoroso, con una forbice da un milione e passa. La Cgil passa da 5 milioni 650.942 tesserati in Italia a 4 milioni e 100 mila militanti dichiarati in Europa. Stesso trend ondivago per la Cisl, con una discesa a precipizio da 4 milioni e 346 952 iscritti a 2 milioni e 640.929. La Uil infine mostra la stessa tendenza al ribasso, da 1 milione e 733.375 a 1 milione e mille iscritti. Con un calo impressionante quando si tratta di dire come stanno le cose ai colleghi europei. Strano. Ma anche no. Lo stesso Livadiotti trova conferma ai suoi sospetti in casa Cisl. «È vero - ammette Nino Sorgi - lo facciamo per risparmiare. Non abbiamo niente da nascondere». Insomma, la doppia contabilità, chiamiamola così, serve per non dissanguarsi. Cazzola classifica questo giochetto alla voce «sistema elusivo», utilizzando un linguaggio che sembra rimandare al mondo delle imprese e al tentativo di giocare a nascondino col fisco. Non proprio un complimento.
Certo, al di là delle polemiche di giornata, i numeri sono assai difficili da accertare. Anche se in un recente dibattito televisivo, negli studi dell’Aria che tira, Sergio Cofferati ha contestato Livadiotti a proposito del balletto sull’asse Italia-Europa.
Misurare la forza reale del sindacato è un’operazione quasi impossibile. E così il totale degli iscritti è un atto di fede. Quelli sotto l’ombrello della Cgil nel 2013, ultimo dato disponibile, sono sostanzialmente gli stessi di cui parlava Livadiotti nel saggio datato 2008, con variazioni minime. Stesso discorso per la Cisl, ma la Uil invece pare essersi rafforzata arrivando addirittura a quota 2.216.443. Una crescita importante e forse inattesa, in controtendenza. Ma proprio Cazzola mette le mani avanti: «Io ho qualche dubbio sulla consistenza del seguito della Uil. Quei 2 milioni e rotti mi sembrano tanti. Tantissimi. Forse un po’ troppi». Vero? Il problema è che i valori veri, almeno nel privato, non li sa nessuno. Si possono verificare le cifre del comparto pubblico. L’Aran, acronimo barbosissimo per agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni, può monitorare le tessere dei dipendenti dello Stato. Ma addentrarsi nella giungla del privato è una scommessa persa. «Nel giugno 2011 - aggiunge Cazzola - era stato inventato un meccanismo che chiamava in causa Inps e Cnel e avrebbe permesso di conoscere la forza reale delle tre sigle. Così da poter regolamentare la rappresentanza sindacale. Peccato che questo meccanismo sia morto sul nascere. E oggi siamo addirittura all’abolizione del Cnel».
Insomma, gli iscritti oscillano come e più della Torre di Pisa e, almeno nello Stato, si viaggia col piede sul pedale comodo dell’autocertificazione. Sempre Livadiotti svela un altro trucco per tenere agganciati gli iscritti nel settore pubblico, perché nel privato prevalgono metodi più lineari e sbrigativi anche nel rapporto con la Triplice. Dunque, la cosiddetta delega può essere revocata solamente entro il 31 ottobre di ogni anno, con decorrenza dal 1° gennaio successivo. Tradotto in soldoni: se un dipendente pubblico si scoccia della Camusso e vuole tagliare il cordone ombelicale deve stare molto attento al calendario. Se la lettera di disdetta parte il 1° novembre dovrà attendere 14 mesi. Un tempo lunghissimo in cui continuerà a versare la sua quota annuale. Anche se con la mano ha già fatto bye bye.

SALVATORE CANNAVO’, IL FATTO QUOTIDIANO 29/10 -
Un segretario generale del secondo sindacato italiano che guadagna 336 mila euro l’anno costituisce una curiosità. Soprattutto se non è chiaro come ha guadagnato quella cifra. Se quel segretario si chiama Raffaele Bonanni, poi, la curiosità si dilata al quadrato. La cifra è superiore al tetto per i grandi manager di Stato (240 mila), pericolosamente vicina a quei grandi dirigenti contro cui Bonanni ha spesso puntato il dito. E spiega più chiaramente il motivo delle sue dimissioni anticipate dalla segreteria della Cisl, piombate all’improvviso nella vita del sindacato cattolico e nel dibattito politico e sindacale.
Raffaele Bonanni avrebbe dovuto lasciare la segreteria della Cisl, a cui era stato eletto nel 2006, fra pochi mesi. Eppure il 24 settembre scorso decise di anticipare la sua uscita. Stanchezza politica, si è scritto, oppure indisponibilità a essere additato come il rappresentante di una storia vecchia e conservatrice, quella sindacale, secondo il copione redatto dal premier Matteo Renzi. Ma forse, anche il frutto di una faida interna alla Cisl fatta di lettere anonime, velate minacce, dossier che sono passati nelle mani dei vari dirigenti.
Uno di questi dossier Il Fatto lo ha potuto leggere e racconta una storia beffarda, fatta di un aumento vertiginoso dello stipendio dell’ex segretario proprio a ridosso dell’anno in cui, il 2011, decide di andare in pensione. Beneficiando così a pieno del sistema retributivo ed evitando di finire nelle maglie della imminente riforma Fornero. Il dato sulla pensione di Bonanni è stato già reso noto. L’ex sindacalista, infatti, percepisce dal marzo 2012 la pensione (numero 36026124) dall’importo lordo di 8.593 euro al mese. Al netto delle trattenute si tratta di 5.391,50 euro mensili. Qualcosa che nessun lavoratore medio si può permettere. Nei giorni dell’addio alla segreteria, Bonanni ha giustificato tali importi sempre allo stesso modo: si tratta del frutto di 46 anni di lavoro dipendente, con contributi regolarmente versati, quindi niente di speciale. Inoltre, va ricordato, Bonanni è riuscito a sfuggire, grazie all’anzianità lavorativa, alle modifiche operate nel 1995 dalla riforma Dini che introdusse il sistema contributivo, quello poi esteso a tutti i lavoratori dalla riforma Fornero. Sistema basato sul principio: “Tanti contributi hai versato, tanto sarà l’assegno pensionistico”. Con il sistema retributivo, invece, la pensione si calcolava sulla base della media degli ultimi anni di retribuzione: cinque anni prima della riforma Dini, casistica in cui Bonanni rientra in quanto a quella data aveva superato ampiamente le 18 annualità contributive richieste. Su questo particolare scatta la vicenda di cui stiamo dando conto.
Il sindacalista, oggi senza incarichi pubblici, viene eletto segretario generale della Cisl nel 2006. Fino a quella data era segretario confederale e guadagnava meno di 80 mila euro lordi l’anno. 75.223 nel 2003, 77.349 nel 2004 e 79.054 nel 2005. Quando diventa segretario generale, secondo il regolamento interno alla Cisl, il suo stipendio viene incrementato del 30%. Quindi, secondo le regole interne, avrebbe dovuto guadagnare circa 100 mila euro lordi annui. Nel 2006, la Cisl dichiara all’Inps una retribuzione lorda, ai fini contributivi, di 118.186 euro. Un po’ più alta di quella prevista ma non di molto. Le stranezze devono giungere con gli anni seguenti.
Nel 2007, infatti, la retribuzione complessiva dichiarata all’Inps è di 171.652 euro lordi annui. Che aumenta ancora nel 2008: 201.681 annui. L’evoluzione è spettacolare, gli incrementi retributivi di Bonanni sono stati del 45% e poi del 17%. Ma la progressione continua: nel 2009, la retribuzione è di 255.579 (+26%), nel 2010 sale “di poco” a 267.436 (+4%) mentre nel 2011 schizza a 336.260 con un aumento del 25%.
Siamo alla vigilia della domanda di pensione che, dicono i suoi critici, Bonanni riesce a presentare prima del varo della riforma Fornero. E così, beneficiando di una carriera contributiva davvero ampia – 46 anni – e potendosi basare sulle ultime cinque retribuzioni d’oro riesce a conquistare una cifra nemmeno lontanamente sognata da qualunque altro sindacalista. Prendiamo l’esempio di un “pari grado” di cui Il Fatto si è già occupato, Guglielmo Epifani. La sua pensione è di “soli” 3.400 euro mensili netti anch’essi peraltro frutto di uno scatto improvviso di 800 euro al mese maturato nel 2005 alla vigilia di presentare la domanda pensionistica. Anche qui, gli ultimi cinque anni sono stati utilizzati per alzare la retribuzione senza che il Comitato direttivo della Cgil ne sapesse nulla.
E qui c’è il punto che spiega, forse, la fuoriuscita improvvisa dalla Cisl di Bonanni. Chi ha deciso questi scatti, questi aumenti progressivi? La Cisl preferisce non commentare. Quando Bonanni si dimise il sindacato di via Po si limitò a ricordare che negli ultimi anni il segretario aveva percepito degli arretrati, la liquidazione del fondo pensione integrativo (che quindi si aggiunge all’assegno dell’Inps) e altri benefit legati alla sua retribuzione. Questi emolumenti, però, non figurano nella retribuzione ai fini Inps e comunque non avrebbero potuto essere così ampi. Negli ultimi cinque anni, infatti, Bonanni ha percepito un ammontare complessivo di 1.230 mila euro invece dei 600 mila spettanti secondo il regolamento. Il doppio. Sentito dal Fatto, l’ex segretario Cisl ha preferito non rilasciare dichiarazioni. Nella Cisl la discussione prosegue sotto traccia.
Salvatore Cannavò

MARIANNA RIZZINI, IL FOGLIO 31/10
C’è quel guardarsi in cagnesco dagli antipodi (stazione Leopolda, piazza San Giovanni). Quel vestire l’abito del cattivo a turno, incessantemente, nello stesso spettacolo fisso in cartellone, manco fosse “Trappola per topi”, la pièce immutabile recitata a rotazione sui palcoscenici di Londra. C’è quel guardarsi dagli antipodi, governo rottamatore contro sindacato impermeabile al tempo. E ci sono quelle due immagini, all’apparenza non collegabili direttamente, una vera e una (per ora) immaginata negli ambienti renziani. Da un lato la “smart rebellion” dei ragazzi ungheresi contro la tassa sul web voluta dal governo di Viktor Orbán, giovani che di notte su un ponte di Budapest seguono non una bandiera rossa né un vessillo arcobaleno, ma la luce fioca di un telefonino – migliaia di telefonini come accendini a un concerto, un serpentone convocato su Facebook e sospeso sul Danubio, strabordante oltre il parapetto, ai confini del buio, per chiedere che nessun fiorino, moneta ungherese, scorra al consumo dei gigabyte. Dall’altro lato il pensiero dell’isola che (ancora) non c’è, uno “smart-sindacato” che, in Italia, rappresenti i non rappresentati: giovani, precari semplici, outsider, precari tecnologici (gemelli ideali dei ragazzi della notte ungherese), gente di sinistra che ha introiettato l’idea di un mondo cambiato. Mondo in cui i partiti sono morti e risorti sotto altra forma e sotto altro nome, mescolandosi, perdendo pezzi, fondendosi, ricreandosi. Mondo moderno fatto di realtà e non di retorica, con il lavoro da garantire in altro modo, categoria per categoria, magari individuo per individuo, lottando per l’aumento dei salari. Senza concertazione, senza inamovibile impalcatura giuridica. L’idea è circolata, in questi giorni, nei giri del Pd di area Leopolda: dare vita a una nuova creatura veloce, snella, capace di arrivare a discutere di lavoro azienda per azienda, con modalità e ritmi impensabili ai tempi dei burosauri sindacali non ancora estinti. “Sindacato dei giovani e degli outsider”, la suggestione c’è. Anche se, a livello emerso, gli esperti del settore la prendono alla lontana. C’è chi parla di “associazione”, chi di “nuova legislazione”, chi di “rifondazione”.
Dice il professore giuslavorista Pietro Ichino, eletto al Senato con Scelta civica (ma guardato per ispirazione dal mondo renziano): “Il termine sindacato ha un significato preciso: quello di una coalizione di lavoratori capace di realizzare e incarnare un monopolio dell’offerta di manodopera, da contrapporre a un monopolio della domanda, per riequilibrare il potere contrattuale tra le parti. Se questa è la nozione, parlare di un ‘sindacato dei giovani’ o degli ‘outsider’ mi sembra inappropriato e fonte di equivoci”.
Ichino suggerisce a quelli che ci stanno pensando “di usare un lessico corrispondente a un’idea sostanzialmente diversa: quella di una associazione dei lavoratori di nuova generazione che si proponga di promuovere una legislazione del lavoro non sbilanciata a sostegno quasi esclusivo degli insider (come è la nostra attuale), un mercato del lavoro fluido e innervato da servizi efficienti svolti dalle agenzie specializzate capaci di svolgerli, e soprattutto un regime di vera contendibilità di tutte le funzioni, in ogni struttura pubblica e privata, nel quadro di un sistema dedicato a rendere effettiva la parità delle opportunità per tutti i cittadini”. Ma questo sembra a Ichino il programma “di un’associazione ben conosciuta nel nostro sistema costituzionale, che si chiama ‘partito’: forse stiamo parlando di quel nuovo ‘polo della riforma europea dell’Italia’, che in questi mesi si sta faticosamente costruendo?”. Michele Magno, invece, ex sindacalista Cgil e studioso di rapporti partiti-sindacato, applicherebbe al sindacato la ricetta applicata da Renzi al Pd, primarie aperte comprese. Dice infatti Magno che “in Italia c’è bisogno, più che di un nuovo sindacato, di un sindacato nuovo. Bisogna rifondare quello esistente. Renzi ha già aperto la sfida alle burocrazie confederali (rottamando la concertazione) dall’esterno. Ora deve portarla al loro interno, mettendo in discussione la titolarità a contrattare per tutti di chi rappresenta solo una minoranza delle maestranze occupate, dei giovani precari, dei senza lavoro, delle alte professionalità”. Come road map, Magno vedrebbe “una legge sulla democrazia sindacale, primarie per la scelta dei gruppi dirigenti del sindacato aperte ai non iscritti, rinnovo periodico delle deleghe, separazione della rappresentanza dei pensionati da quella dei lavoratori attivi (com’è in diverse realtà d’Europa). Inoltre: salario minimo, centralità del contratto aziendale per più salario e più produttività”. Rompere lo schema obbligato: unica strada per un governo rottamatore. Ma come spezzare il sortilegio del ruolo che risucchia nel gorgo della quiete apparente prima del nuovo scontro di mentalità (ancor più che di mondi) dell’8 novembre, giorno dell’annunciato sciopero generale Fiom? Soltanto apparente, infatti, è parsa ieri la tregua tra il premier Matteo Renzi e il segretario Fiom Maurizio Landini, dopo il “chiarimento” governo-sindacati sugli scontri tra forze dell’ordine e operai di Terni del giorno precedente, con Landini che vedeva nel governo la volontà di risolvere i problemi e Renzi che assicurava “verifiche e atti conseguenti” al sindacato medesimo, mentre il segretario Cgil Susanna Camusso, la donna che descrive il premier come “messo lì” dai “poteri forti” (questo ha dichiarato in un’intervista a Repubblica), intimava al governo di “abbassare i manganelli”. Nello scontro di mentalità, i segnali si rincorrono. Alcuni scorgono nella comparsa del manganello chissà quale torbido indizio anti sindacato (indizio che segue le parole del finanziere renziano Davide Serra, che alla Leopolda ha parlato di “limitazione” al diritto di sciopero. Poi però si scopre, sulla Stampa di ieri, che lo dice pure la Spd tedesca). “Guarda caso, tre giorni dopo…”, ha detto ieri l’esponente della minoranza dem Davide Zoggia sul Corriere. Altri ci leggono un opposto indizio anti Renzi: “Proprio ora… non è che qualcuno punta alla spallata?”, è il succo del retroscena di Repubblica. Guardarsi dagli antipodi e continuare a restarci, agli antipodi, anche dopo le telefonate segrete e smentite (tra Landini e il premier), e gli sms segreti e non smentiti (sempre tra Landini e il premier). Ogni parola è materia incandescente, acqua in ebollizione che minaccia di buttare all’aria il coperchio del pentolone. E se il primo incontro governo-sindacati, a inizio ottobre, era parso a Susanna Camusso offensivo (Renzi ci ha ricevuti “sul ballatoio”, per pochissimo tempo, ha detto, intonando “un’ora sola ti vorrei”), l’ultimo incontro governo-sindacati, due giorni fa, dopo la Leopolda e dopo piazza San Giovanni, agli occhi di Camusso è apparso ancora più oltraggioso: i ministri che ci hanno ricevuto non avevano “mandato” a parlare di nulla, ha detto, e tutti hanno guardato la foto dei ministri muti e rilassati e di Camusso muta e accigliata (“incontro surreale”, ha detto lei; “incontro andato benissimo”, ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan). Due lessici, incessante clangore di spade: l’eurodeputata pd Pina Picierno adombra truppe cammellate ed elezioni sindacali gonfiate (poi ridimensionando la portata della dichiarazione fatta ad “Agorà”), e per Camusso è come il fazzoletto rosso sventolato davanti al toro. Renzi espressione di universi bancari e misteriosi potentati nell’ombra, ha detto allora. In attesa che la road map del nuovo sindacato venga disegnata ufficialmente, dall’ambiente Leopolda filtra interesse per qualcosa che proietti la lotta sindacale nella modernità. “Nuova marcia”, dice l’imprenditore Oscar Farinetti (patron di Eataly), convinto che “anche un capo del sindacato debba avere la levatura del manager per negoziare con le aziende sulla base di conoscenze profonde dei cambiamenti in atto”, anche in tema “di retribuzione”, tenendo presente “che proprietari e lavoratori hanno pari dignità”. Farinetti vede in Landini un possibile leader di “un nuovo movimento”, che però non è il sindacato dei giovani e degli outsider di cui si parla negli ambienti renziani (il deputato Davide Faraone, interpellato in proposito, dice che servirebbe piuttosto il sindacato unico. E che però i sindacati esistenti, intanto, “dovrebbero cominciare a fare autocritica, proprio come hanno fatto i partiti”).
Marianna Rizzini

DARIO DI VICO, CORRIERE DELLA SERA 30/10
Prendiamo lo sciopero generale che verrà indetto tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. La parola d’ordine su cui la Cgil punterà tutte le sue carte per far riuscire l’astensione dal lavoro è la richiesta dell’adozione di una tassa patrimoniale. Non è certo la prima volta che se ne parla negli ultimi anni e non è un caso che alla fine non sia stata mai adottata. Il motivo è semplice: con altissima probabilità la nuova imposta non finirebbe per colpire le grandi ricchezze bensì una parte consistente del ceto medio, già ampiamente tosato dalle imposizioni sulla forma di patrimonio più diffusa (la proprietà della casa). E allora ha senso proporre uno sciopero generale, per di più della sola Cgil, con l’obiettivo di far salire ancora la pressione fiscale? Si pensa davvero che si possa uscire dall’impasse riproponendo la vecchia e fallimentare ricetta del «tassa e spendi»? È questa la vera discussione da fare, il resto è solo vento per le bandiere.

ROBERTO MANIA, LA REPUBBLICA 29/10
A un certo punto Susanna Camusso interrompe questa intervista, si alza, sigaretta in mano, e va verso la bacheca del suo ufficio con affaccio su Villa Borghese. Tra foto, messaggi, ricordi e volantini della Cgil, c’è un lancio di agenzia con una dichiarazione di Sergio Marchionne del 2 ottobre scorso. Parla del mercato del lavoro, l’ad di Fca, della necessità di togliere «i rottami dai binari». Ed è questo, spiega, il compito affidato a Renzi. Precisa: «L’abbiamo messo là per quella ragione lì».
Il segretario generale della Cgil si risiede: «Vede, quella dichiarazione non è mai stata smentita. A me colpisce molto che un cittadino svizzero che ha spostato le sedi legale e fiscale della Fiat all’estero possa dire del nostro presidente del Consiglio “L’abbiamo messo là” e che lo possa fare senza suscitare alcuna reazione».
Cosa vuol dire, segretario?
«Questo spiega l’attenzione del governo nei confronti dei grandi soggetti portatori di interessi particolari».
Il governo dei “poteri forti”?
«Quelle parole di Marchionne illustrano meglio di qualsiasi altro ragionamento perché questo governo non ha alcuna disponibilità a confrontarsi con chi, come i sindacati, rappresenta interessi generali, non corporativi».

ENRICO MARRO, CORRIERE ECONOMIA 20/10
Forse in crisi d’identità per i continui attacchi di Renzi, i sindacati hanno chiesto lumi ai sondaggisti sul loro grado di popolarità presso l’opinione pubblica.
La Cgil, con l’associazione Bruno Trentin presieduta da Fulvio Fammoni, si è rivolta a Tecnè, che ha intervistato un campione di mille persone più o meno diviso a metà tra iscritti alla Cgil e non iscritti. Ne è risultato che i primi si sentono meno isolati e indifesi dei secondi, ma che anche i non iscritti, nel 72% dei casi, si sono rivolti almeno una volta al sindacato e nel 65% sono rimasti soddisfatti. Secondo il 77% degli iscritti il sindacato è utile mentre ciò è vero solo per il 55% dei non iscritti
La Uiltucs di Brunetto Boco si è affidata invece a InNova Studi e Ricerche. Anche qui un campione di mille lavoratori, ma questa volta del settore dei servizi. I risultati qui sono un po’ meno confortanti: il giudizio sui sindacati è positivo da parte del 62,9% degli iscritti, mentre scende al 43,3% nei «non ostili» al sindacato e al 23,3% nei «lontani».
Ma la cosa più interessante è che il 70% degli iscritti giudica positivamente il governo Renzi, più degli stessi «lontani» dal sindacato, che promuovono Renzi solo nel 50% dei casi.

GIOVANNI MANCA, L’ESPRESSO 25/11/2013
Malati, vecchi e imbolsiti, vibrano unisoni e irritati come l’omino dell’ “allegro chirurgo” solo quando gli si contesta l’idea di “responsabilità”, sostantivo che – se li si vuol blandire – va sempre apposto alla sigla Cgil, Cisl e Uil. Talmente responsabili da aver abdicato ad affrontare negli ultimi anni la madre di tutte le battaglie: il proliferarsi del precariato. Talmente responsabili da accorgersene: “E’ vero – ha detto Susanna Camusso – il sindacato non è stato capace di costruire una strategia di inclusione del precariato. L’effetto è stato un crescente utilizzo delle forme non tipiche di lavoro, accompagnato da una contemporanea marginalizzazione sociale di questi lavoratori”

STEFANO MENICHINI, EUROPA 28/10
È evidente che Renzi si sente in pieno momento-Blair. Cioè vede l’occasione e avverte la necessità di suggellare, rendere evidente, plateale, se possibile definitiva la vittoria della sinistra modernizzatrice che ha in mente lui, contro la sinistra della tradizione che cerca di schiacciare sulle caricature dell’iPhone a gettone e della macchina fotografica digitale con il rullino. Che questa fosse l’intenzione s’era capito fin da quando l’abolizione dell’articolo 18 aveva ripreso importanza dopo esser stata a lungo definita irrilevante. A cose fatte, raccontando in futuro questa vicenda, gli storici la descriveranno probabilmente come una provocazione politica nella quale la sinistra sindacale e para-sindacale è caduta in pieno.