Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 30/10/2014, 30 ottobre 2014
TRATTATIVA STATO-MAFIA, IL PROCURATORE DI PALERMO LEONARDO AGUECI APPREZZA LA DEPOSIZIONE DI NAPOLITANO: «MA ORA PARLINO ALTRI PEZZI DI STATO». IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NELL’INTERROGATORIO: PER I DUBBI SU CAPACI LEGGETE D’AMBROSIO
Non c’erano solo i sospetti sugli «indicibili accordi» al tempo dei veleni e delle bombe di mafia, tra il 1989 e il 1993, a turbare l’ex consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio. Il mistero su quella frase resta irrisolto anche dopo la deposizione del capo dello Stato, destinatario della lettera del giugno 2012 in cui compare un riferimento al quale lo stesso presidente della Repubblica non ha saputo dare spiegazione. Tuttavia c’è almeno un altro interrogativo che ritornava spesso nei pensieri del magistrato scomparso due anni fa; ne scrisse nel libro di Maria Falcone in ricordo del fratello Giovanni, e su questo punto è tornato Napolitano nella sua testimonianza alla Corte d’assise di Palermo.
D’Ambrosio era animato da un forte «spirito di verità», ha spiegato, che lo portò a chiedersi ripetutamente — ad esempio — se qualcuno avesse avvisato gli attentatori che quello del 23 maggio 1992 sarebbe stato uno degli ultimi viaggi a Palermo utili per colpire Giovanni Falcone. Secondo D’Ambrosio, nonostante i contrasti e l’opposizione di una larga parte del Consiglio superiore della magistratura, il giudice stava per essere nominato alla guida della Superprocura antimafia. Una nomina che, insieme al trasferimento definitivo della moglie a Roma, avrebbe diradato di molto i suoi ritorni settimanali in Sicilia. «Legga lo scritto di D’Ambrosio — ha detto Napolitano al pubblico ministero che lo interrogava, riferendosi al libro di Maria Falcone — e noterà che si chiedeva se qualcuno sapesse che non sarebbe più tornato tanto spesso a Palermo».
Qualcuno di Cosa nostra avvisato dall’esterno dell’organizzazione, quasi che la strage di Capaci abbia avuto per questo un’accelerazione. Un’ipotesi, niente più, come i dubbi sull’essere stato «utile scriba» di norme antimafia per coprire accordi sotterranei, su cui Napolitano è tornato per rendere omaggio alla figura di un servitore dello Stato che molto soffrì nel vedere messa in discussione la propria lealtà.
La testimonianza del presidente è stata ritenuta utile dall’accusa soprattutto per il passaggio in cui avrebbe confermato l’impressione quasi immediata fra le più alte cariche della Repubblica, nell’estate del 1993 in cui si temettero derive golpiste, che le bombe di Milano e Roma fossero un ulteriore passaggio del ricatto mafioso alle istituzioni per ottenere un allentamento della pressione repressiva.
«Ha aggiunto una tessera che contribuisce al mosaico della trattativa», commenta Leonardo Agueci, facente funzione di capo alla Procura di Palermo, secondo il quale si poteva «sperare di avere qualche chiarimento in più» sugli «indicibili accordi» evocati da D’Ambrosio. Tuttavia la trasferta al Quirinale «è stata un passo avanti, dire che sia decisivo è esagerato. Tantissimo può ancora essere fatto da parte di tante articolazioni dello Stato, da cui ci aspettiamo di più».
Come dire che, dopo il contributo del presidente della Repubblica, gli inquirenti ne auspicano altri, soprattutto dall’interno delle istituzioni, già nelle prossime deposizioni al processo, giunto neanche a metà del suo percorso. Al contrario, gli avvocati difensori — in particolare il legale di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri, e quello del generale Mori, Basilio Milio — ribadiscono che l’audizione di Napolitano non ha portato nulla di nuovo, e confermano l’idea di una forzatura voluta dai pm.
Di certo — qualunque sia la valenza che si voglia attribuire al racconto di Napolitano — si tratta di un frammento interno a un singolo anello della catena di eventi che compongono, nella ricostruzione dell’accusa, la cosiddetta trattativa. Che è fatta di più trattative e contatti tra apparati e mafia, cominciati prima della strage di Capaci e proseguiti anche dopo le bombe del 1993.
«Siamo convinti di un quadro unitario del ricatto mafioso, e vogliamo capire se qualcuno ha ceduto — spiega il pm Nino Di Matteo —. Nel nostro lavoro rientra anche la rilettura di episodi già vagliati dai tribunali (con assoluzioni, definitive e non, ndr ) come la mancata perquisizione al covo di Riina o le mancate catture di Santapaola nel ’93 e Provenzano nel ’95. È necessaria una visione unitaria dei fatti, lo spezzettamento fa male alla verità».