31 ottobre 2014
QUASI QUASI CAMBIO L’ENEL
Ha quasi cinque milioni di visitatori l’anno, il triplo di quelli che pagano il biglietto per andare a vedere gli Uffizi di Firenze. Eppure non tutti sanno che la Tate Modern Gallery di Londra, uno dei musei d’arte moderna più visitati al mondo, fino al 1981 era una centrale termoelettrica a olio. «Non mi dispiacerebbe se il nostro impianto a carbone di Genova, proprio di fronte alla Lanterna, avesse un futuro simile a quello del modello londinese». La proposta di Francesco Starace, il nuovo capo dell’Enel, non sembra affatto casuale. Il manager, nominato a maggio dal governo di Matteo Renzi, sa che i prossimi mesi saranno difficili. Guardando i dati del 2013, l’Enel è allo stesso tempo la più redditizia compagnia elettrica d’Europa e il più indebitato gruppo industriale italiano. E lui, che ha detto senza troppi giri di parole di voler fare «più industria, meno finanza», ha deciso di non tergiversare e avviare una cura radicale, con numerosi sacrifici. Ha da poco annunciato che vuole chiudere 23 centrali termoelettriche in Italia, più di un terzo della capacità produttiva del gruppo nel Paese. Una notizia arrivata dopo che Eni e Finmeccanica, le altre due grandi partecipate dello Stato rivoluzionate ai loro vertici dal presidente del Consiglio, hanno messo in preventivo chiusure e dismissioni di attività varie in Italia.
Chi conosce il colosso dell’elettricità sostiene che Starace, 59 anni, nato a Roma e laureatosi a Milano in ingegneria nucleare, una carriera da tecnico prima in General Electric e Abb e poi, dal 2000, nella stessa Enel, nei suoi primi cinque mesi da numero uno abbia cambiato molto la struttura dell’azienda. Ha certamente ribaltato l’organizzazione manageriale, creando cinque nuove divisioni dotate di forte autonomia e potere, che dovranno coordinarsi nei diversi mercati con quattro responsabili delle rispettive aree geografiche. Nel descrivere la sua azione, però, Starace misura le parole: «La mia non è un’azione rivoluzionaria, né particolarmente innovativa», racconta in un colloquio con “l’Espresso”, «stiamo semplicemente mettendo in atto cambiamenti a cui si pensava da tempo, del tutto scontati per chi dirige un’industria: evidentemente passare dall’enunciato alla realtà non era così scontato».
Al vertice dell’Enel il manager è arrivato dopo un periodo di dodici anni nel quale, alla guida, si erano avvicendati prima Paolo Scaroni (fino al 2005), poi Fulvio Conti, nominato e confermato ben due volte quando a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi. Starace non ha ancora cambiato il piano industriale varato da Conti a marzo 2014, poco prima di essere costretto a lasciare la poltrona. Nei fatti, però, con la nuova struttura manageriale sta ridisegnando il gruppo: «Prima la situazione era ibrida», spiega, «in alcuni mercati la scelta di cosa fare toccava alle filiali locali, in altri alla capogruppo. La difficoltà gestionale era abbastanza grave e la comprensione del nostro modello di business da parte dei mercati molto difficile». Dalla riorganizzazione l’Enel conta di risparmiare entro il 2018 il dieci per cento delle spese di manutenzione, per una cifra che dovrebbe aggirarsi attorno a due miliardi, da investire nella crescita in giro per il mondo.
In questo piano si inseriscono le 23 centrali italiane da chiudere. Secondo l’Enel, da almeno cinque anni sono ferme o producono così poco da non essere redditizie. È il caso di alcuni degli impianti più potenti: Porto Tolle, nel delta del Po; Montalto di Castro, vicino al vecchio sito nucleare; Rossano Calabro, nel cosentino. Tutte centrali che Starace vuole spegnere, avviando per una quindicina di esse «un concorso di idee, aperto a architetti, imprenditori, cittadini, per individuare una nuova funzione».
In attesa di capire se l’esempio della Tate Gallery londinese attecchirà a Genova, restano i numeri di un settore, quello della produzione di elettricità da fonti fossili, in crisi strutturale. La colpa, dicono gli esperti, è del combinato disposto di crisi economica e boom delle energie rinnovabili. In quattro anni, dal 2008 al 2013, la produzione termoelettrica nazionale è infatti calata del 21 per cento. Ma nello stesso periodo, grazie anche agli incentivi, il contributo di sole e vento è cresciuto dell’82 per cento.
Il risultato è che l’Italia si ritrova con una capacità di produrre energia elettrica più che doppia rispetto alle reali esigenze. E l’Enel, che è di gran lunga il principale operatore, è quello che taglierà di più. Resta da capire cosa succederà ai 700 lavoratori delle centrali da spegnere o convertire in impianti più piccoli. «Nessuno perderà il posto. Questo è fuori discussione», ha assicurato il manager romano lo scorso 15 ottobre, in audizione davanti alla commissione Industria del Senato. Promesse che non sono bastate ai sindacati. «Le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Enel sono inaccettabili», ha tuonato il segretario generale della Uiltec, Paolo Pirani, che ha promesso iniziative «per contrastare il piano di deindustrializzazione».
Non sarà tuttavia la chiusura di alcuni impianti a permettere all’Enel di raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito, il vero fardello che grava sull’azienda di Stato. Pur avendo un bilancio in attivo, con un fatturato 2013 di 80,5 miliardi di euro e un margine operativo lordo superiore a tutte le concorrenti d’Europa (17 miliardi), la società paga dazio per i 43,1 miliardi di debiti accumulati. «Da inizio ottobre», hanno scritto in un report recente gli analisti di Société Générale, «il titolo Enel ha perso in Borsa circa il 13 per cento contro il 7 per cento lasciato sul terreno in media dalle altre concorrenti mondiali del settore. La caduta è stata esacerbata dall’impennata del rendimento dei titoli italiani».
Insomma, più sale il rischio per il Paese-Italia, più aumentano gli interessi che Enel deve pagare sul suo debito. Ed essendo quest’ultimo il maggiore tra quelli accumulati dalle aziende italiane, si capisce perché la questione sia rilevante. In Enel, dice Starace, «c’era troppa finanza. Se si guardano i dati, si vede che negli ultimi anni siamo stati tra i più grandi emittenti di titoli di debito d’Europa, ma nel nostro oggetto sociale non c’è l’emissione di bond. La questione andava affrontata, non farlo significava soltanto posticipare le scelte».
La promessa di ridurre il debito era stata fatta anche da Conti, verso il termine di una gestione in cui l’indebitamento era esploso a causa dell’acquisto di Endesa, il colosso spagnolo dell’elettricità. Starace, il cui primo piano industriale verrà presentato il prossimo marzo, per ora si limita a dire di voler attuare gli impegni presi dal suo predecessore, e cioè di tagliare il debito da 43,1 a 37 miliardi. Dei sei miliardi da recuperare, un quarto è entrato in cassa ancor prima che lui diventasse il numero uno. Merito, soprattutto, della cessione alla russa Rosneft dei giacimenti di gas siberiani controllati attraverso SeverEnergia.
Il piano, però, prevede altre cessioni rilevanti ancora da realizzare. Nella lista ufficiale ci sono le intere partecipazioni di società controllate in Slovacchia e Romania, acquistate quando alla guida dell’Enel c’era Scaroni. Slovenske Elektrarne, di cui l’Enel dieci anni fa comprò il 66 per cento per 839 milioni di euro, è la principale azienda elettrica slovacca: forte soprattutto nel nucleare, l’anno scorso ha chiuso il bilancio con un margine operativo lordo di 708 milioni. E se riuscirà a venderla, l’Enel uscirà quasi completamente dall’energia atomica (restano solo alcuni impianti in Spagna, co-gestiti con operatori locali). In Romania, invece, la produzione di energia da fonti fossili è nulla per l’Enel. La nazione fu scelta da Scaroni per compensare la perdita di clienti italiani, ceduti dall’ex monopolista ad altre società del settore per favorire la liberalizzazione del mercato nostrano.
Il risultato è che l’Enel, oggi, in Romania è il secondo operatore nella distribuzione di elettricità, grazie a un gruppo di aziende che nel 2013 hanno prodotto un margine operativo lordo di 289 milioni di euro. «Vendiamo nell’Est Europa perché dobbiamo ridurre il debito: e queste partecipazioni hanno la cubatura giusta», spiega Starace, precisando però che la riduzione del debito a 37 miliardi entro la fine di quest’anno dipenderà da quali di queste cessioni andranno in porto e da quando verranno perfezionate le operazioni. Questioni rilevanti, dato che eventuali slittamenti rischiano di pesare sul titolo Enel: «Se non riescono a vendere gli asset slovacchi e rumeni entro fine anno il mercato potrebbe prenderla male», prevede Giuseppe Rebuzzini, analista di Fidentiis.
Forse consapevole del problema, l’Enel ha messo in vendita altre attività. «Ci sono le rinnovabili in Francia», dice Starace: «Un grande Paese, dove abbiamo dimensioni interessanti e un quadro regolatorio chiaro, ma dove la crescita è molto lenta. E poi anche una società che si occupa di rinnovabili negli Usa, di cui potremmo cedere fino al 49 per cento, più altre in giro per il mondo: il totalone fa circa 8 miliardi. Vediamo quali riusciremo a vendere per raggiungere i 4,4 miliardi di riduzione del debito che ci siamo prefissati».
Del «totalone», come lo chiama, non fa parte Endesa, l’acquisto più clamoroso degli anni di Conti. E anche quello sui cui si concentra ora l’attenzione degli analisti. Endesa, di cui l’Enel oggi detiene il 92 per cento del capitale, è infatti l’azienda attraverso cui l’ex monopolista italiano ha operato finora nei mercati del Sudamerica, in Spagna e Portogallo. Un boccone pagato caro (37,8 miliardi) e a cui si deve buona parte del debito attuale di Enel. Starace non ha mai detto di volerne vendere una quota, ma secondo diversi analisti i segnali arrivati recentemente lasciano pochi dubbi.
Per il manager le cessioni e la riorganizzazione devono servire a liberare risorse: «Nel piano predisposto a marzo», dice, «l’Enel prevedeva di investire in cinque anni 26 miliardi di euro, due terzi per la manutenzione degli impianti, un terzo per la crescita. Credo che sia una proporzione sbagliata: non so a che equilibrio riusciremo ad arrivare, ma dobbiamo porre il focus sulla crescita. Perché i margini di sviluppo del gruppo sono molto importanti. Pensi alla geotermia: lo sa che produciamo in dodici Paesi diversi, con 20 mila addetti e siamo i secondi operatori privati del settore dopo Gaz de France?».
Le attività da fonti rinnovabili, che in Enel Starace ha guidato dal 2009 al 2014, restano un suo pallino. In Senato ha detto che il gruppo, con la controllata Enel Green Power, intende investirci sei miliardi in 5 anni. Ma gli obiettivi sono molti, anche se lui, per ora, non si sbilancia. Dove volete puntare? Risponde: «Facciamo prima a dire dove non lo faremo. In Europa oggi la situazione è molto rischiosa perché non si possono fare contratti di lungo periodo per la vendita di energia: i prezzi non possono esser definiti per più di due anni, cioè i contratti li puoi fare ma poi i clienti possono cancellarli in qualsiasi momento. Quindi fintanto che non cambierà questa situazione non faremo grandi investimenti in Europa. Ma per il resto non ci sono confini».