Giacomo Amadori, Libero 30/10/2014, 30 ottobre 2014
«TROPPI GIUDICI SI SENTONO DEI DIVI». LE CONFESSIONI DELLA TOGA FRANCESCO CARINGELLA, CHE HA APPENA PUBBLICATO UN THRILLER: «PER ALCUNI L’IMPUTATO È UN NEMICO, ALTRI NON RIESCONO A GESTIRE LA PROPRIA VANITÀ». FU LUI A FIRMARE L’ARRESTO DI CRAXI: «OGGI HO QUALCHE RIMORSO»
[Intervista a Francesco Caringella] –
Oggi nelle librerie di tutta Italia esce un nuovo romanzo. «Dove è la notizia?» vi chiederete. Eccola: questo intrigante legal thriller intitolato Non sono un assassino (Newton Compton Editori) è scritto da un giudice che con gli occhi disincantati del tecnico del diritto analizza il processo penale e redige una sentenza definitiva: tale rito in Italia è fallito. E non solo per colpa dei magistrati.
L’autore si chiama Francesco Caringella, ha 49 anni, è barese ed è un membro del Consiglio di Stato. Ha vinto ogni genere di concorso (da commissario di polizia, da magistrato, da consigliere di Stato) e ha scritto manuali per insegnare ai ragazzi a emularlo. Intervistare Caringella consente di rileggere alcune pagine della nostra storia recente. A 26 anni è diventato giudice della settima sezione penale di Milano negli stessi giorni in cui esplodeva Mani pulite. Lui si insediava e il «mariuolo» Mario Chiesa veniva arrestato. Caringella a 29 anni fu il giudice estensore del mandato di cattura nei confronti di Bettino Craxi. Ed ecco la prima sorpresa. «Dopo vent’anni mi chiedo se quella decisione sia stata giusta. E ho qualche rimorso. Non intendo dire che Craxi fosse innocente. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna. Ma mi chiedo se non ci potesse essere più umanità nei confronti di un uomo sconfitto. Se il legislatore e il potere giudiziario non potessero trovare una soluzione per consentirgli di curarsi in Italia e di affrontare il processo da uomo libero. O quanto meno da uomo sano. Averlo costretto a rimare in Tunisia gli ha probabilmente accorciato la vita».
Beh, sembra l’epitaffio di Mani Pulite.
«No. L’inchiesta era sacrosanta, ma ci sono state alcune forzature. Forse i magistrati non potevano prevedere il consenso popolare che accompagnò il loro lavoro e alcuni sono stati ubriacati da quell’improvviso successo».
Ritiene che l’indagine avesse fini politici? Tre dei pm di Mani pulite sono poi diventati parlamentari o ministri, due con la sinistra e una con Forza Italia.
«Non penso. Credo che la lettura giusta sia quella psicologica. Alcuni pm si sono trovati nei panni dei divi e hanno dovuto fare i conti con la loro vanità e le loro ambizioni personali».
Lei ha conosciuto tutti i pm di Mani pulite. Da chi non avrebbe voluto essere inquisito?
«Da Antonio Di Pietro. Ho letto i suoi interrogatori e ho capito che con quel suo fare poliziesco avrebbe fatto confessare pure un innocente, persino un santo. Ma era anche simpatico. Mi ricordo che una volta si rivolse alla corte con un saluto militare, battendo i tacchi».
Nel suo libro mi ha colpito la citazione dal libro di Dante Troisi, Diario di un giudice. Leggo: «Sono la sentinella e l’aula di udienza è la torretta da cui prendo la mira per colpire chi mi capita a tiro. Proverò così il piacere nel falciare le vite delle persone senza trascurare di lasciare indenne qualcuno per goderne la meraviglia». Ha incontrato colleghi del genere?
«Per fortuna pochissimi. Forse uno solo. Era pugliese ed entrava in aula con il cipiglio di chi dovesse stanare gli ultimi giapponesi nell’arcipelago delle Okinawa. Per lui l’imputato era un nemico da sconfiggere».
Il potere che ha in mano un giudice non rischia di dare alla testa?
«Sicuramente. E per capire se i miei colleghi siano stabili psicologicamente ci sono i mesi di uditorato. Ma rarissimamente viene chiesta la decadenza di un neo magistrato. Con conseguente pregiudizio per la credibilità del sistema».
Ci sono toghe in cura psichiatrica che continuano a esercitare la propria funzione.
«Sarebbero necessari controlli periodici non solo sulla professionalità, ma anche sull’equilibrio dei magistrati».
Non svelerò il finale, ma di certo il suo giallo non fa una buona pubblicità al processo penale.
«Purtroppo la riforma del 1989 in Italia è fallita. Si pensava che grazie ai riti alternativi pochi processi sarebbero arrivati a dibattimento, snellendo i tempi della giustizia. È successo il contrario. Quasi tutti gli imputati scelgono di andare in aula e così invece di avere processi brevi con testimoni caldi, che ricordano bene i fatti su cui vengono interrogati, abbiamo processi lunghi con testimoni freddi».
Lei scrive che il «giudice conosce fatti impalliditi dal tempo nei pochi giorni d’udienza a disposizione»…
«In Italia, per un eccesso di garantismo, abbiamo un secondo grado che è la replica del primo. A cosa serve? Allunga i tempi e ribaltando le sentenze crea sconcerto nei cittadini. Siamo l’unico paese con tre gradi di giudizio e due diversi collegi che fanno lo stesso lavoro non avvicinano alla verità, ma allontanano. Dopo la condanna in appello per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, mi ha telefonato persino mia madre per chiedermene conto».
Che cosa pensa dei processi mediatici?
«Il peggio possibile. Non immagina quanto possano condizionare un magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti, esperti vari. L’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima».
Torniamo alla questione del giudizio d’appello. Quando una decisione viene ribaltata si ha la sensazione che la verità giudiziaria non esista…
«Purtroppo è così. Nel libro scrivo che tale verità è solo una bugia raccontata meglio. Forse sarebbe meglio dire che è la verità più verosimile. Duque da Rivas diceva che “in questo mondo traditore non c’è verità né menzogna. Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”».
Dunque ammette l’esistenza di una magistratura politicizzata.
«Il colore del vetro per me dipende anche da bugie, pregiudizi ed errori, non solo dalle ideologie. Mi domando sono giuste le sentenze, per parlare solo delle ultime, che hanno assassinato politicamente Silvio Berlusconi e Luigi De Magistris? Rispondo che non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Ogni giudizio è opinabile. Resta solo la speranza che sia corretto».
Nel romanzo sostiene che un processo è una specie di partita di poker in cui tutti gli attori mentono e il giudice deve saper cogliere la verità in mezzo a tanti bluff.
«È vero. Non fanno eccezione l’imputato innocente e il testimone sincero che mentono, per dirla con il libro, “perché desiderano essere creduti e pensano che la menzogna sia più seducente della verità”. La verità per essere verosimile deve essere mescolata a un po’ di menzogna».
Un giudice, in mezzo a tutti questi inganni, come si districa?
«Quando ha un dubbio non aspetta altro che essere sedotto da una bella bugia, da quella di un pm avvenente o di un avvocato particolarmente eloquente. Anche per noi è difficile resistere a un’oratoria convincente o a una bellezza sconvolgente».
Sta dicendo che in un processo conta anche l’aspetto esteriore?
«Certo. Pure i giudici sono uomini e per di più fallibili. Io nel romanzo descrivo una pm seducente e il suo profumo di sandalo».
Il personaggio è ispirato a un magistrato esistente?
«Mi ricordava una collega di Milano, ma non posso dirle altro (sorride, ndr) se non che chiedeva sempre la condanna degli imputati…».
Il lettore sarà sconcertato da questa alea nel giudizio…
«Ma io sto parlando di quei pochi processi da fascia grigia, in cui le prove non sono schiaccianti».
In questi casi come ha giudicato?
«Nel 50% ho assolto e nell’altro 50 ho condannato».
Lei scrive anche che per un innocente è meglio essere giudicati da una donna e per un colpevole da un uomo. Perché?
«Le signore in toga quando esprimo questa mia teoria si offendono. In realtà è un complimento. Le colleghe mediamente sono più preparate e puntigliose e per questo è più difficile che sbaglino. Ma quando ritengono di aver le prove della colpevolezza non fanno sconti».
La sua tesi che le donne difficilmente puniscono un innocente sembrerebbe contradetta dal processo Ruby…
«Ha ragione: in questo caso Berlusconi è stato condannato da tre donne e poi assolto in secondo grado. Ma questa potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola».
Ha mai dovuto giudicare Berlusconi?
«Una volta, anche se ho lasciato la corte prima della fine del processo. Mi ricordo che venne in aula e la sua presenza fu molto teatrale. Passò l’intera udienza a sfogliare il codice penale».
Lei è il terzo magistrato pugliese che si cimenta nel noir, dopo Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo. Tra voi chi è il più bravo come scrittore?
«Se devo scegliere uno solo, voto per me».
E come magistrato?
«Uguale, ma di questo sono più sicuro».