Luca Ricolfi, Panorama 30/10/2014, 30 ottobre 2014
TRE MINE SOTTO LA MANOVRA
Dopo settimane di indiscrezioni, tabelle, contro-tabelle, slide e tweet, la manovra (o Legge di stabilità) ha finalmente una forma ben definita, anche se suscettibile di ulteriori modificazioni per iniziativa del Parlamento.
Che cosa se ne può dire? Devo confessare che sono alquanto perplesso. Intanto perché c’è uno scarto enorme fra le slide per la stampa e le tabelle per l’Europa. Nella sua fase propagandistica Matteo Renzi aveva annunciato 20 miliardi di tagli dei cosiddetti sprechi (più del piano di Carlo Cottarelli) e 18 miliardi di tasse in meno.
La realtà è decisamente diversa: le minori tasse sono pari a circa 11 miliardi (non a 18), le minori spese sono pari a 15 miliardi (non 20) quasi completamente «mangiati» da nuove spese (11 miliardi), per cui alla fine la riduzione della spesa pubblica è di soli 4 miliardi. E poiché le minori spese (4) non bastano a coprire le minori entrate (11), la differenza viene coperta aumentando il deficit di 6-7 miliardi (dopo le correzioni richieste da Bruxelles).
Come dire che il grosso della riduzione delle tasse viene finanziato in deficit, il che non è precisamente quel che ci si aspetta quando si parla di contenere l’interposizione pubblica e il ruolo esorbitante dello Stato. Ma c’è anche
una seconda ragione di perplessità ed è che, al di là del gioco delle tre carte sulle cifre, la manovra è davvero difficile da valutare. Nella manovra, infatti, sono contenute almeno tre incognite, o forse sarebbe meglio dire tre ordigni a scoppio ritardato, di cui è impossibile valutare ora l’impatto. A seconda di come si comporteranno questi tre ordigni la manovra potrà risultare la svolta positiva che tutti ci auguriamo, oppure l’ennesima beffa al danno degli italiani.
Vediamo dunque i tre ordigni. Il primo ordigno è l’aumento del deficit. Se i mercati stanno zitti e buoni, nessun problema. O meglio: solo un piccolo problema, qualche miliardo di debiti in più sulle spalle delle generazioni future. Ma se i mercati si risvegliano, perché c’è una nuova tempesta finanziaria in Europa, o anche semplicemente perché si accorgono che le riforme promesse stentano a decollare, allora possono essere guai seri per l’Italia.
L’andamento positivo dello spread in questi mesi, infatti, è un dato del tutto ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto quelli degli altri Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). In concreto vuol dire: in caso di crisi siamo più esposti di prima alla speculazione.
Il secondo ordigno è la spending review, un’operazione da 15 miliardi che il governo non sta usando per ridurre il perimetro della Pubblica amministrazione ma per finanziare qualcosa come 11 miliardi di nuove spese (senza contare i 9,5 miliardi del bonus da 80 euro, una voce che l’Europa conteggia fra le spese, e che il governo include invece, secondo me abbastanza giustamente, fra le minori tasse).
Ebbene, l’esperienza del passato fa pensare che, in assenza di piani dettagliati di riorganizzazione dei servizi, 15 miliardi di spesa pubblica in un solo anno non si possano tagliare senza tagliare anche i servizi. Quindi lo scenario più verosimile è che regioni, province, comuni, sindacati impediranno una completa effettuazione dei tagli, il deficit pubblico aumenterà, e scatteranno le «clausole di salvaguardia» annidate nella Legge di stabilità.
Di che cosa si tratta? Si tratta di aumenti automatici dell’Iva (e di altre tasse) che andranno a coprire il buco nei conti pubblici generato dai mancati risparmi di spesa. La Legge di stabilità già li prevede in dettaglio: 12,8 miliardi di maggiori tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno successivo, 21,3 miliardi nel 2018, cui si aggiungono, dal 1° gennaio 2018, aumenti della benzina e del gasolio da carburante. E come se non bastasse, al contribuente tocca anche sentirsi le rassicurazioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan via Twitter: «L’impegno politico è per il non aumento dell’Iva». Un vero insulto all’intelligenza degli elettori, cui viene chiesto di fidarsi delle promesse di un ministro di cui nessuno può sapere se al momento buono sarà ancora in carica, e che comunque non avrà alcuna difficoltà a tirare fuori la solita penosa tiritera cui i politici ricorrono in questi casi: la situazione è cambiata, allora non potevamo sapere che la crisi sarebbe durata ancora a lungo, nel frattempo sono intervenuti eventi eccezionali, e via giustificando. C’è anche un terzo ordigno, tuttavia. Qui prudenza è d’obbligo, perché mancano ancora troppe informazioni, se non altro perché nessuno può sapere che itinerario seguirà il «Jobs act». Però il dubbio mi sembra non possa essere taciuto: l’impegno ad azzerare i contributi a carico del datore del lavoro per tutte le imprese che assumono a tempo indeterminato nel corso del 2015 rischia di non produrre un numero apprezzabile di «veri» nuovi posti di lavoro, ossia posti che altrimenti, senza la decontribuzione, non sarebbero stati creati.
Lo scenario più probabile, a mio parere, è quello di un assalto alla decontribuzione da parte di imprese che cercheranno semplicemente di usufruire del beneficio, senza creare nuova occupazione. La decontribuzione, infatti, non è concentrata sulle imprese che incrementano l’occupazione, e rischia quindi di rivelarsi come una semplice misura di abbattimento dei costi aziendali, senz’altro meritoria ma poco adatta a creare posti di lavoro davvero addizionali.
Il rischio, in poche parole, è che il plafond previsto dal governo (1,9 miliardi) non basti a soddisfare tutte le richieste (perché tutte le imprese vogliono godere dello sconto), e nello stesso tempo i posti di lavoro genuinamente incrementati finiscano per essere assai pochi.