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 2014  ottobre 31 Venerdì calendario

L’ASSEDIO DI BAGHDAD


BAGHDAD. Alla fine il discorso torna sempre a Saddam Hussein. I Rais è morto da otto anni, ma sarebbe fiero di sapere che a Baghdad il suo nome è sempre utile per chiudere ogni tipo conversazione sulla politica, di quelle in cui si prova a immaginare il futuro del Paese. Mancando al momento la possibilità di immaginare alcun futuro, il ricordo di Saddam Hussein è la soluzione per tutti. «Se fosse rimasto in sella, il Paese sarebbe ancora unito», dicono alcuni. Oppure l’esatto contrario: «Per colpa sua siamo finiti in questo caos, che sia dannato all’inferno».
L’inferno, quello vero, è a 30 chilometri dalla Capitale, versante occidentale, direzione di Falluja e non troppo lontano da Abu Ghraib. Lo riconosci subito dai resti sventrati di case e automobili, infine ne cogli i confini grazie a una lunga trincea di terra e pietre tirata su alla meglio in pochi giorni. La località si chiama Dweliba ed è da qui che l’Is dovrebbe passare il giorno che deciderà di prendersi Baghdad. In teoria.
Sul terreno, a difesa della capitale, si schiera una variegata umanità: da una parte ciò che resta dello sbrindellato esercito iracheno, dotato di armi superate, con maglie delle squadre di calcio come uniformi e una vaga idea sul da farsi. Al loro fianco le milizie sciite ben organizzate e muscolari senza le quali oggi, forse, su Baghdad sventolerebbe già la bandiera nera del Califfato.
Il nemico è solo qualche centinaia di metri più in là. Ogni tanto si sente un colpo isolato. Un carro armato di fabbricazione americana risponde al fuoco con raffiche indirizzate verso la secca calura autunnale, colpi sparati per lo più per compiacere il visitatore occidentale.
«La situazione ora è tranquilla» mi spiega il miliziano Hasan che chiede di non mostrare il proprio volto, «ma qui fino a poche settimane fa si è combattuto parecchio. Is era arrivato fino alle porte della città, ma noi siamo riusciti a respingerli. Abbiamo riguadagnato terreno e ora li teniamo sotto controllo. L’unica cosa che non capiamo, è cosa stiano facendo gli americani. Pare che a loro interessi solo la Siria. Ma se cadesse Baghdad sarebbe una catastrofe. Gli americani avevano garantito un sostegno con gli aerei, ma qui per ora ci dobbiamo arrangiare da soli. Però siamo compatti e organizzati, la città non cadrà mai, e poi si guardi attorno: i soldati dell’esercito sono quasi tutti sunniti. Combattono a fianco di noi sciiti. Non dia retta a quello che dicono i giornali occidentali. Il nostro comune avversario si chiama Is, sono miserabili senza regole che non hanno posto in questo mondo. Lo scriva».
Se fosse così facile, la guerra sarebbe già finita. Ma la verità è che la grande forza dell’Is risiede nella debolezza dell’avversario, frantumato proprio dalle divisioni settarie. Baghdad, la città assediata, rappresenta il grafico ideale di questa fragilità. I quartieri in passato simbolo di una coesistenza tollerante, oggi sono bastioni contrapposti. Molti sunniti si guardano bene dall’avventurarsi dalle roccaforti sciite per paura di finire sgozzati. Negli ultimi dieci anni, il 60 per cento dei sunniti se n’è andato altrove, spinto dalla paura. È un puzzle che si confonde anziché risolversi. Il quartiere di Rasafa a est del Tigri, è considerato da sempre un’enclave sciita. Karkh, nella parte occidentale, sarebbe invece un quartiere sunnita. Ma il santuario più prestigioso sciita sorge a Karkh, mentre la moschea più importante sunnita sta proprio dall’altra parte. C’è chi propone di spostare gli edifici pezzo per pezzo. In un tempo neppure troppo lontano, questo accidente topografico non rappresentava alcun problema.
Dunque l’Is può tranquillamente aspettare il momento propizio per sfondare a Dweliba, perché è possibile che la Capitale imploda per conto proprio. La sinfonia che accompagna questa caduta lenta è offerta dalle autobomba che esplodono a ritmo quasi quotidiano. Solo a settembre sono ne sono saltate per aria 25. La stima di morti causati dagli attentati nel Paese per il 2014 supera le dieci mila vittime.
La calma che dunque si respira tra i ristoranti della zona di Mansour è solo abitudine. Gli iracheni hanno fatto il callo alle deflagrazioni, alle colonne di fumo che rigano il ciclo azzurro e al numero enciclopedico di check point sparsi per tutta la città, con soldati di primo pelo che frugano dentro le tue paure.
Gli iracheni fanno finta di niente, ma in verità aspettano. Non sanno bene cosa, ma sanno di dover aspettare qualcosa. È il tratto dominante della loro storia recente. L’attesa. Che siano i traccianti delle navi americani piazzate sul Golfo, oppure le truppe feroci del Califfato, a Baghdad quel che sanno fare meglio è guardare l’orologio. Con angoscia.
Adnani Hussein, giornalista di al-Mada, sostiene che la fragilità della Capitale e di tutto l’Iraq è frutto di una strategia ben conosciuta: «L’ex premier al-Maliki ha fatto con i sunniti quello che Saddam aveva fatto per anni con gli sciiti. Ha provato a schiacciarli e umiliarli. Il basso livello di educazione ha fatto il resto. L’odio settario è tornato a dominare la scena». Alla fine Saddam serve per spiegare tutto. Il nuovo Premier al-Abadi – uno sciita sulla carta più moderato di al-Maliki – sta rammendando in fretta gli strappi fatti dal suo predecessore. Serve unità, come sulle trincee di Dweliba. Ma la brutta notizia è che il problema settario, potrebbe non essere quello più urgente per Baghdad.
Quello che non si dice è che Baghdad è una città sull’orlo della bancarotta. Che all’Iraq servono 500 milioni al mese per dare da mangiare a quasi due milioni di profughi, che la guerra ha bloccato la crescita e che tutte le principali riserve alimentari del Paese, i granai con il cibo che rifornisce il sud più arido, sono nella solide mani dei jihadisti a nord. Morale? L’Is non ha nessuna intenzione di forzare la mano alle porte della Capitale, quanto di affamarla con calma in vista del rigido inverno, per poi magari trovarsela di fronte stremata e magari arrendevole all’inizio della primavera.
«Serviranno aiuti concreti» spiega Wisam, traduttore e giornalista per la Reuters, «ma se il Governo non sarà in grado di far approvare il bilancio, nessuno, a cominciare dal Fondo Monetario, rischierà neppure un dollaro per l’Iraq. C’è solo una soluzione possibile: che gli americani riportino le truppe e l’aviazione nel Paese. Devono garantire la sicurezza. Hanno sbagliato ad andarsene. La situazione attuale è la logica conseguenza di quella scelta».
A oltre vent’anni dal tronfio annuncio di George W. (Mission accomplished), forse si compie in modo del tutto involontario il disegno di Bush jr: ovvero, indurre gli iracheni a vedere negli americani dei «liberatori» e non degli invasori. Peccato che stavolta gli americani non verranno a liberare un bel niente. E che con ogni probabilità l’Is è per il Paese una minaccia molto più seria di quanto non fosse Saddam.
In più l’Is ha il controllo di dieci pozzi petroliferi, inclusi i sontuosi impianti di Ajeel e Hamreen. Se avere le mani sul pane ha una valore strategico, l’accesso esclusivo al petrolio è la linfa vitale dei jihadisti oltre che una morsa per l’economia del Paese.
E con quei barili che l’Is si è trasformato in una potenza militare. Ma come può entrare nel mercato «regolare» il petrolio proveniente da pozzi confiscati dall’Is?
Succede esattamente come con Saddam – sempre lui, ovviamente – ai tempi in cui era strangolato dall’embargo americano: il petrolio circola attraverso un laborioso network di trasporti via terra che approfitta delle maglie larghe delle frontiere con Turchia e Siria. Un greggio che si «ripulisce» in fretta e che probabilmente pure noi occidentali paghiamo profumatamente, sovvenzionando a nostra insaputa i macellai dell’Is.
È un gioco di specchi sofisticato e micidiale. Le decapitazioni sono solo gli spot commerciali per un’azienda molto funzionale che impiega come strateghi i vecchi e abili generali del partito Baath di Saddam. Sono quelli che stavano alle calcagna degli integralisti, e che oggi hanno trovato impiego proprio presso la più feroce espressione militare di quel nemico tanto odiato. Non è un problema ideologico, è una questione di posti di lavoro.
Così la tenaglia si stringe ai fianchi di Baghdad e chi paga il prezzo più alto sono i cristiani che nella diatriba tra sunniti e sciiti rappresentano un fastidioso elemento di contorno. La sensazione che il mondo abbia abbandonato l’Iraq è già molto chiara tra i sciiti e sunniti, ma si accentua quando incontri le comunità cristiane costrette a vivere alla macchia o in settori difesi militarmente.
Incontriamo Monsignor Wardumi non lontano dallo stadio nazionale, in una missione che accoglie alcune centinaia di scampati ai massacri di Mosul. È il Presidente della Caritas irachena e ha le idee molto chiare: «Dov’è l’Europa? Dove sono gli americani? Cosa facevano mentre l’Is impazzava massacrando la nostra gente? Ora vogliono intervenire. Temo che sia troppo tardi. È il momento peggiore della nostra storia e i responsabili sono a occidente. Pensate davvero che qualche migliaio di combattenti possa conquistare un Paese intero? Basterebbe un vero sforzo comune per distruggere la minaccia, ma finora tutti hanno lasciato fare. Eppure la situazione è evidente: l’Europa tollera di avere come alleato un Paese come la Turchia, l’unico che scambia prigionieri con l’Is come se fosse una forza diplomatica riconosciuta, mentre gli altri Paesi pagano riscatti milionari. Nessuno dice nulla? La pagheremo a caro prezzo nelle nostre città. A Roma come a New York».
Il prezzo per il rilascio di un iracheno che finisce nelle mani dell’Is, è di circa novantamila dollari. Anche se può capitare che al momento dello scambio ti riconsegnino un cadavere. Gli occidentali, è risaputo, valgono molto di più. Sono le leggi di un mercato delirante che a Baghdad accettano come un fatto della vita quotidiana. E, ovviamente, una sciagura neppure concepibile ai tempi di Saddam Hussein...
Riccardo Romani