Marco Damilano, L’Espresso 31/10/2014, 31 ottobre 2014
DIVIDERSI SIGNIFICA FALLIRE
[Colloquio con Emanuele Macaluso] –
Sono l’unico essere ancora vivente ad aver firmato nel 1944 un appello per l’unità sindacale a Caltanissetta: io per il Pci, Alberto Alessi per la Dc, i socialisti. Già allora dicevamo: badate, serve un progetto!». Emanuele Macaluso, novant’anni compiuti il primo giorno di primavera, ha vissuto da protagonista le lotte, le divisioni, le sconfitte della sinistra italiana in un secolo di storia. Un osservatore per nulla distaccato di quanto si muove tra Matteo Renzi, la Cgil, la minoranza del Pd: «Renzi è intelligente e determinato, ha un obiettivo chiaro: costruire un partito non più di centrosinistra, aperto ai moderati. Ma chi cerca un’alternativa deve farlo dentro il Pd».
Dopo la piazza della Cgil e l’incontro della Leopolda c’è chi ha parlato di un doppio Pd, di una doppia sinistra, inconciliabile. È così?
«Oggi come mai si pone il problema che mi ha appassionato per tutta la vita: la sinistra ha ancora la prospettiva di essere una forza di governo? In Italia lo è stata anche quando era all’opposizione, con il Pci e il Psi. Anche il sindacato lo è stato. Nel dopoguerra era una forza unitaria, in cui convivevano comunisti, democristiani, socialisti. Dopo la divisione i partiti sono rimasti il punto di riferimento. Oggi tutto questo non esiste più. In apparenza i sindacati sono più autonomi, ma anche più isolati. La Cgil è attaccata da destra, dal centro, ora soprattutto da sinistra. Che parola usa il segretario del partito che aderisce al socialismo europeo? Renzi dice di volerli asfaltare».
Cosa dovrebbe fare la Cgil per reagire? Un’altra manifestazione? Uno sciopero?
«Il contrario: dovrebbe smettere di giocare di rimessa. Non inseguire Renzi, chiedendo di essere ricevuta. Lanciare la sfida della riunificazione alla Cisl e alla Uil e un suo progetto di riforma del Welfare, un Piano per il lavoro come avvenne nel dopoguerra. Il sindacato in Italia ha sempre interpretato l’interesse generale, non solo quello dei suoi associati, dalla lotta alla mafia a quella contro il terrorismo. Renzi punta a smantellare tutto, vuole sindacati che si occupino solo di interessi parziali. Ma se il sindacato non fa un salto di qualità è finito. E sarebbe un esito drammatico, perché come dimostra l’ultima manifestazione resta l’unica forza che ha una presenza di popolo e un rilievo sociale, civile, culturale».
E i partiti che fine hanno fatto?
«Quando fu fondato il Pd dissi che eravamo al capolinea. D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani e anche Rutelli, Castagnetti, i dirigenti dei Ds e della Margherita si misero insieme senza una base politica e culturale, è rimasto un fatto di vertice e non di popolo. Per rimediare a questa mancanza hanno commesso un altro errore letale: le primarie. Per le cariche istituzionali dovrebbero essere regolate per legge, per eleggere il segretario del partito non hanno senso. E invece il Pd si è messo in testa di far scegliere il suo leader da gente senza la tessera. Una forma di modernità? No, un’evasione, una fuga dalla realtà».
Renzi è figlio di questa storia?
«Renzi non è arrivato dal nulla, è nato sul fallimento di un’intera classe dirigente. Una generazione che ha avuto un solo obiettivo: andare al governo, al potere, senza un disegno, un’idea di società, che non è cosa facoltativa per un partito che si dice di sinistra. Finché è arrivato Renzi che ha spiegato meglio di loro come si vinceva, ha lanciato l’Opa, ha scatenato un’adesione trasformistica e si è preso tutto».
Renzi è un leader di sinistra?
«Ha una strategia chiara. Costruire un partito che non è più di sinistra e neppure di centrosinistra, un partito di centro in cui l’area moderata si senta a casa sua. La battaglia sull’articolo 18 è di pura immagine, per dimostrare che nel Pd conta solo lui, non gli ex comunisti o i sindacalisti. Ho visto che il finanziere Davide Serra alla Leopolda ha chiesto di abolire il diritto di sciopero. Renzi ha preso le distanze, ma intanto lo scopo è stato raggiunto: l’idea ha conquistato udienza, cittadinanza in un partito della sinistra. Un altro segnale lanciato all’elettorato moderato».
È inevitabile una scissione nel Pd?
«Le scissioni sono tutte fallite, da Saragat a Bertinotti. Un partito di sinistra o ha il popolo o non è niente, solo rendita di posizione o testimonianza. Oggi una scissione a sinistra del Pd sarebbe un regalo per Renzi. La questione è un’altra: questa sinistra è in grado di fare una battaglia politica dentro il Pd? Quale progetto c’è? Io vedo solo i no, una conservazione dell’esistente. E invece l’esistente va modificato».
Chi può fare questa battaglia? Civati, Fassina, Cuperlo? Oppure Maurizio Landini?
«Nessuno di loro è un punto di riferimento. Landini punta alla leadership della Cgil, legittimamente, anche Lama, Novella e Trentin erano stati segretari della Fiom prima di arrivare al vertice del sindacato. In politica sarebbe un fallimento».
Lei è stato amico di Enrico Berlinguer. Come ha preso la battuta del ministro Maria Elena Boschi: «Preferisco Amintore Fanfani»?
«Una cosa ridicola. Non si conosce la storia. Fanfani fu il primo a rottamare la generazione precedente, quella dei popolari di Alcide De Gasperi. E prese alle elezioni del 1958 il 41 per cento, risultato mai più raggiunto fino al Pd di Renzi. Ma la Boschi dimentica cosa successe un anno dopo. Fanfani aveva tre incarichi, era presidente del Consiglio, segretario della Dc e ministro degli Esteri, ma il partito si rivoltò, Moro, Segni, Colombo lo misero in minoranza. E lui perse tutto».
È una lezione per Renzi?
«Per ora nessuno lo può contrastare. Non ha alternative fuori dal Pd, a destra e a sinistra, non ha alternative all’interno, la minoranza è divisa e senza un progetto. È forte, ma sarà sempre così? La politica e la natura tendono a creare alternative».
Alla Leopolda Renzi ha omaggiato Giorgio Napolitano come mai aveva fatto, eppure un anno fa i due sembravano non capirsi. Quando è scattata la sintonia?
«Renzi ha capito che Napolitano non è un conservatore, è stato lui il primo a parlare delle riforme. E poi Renzi sa che il presidente non scioglierà mai le Camere, ha sempre vissuto il ricorso continuo a elezioni anticipate come un’anomalia del sistema politico italiano. Piuttosto si dimetterebbe prima della fine del mandato, come del resto ha già annunciato».
Le elezioni anticipate sono ancora una tentazione per Renzi?
«Non credo, perché dovrebbe volere un nuovo voto? Finché non troverà uno sbarramento alle sue riforme andrà avanti con questo Parlamento».
Quanto conta la scelta del prossimo capo dello Stato?
«Sarà un passaggio decisivo. Anche su questo Renzi dovrebbe meditare la storia di Fanfani che non riuscì mai a far passare il suo candidato al Colle né riuscì a farsi eleggere lui. Un presidente candidato per volere di un solo leader è destinato alla sconfitta. Serve un accordo ampio».
Ma l’accordo Renzi l’ha già fatto: il patto del Nazareno con Berlusconi?
«Ah sì? Beh, lo voglio vedere».