Mauro Mondello, Panorama 30/10/2014, 30 ottobre 2014
IN LIBIA, DOVE INIZIA L’ESODO
La colonna di camion arriva da sud. Entra in città squarciando il silenzio. Nella notte le strade di Zuwarah rimbombano del suono metallico di un motore allo stremo. La carovana sembra sbucare dal nulla, eppure ha percorso migliaia di chilometri nel deserto. Dentro ai cassoni stanno stipati come formiche decine di uomini, donne, bambini. Vengono dal Mali, dal Niger, dalla Somalia: dall’Africa subsahariana che continua a bussare alle porte dell’Europa. È una processione in viaggio da settimane, a volte da mesi e in qualche caso da anni. Il percorso verso la terra promessa, la costa libica, e il sogno di una barca in direzione di Lampedusa, non è mai diretto: per la strada si susseguono razzie, pestaggi, soprusi di ogni genere perpetrati dalla polizia e dalle bande criminali.
I migranti raccontano di uomini fatti schiavi e bloccati in attesa di racimolare il denaro necessario per continuare il viaggio: messi al lavoro come camerieri, raccoglitori di datteri, scaricatori. Dalla mattina alla sera, per non morire di fame e con la promessa di un biglietto verso Zuwarah. «Io ho lavorato 6 anni per mettere da parte mille dollari per il camion e altri 4 mila per la barca e per quel che sarebbe venuto dopo» racconta Cesar, 26 anni, originario di Abéché, una città del Ciad centrorientale.
Cesar è partito con tanti altri disperati. «Dopo tre giorni ci ha fermato gente armata, non so se polizia oppure criminali: è difficile capire la differenza. Avevamo appena passato il confine a Toummo, un villaggio a una manciata di chilometri dal Niger, e mi hanno portato via tutto: soldi, telefono, orologio, scarpe. Sono rimasto senza nulla, così come mi vedi. Ho chiesto in prestito il denaro per la barca a un amico che viaggiava su un altro camion una cinquantina di chilometri dietro di noi; ho promesso di ridarglieli quando avremo raggiunto l’Italia. Altri sono stati meno fortunati, sono bloccati a Toummo e chissà quando ripartiranno».
Zuwarah è un luogo antico e martoriato: palazzi bianchi e azzurri spesso segnati dai colpi di mortaio, dalle cannonate esplose durante le battaglie della guerra civile libica fra miliziani e ribelli. Percorrendo il corso principale della città, Soleman Al Street, si entra in un labirinto di check-point, filo spinato, pneumatici e sacchi di sabbia, un dedalo controllato dagli uomini delle milizie di Misurata e dalle forze islamiste moderate, decisi a prendere il controllo della regione. Oggi Zuwarah, per molti, è la destinazione della vita, un luogo dove ci si gioca tutto, dentro o fuori, alla ricerca di una nuova esistenza: secondo Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne, 45 mila persone sono partite da queste coste, dal 2013 a oggi. Un giro d’affari di oltre 100 milioni di euro per i criminali della zona, legati alle milizie dei ribelli contro Gheddafi.
Arrivato in città, il convoglio si dirige rapido verso la periferia; il punto di arrivo è un capannone abbandonato dove scaricare i migranti, oppure, quando va bene, un vecchio palazzo disabitato e fatiscente. Sono i centri di smistamento. Qui gli scafisti gestiscono le partenze: un nuovo incubo per i migranti. Qui i prigioneri vengono picchiati e torturati. La violenza è frutto dell’odio storico dei libici verso le popolazioni nere d’Africa, che durante e dopo la guerra libica ha causato centinaia di morti.
«Io ero in Libia con la mia famiglia nel 2011, quando è scoppiata la guerra» racconta Adane, un ragazzone etiope nero, con gli occhi grandi e uno sguardo che sembra triste da tutta la vita. «Con mia moglie eravamo arrivati dieci anni fa per raggiungere dei parenti. Si stava bene: lavoravamo, avevamo la casa, la macchina, i nostri due bambini andavano a scuola. Io facevo il meccanico in un’officina a sud di Tripoli».
Come Adane, in Libia gli immigrati erano tantissimi e da ogni parte del mondo: non solo africani, ma anche arabi e filippini, srilankesi, cingalesi... «La Libia era un eldorado» continua l’uomo. «Io guadagnavo 500 dollari al mese, una fortuna. In Europa ci volevo andare, certo, ma con l’aereo: per vedere Roma, Parigi, Madrid da turista».
Poi però è cambiato tutto. «La guerra civile ci ha spinto verso il confine tunisino, a Sfax» continua Adane. «Siamo stati lì per 6 mesi, ma quando sono finiti i soldi non c’è rimasto altro che venire a Zuwarah e tentare
la fortuna. A prendere una barca avrei fatto meglio a provarci subito. All’inizio qui si partiva senza pagare: Muammar Gheddafi spediva i rifugiati verso Lampedusa come strategia contro l’Europa. Oggi invece sono in mano a gente priva di scrupoli. Non so cosa sarà di me e dei miei figli».
Chi può pagare il biglietto, dai mille ai 3 mila dollari, viene imbarcato in una decina di giorni. Per tutti gli altri si aprono invece le porte del contrabbando con la Tunisia, in attesa di mettere insieme il necessario per acquistare un gommone da 20 cavalli e tentare la sorte. Qui si commercia qualsiasi cosa: cibo, telefoni cellulari, soprattutto carburante, comprato in Libia per pochi centesimi al litro e poi trasferito in Tunisia per essere venduto a una cifra cinque volte superiore. Si passa per il deserto, percorrendo i sentieri lungo la frontiera: le forze di sicurezza libiche e tunisine di pattuglia si girano dall’altra parte; a Zuwarah il traffico illegale costituisce la base dell’economia, l’unico impiego disponibile in un’area desolata e ormai ridotta a zona franca.
L’imbarco avviene di mattina presto. I trafficanti arrivano all’alba, caricano i migranti e sfrecciano verso la costa. Auto, furgoni, carrette stracolme di persone si incontrano sulla spiaggia. I migranti si guardano spaesati mentre gli scafisti urlano ordini e spintonano. Un gozzo, una barca di legno, e quando si è fortunati un peschereccio vecchio e malridotto, vengono riempiti sino all’ultimo centimetro. Non si possono imbarcare bagagli, soltanto qualcosa da mangiare e una bottiglia d’acqua che comunque non servirà a molto: la traversata è lunga e chiunque voglia sopravvivere sarà costretto a bere acqua di mare.
Ai migranti viene consegnato un telefono satellitare: con quello, una volta arrivati in acque italiane e abbandonati dagli scafisti, dovranno chiamare la Guardia costiera. «Arriveranno e vi porteranno in salvo, non preoccupatevi» dicono i trafficanti. «Fra poche ore saremo a Lampedusa e sarà tutto finito» continuano a ripetere le centinaia di esseri umani stipati dentro a un carretta, nel mezzo del Mediterraneo.