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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

QUALCUNO ERA COMUNISTA PADANO

C’è stato un momento, lunedì scorso a “Piazza pulita”, verso la metà della trasmissione, in cui il conduttore Corrado Formigli ha chiesto a bruciapelo al leader della Lega Nord, Matteo Salvini, se si considera antifascista. Lui, Salvini, deus ex machina del rilancio leghista, lo scorso 18 ottobre ha portato in piazza a Milano decine di migliaia di persone per protestare contro le politiche migratorie italiane ed europee e gli extracomunitari, artefici di una sedicente «invasione» che il fu Carroccio si propone di arginare. E, tra gli altri, in piazza Duomo c’erano anche molti membri di Casa Pound, il movimento di estrema destra con più di un penchant nostalgico per il fascismo.
Matteo, l’altro Matteo della politica italiana, quello che non viene quasi mai chiamato per nome, è rimasto impassibile in superficie, ma prima di rispondere ha lasciato trascorrere un interminabile attimo. «Io sono antirazzista», sono state le parole affastellate da Salvini, che poi ha rapidamente aggiunto «il fascismo e il comunismo li studio sui libri di storia» e, con un coup de théâtre un po’ poco riuscito, «i ragazzi di Casa Pound sono venuti a manifestare a Milano e non hanno lasciato neanche un mozzicone di sigaretta per terra».
Deve averne pensate di cose, in quell’attimo. Perché lui, quarantunenne con letteralmente una vita in politica alle spalle, ha iniziato da giovanissimo in cornici molto diverse. Sempre nella sua amata Lega, certo, ma con connotazioni ideologiche opposte. Prima del record ineguagliato di status e tweet allarmisti sull’epidemia di Ebola, prima delle alleanze europee col Front National di Marine Le Pen e l’estrema destra comunitaria, prima delle difese d’ufficio di Roberto Calderoli che paragona Cecile Kyenge a «un orango», Matteo Salvini è stato un esponente di spicco della corrente dei Comunisti Padani, una delle fazioni che si contesero l’ingresso in una storica assemblea separatista che alla fine degli anni Novanta rappresentò il sigillo sull’exploit di consensi di Bossi e sodali. Qualcuno era comunista, sì, ma quel «qualcuno», in questo caso, tempo dopo è finito a dichiarare in diretta radiofonica che «i topi sono più facili da debellare degli zingari».
Nell’autunno del 1997 la Lega, lontana da future traversie di tesorieri indisciplinati e delfini con lauree albanesi, organizzò una mobilitazione in tutta l’Italia del nord, facendo eleggere in consultazioni formali ai suoi gazebo duecento membri di un “Parlamento della Padania”, un’istituzione assimilabile a una sorta di governo ombra delle camicie verdi. La prima riunione del nuovo organo si tenne il 9 novembre 1997 al castello Procaccini (allora castello Cusani Visconti), maniero quattrocentesco di Chignolo Po, provincia di Pavia, a poca distanza dalle sponde che l’anno prima avevano visto la famosa traversata e la famosissima dichiarazione bossiana d’indipendenza della Padania. Tra i duecento parlamentari del Senatùr c’era anche Salvini, allora ventiquattrenne ma già habitué della politica milanese: iscritto al partito fin dal 1990, era diventato consigliere a Palazzo Marino nel 1993, al crepuscolo della Prima Repubblica, quando Marco Formentini (poi tra l’altro presidente dell’estroso parlamento autoctono padano) vinse la corsa a sindaco del capoluogo lombardo. Salvini collega l’esperienza dei Comunisti Padani – che ricorda tuttora in diversi suoi interventi – a una sua cifra distintiva retorica: il considerarsi vicino ai lavoratori, agli operai, ai bisognosi, coloro a cui secondo lui la sinistra non dà risposte.
«L’idea venne durante una visita di Bossi a Guastalla, Reggio Emilia, a cena», spiega a Studio Angelo Alessandri, emiliano presidente federale della Lega Nord fino al 2012 e tra gli ideatori delle correnti che, dice, avrebbero dovuto «rappresentare le varie anime della Lega: c’era una componente socialdemocratica con a capo Formentini, una liberale con Vito Gnutti, una indipendentista veneta». Presentarono una lista addirittura i Radicali di Marco Pannella, che riuscirono a far eleggere Benedetto Della Vedova, oggi sottosegretario del governo Renzi, dopo un ricco cursus honorum. L’idea, che al telefono Alessandri oggi definisce «simpatica», in realtà aveva una sua raison d’être precisa e strategica: soprattutto nell’area emiliana in quegli anni post-Tangentopoli il Pci-Pds aveva perso diversi consensi, in luoghi che erano stati per anni la sua roccaforte. Citando ciò che Alessandri stesso dichiarò in un’agenzia Adnkronos del 18 settembre 1997: «Ci sono paesi della Bassa reggiana dove il Pci-Pds è passato dal 70% al 40%. E tutti quei voti sono andati per buona parte alla Lega».
E così, Comunisti Padani, con tanto di simbolo con Falce e martello – d’altronde lo stesso Bossi iniziò nel 1975 iscrivendosi al Partito Comunista della sezione di Verghera, in provincia di Varese, e Maroni frequentò per diverso tempo gli ambienti di Democrazia Proletaria. Di questa lista al parlamento pavese vennero eletti, tra gli altri, il giovane Salvini, il recentemente scomparso Mauro Manfredini (che propose per primo a Bossi la lista comunista; ex militante della Fgci, nel 1997 rammentò al Corriere che «fu proprio Lenin a teorizzare l’autodeterminazione dei popoli», e Franco Spadoni, detto “Franchino”, «reggiano di due metri d’altezza» che, si legge in Avanti Po. La Lega Nord alla riscossa nelle regioni rosse, si definisce «un grande militante del Pci» e ha conosciuto «personalmente» Enrico Berlinguer – il quale a suo parere a Padova, in piazza della Frutta, quel giorno venne assassinato. Cospirazionismi di stampo simil-grillino, e non è detto che fra costole della sinistra non ci si intenda.
Se la convergenza parallela tra ex militanti comunisti delusi dai cascami della Prima Repubblica e la Lega Nord è difficilmente comprensibile, però, pensare che Matteo Salvini, il paladino del “mandiamoli a casa loro”, fosse candidato con una lista recante la falce e il martello è anche più ardimentoso. Eppure lui, l’uomo dei sit-in col megafono e la felpa con la scritta «Milano», in quegli anni era spesso al centro sociale Leoncavallo, che nel frattempo Formentini si impegnava a far sgomberare. Ripete spesso di adorare Fabrizio De Andrè, ma non è chiaro se le notti che le pantere mordono il sedere si senta più assolto o coinvolto. Dice di essere post-ideologico e non aver problemi a interloquire con Le Pen e Putin solo perché «è pagato per risolvere problemi» («se la sinistra è quella che si occupa solo degli immigrati e dei carcerati allora non è la mia roba», ha dichiarato in Tv qualche mese fa), e tuttavia i suoi bersagli polemici sono quasi tutti dello stesso versante politico.
Salvini è riuscito a fare tesoro del meglio del repertorio leghista: fin dai tempi del Consiglio comunale di Milano ha fatto politica a due velocità, facendo parte delle giunte Formentini, Albertini e Moratti ma smarcandosi chirurgicamente dal sindaco di turno, regolarmente troppo permissivo e poco attento alla “sua” gente, e mettendo in campo posizioni ambivalenti nei confronti della destra berlusconiana. Matteo il milanese gioca su questo: dice alle persone ciò che vogliono sentirsi dire, come l’omonimo fiorentino, ma da una prospettiva diversa. Sentendolo parlare te ne accorgi: è il cugino che la sa lunga su chi comanda dove (e perché), il commerciante stufo di dover versare soldi a un’eterea entità detta Stato, il padre preoccupato di lasciar tornare la figlia adolescente sola a casa la sera. In questo senso Salvini non parla alla cosiddetta pancia del paese: in anni di incontri, fiaccolate, manifestazioni e gazebo ne è diventato parte integrante – e soprattutto credibile.
«Matteo è riuscito a slegarsi dalla vecchia guardia leghista», mi dice Alessandri, e col mantra «la Lega deve tornare a fare la Lega» ha vinto il congresso del dicembre 2013, proponendo un restauro totale del Pantheon delle camicie verdi: fuori, almeno nei titoli dei giornali, Bossi e Maroni, dentro la guerra all’euro, che il partito salviniano si è intestato (la moneta unica «è un crimine contro l’umanità», tuonava il neo segretario già a dicembre dell’anno scorso) e una battaglia di resistenza fiscale esportata oltre i sacri confini del dio Po, attraverso un partito gemello chiamato Lega dei Popoli con cui conquistare l’Italia meridionale, che quest’estate il leader padano ha percorso in un tour promozionale. E dire che è lo stesso che nel 2009 a Pontida si lanciò in un’interpretazione in favor di telecamera del più classico coro da stadio razzista riferito agli abitanti di Napoli (città dove, non per niente, lo scorso maggio un suo comizio programmato è saltato per le intemperanze di alcuni locali con la memoria lunga).
«È un momento nel quale si gioca molto sul leaderismo», continua parlando con Studio l’ex presidente federale Alessandri, «Il partito e i militanti contano poco. Salvini ha fatto una grande operazione mediatica». Che ha pagato: secondo Alessandra Ghisleri, sondaggista di Euromedia Research citata sull’ultimo numero di Panorama, per i rilevamenti del 20 ottobre scorso la fiducia personale nei confronti del segretario della Lega è salita al 20,8%. Più di quanta ne goda Beppe Grillo.
Gli strali anti-tasse, anti-immigrazione e anti-euro di Salvini raccolgono consenso e nascondono sotto il tappeto la polvere delle sue incontinenze verbali recenti (come quando ha scritto su Facebook di «stare con i poliziotti» colpevoli dell’omicidio Aldrovandi) e passate (come la celebre proposta di riservare carrozze della metropolitana ai milanesi, avanzata poco prima di diventare europarlamentare, ma la lista sarebbe davvero lunga).
Matteo Salvini è pur sempre quello che si rivolse in dialetto meneghino al Consiglio comunale durante un dibattito, e che continua a farlo nei talk show in prima serata, nonché l’istrione da paese che cerca di spostare sempre un po’ più in su l’asticella del dicibile. Padano, troppo padano, per dirla con Nietzsche, ma con un ruspante passato movimentista. Oggi è al secondo matrimonio e ha due figli. Di Bossi conserva un libro, L’Abc di fare radio, regalo ironico venuto dopo l’impasse dell’allora ragazzo nel rispondere a un’ascoltatrice critica di Radio Padania. Nel 2008, scherzando col Corriere sui suoi 12 anni da fuoricorso alla facoltà di Storia dell’Università di Milano, Salvini chiosò: «Arriverà prima la Padania libera della mia laurea». Noi, come Einstein in quel celebre e abusato aforisma, sulla prima abbiamo ancora dei dubbi.