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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

IL PETROLIO È AI MINIMI E ORA CHE COSTA POCO TORNA DI MODA. OFFERTA ABBONDANTE GRAZIE ALLE NUOVE TECNICHE DI ESTRAZIONE. DAGLI STATI UNITI ALL’IRAN, COSÌ IL CALO DEI PREZZI CONDIZIONA LA POLITICA


Prevedere i prezzi del petrolio è più difficile che vincere al lotto. Appena cinque mesi fa, essi conobbero un’improvvisa impennata del 12-15% in seguito alla crisi della Libia, alle sanzioni contro l’Iran, al caos della Nigeria e al deterioramento degli impianti in Venezuela. E ancora un mese fa, il Fondo Monetario Internazionale ipotizzò un ulteriore aumento del 20% se l’Isis si fosse impadronita dei grandi giacimenti iracheni, da cui arrivano tre milioni di barili al giorno. Invece, nelle ultime settimane, la situazione si è rovesciata: il prezzo di riferimento è precipitato del 25%, da 115 a 80-85 dollari al barile, e almeno per il momento sembra essersi assestato su questo livello, con immense ripercussioni economiche e geopolitiche. Sulla carta i produttori ci rimettono mille miliardi di dollari l’anno, i consumatori (tra cui l’Italia, dove peraltro i prezzi alla pompa tardano ad adeguarsi) ne risparmiano altrettanti, ma le cose non sono così lineari. Alcuni produttori possono reggere benissimo l’impatto, anche se i rispettivi bilanci ne escono temporaneamente sconvolti; altri rischiano addirittura la bancarotta, e per salvarsi saranno probabilmente costretti a modificare la loro politica estera.
Il crollo dei prezzi è dovuto a una improvvisa prevalenza dell’offerta sulla domanda. Dal lato dell’offerta, abbiamo il boom della produzione americana, aumentata di tre milioni di barili al giorno grazie alla nuova tecnica del fracking; l’inaspettato ritorno sul mercato, con quasi un milione di barili al giorno, della Libia, dove le fazioni in lotta si sono rese conto che, se non tornavano ad esportare, presto non ci sarebbero più stati soldi per nessuno; una certa stabilizzazione della situazione in Nigeria, dove nonostante Boko Haram, i pirati e l’endemica corruzione, i pozzi continuano a funzionare; l’arresto dell’avanzata dell’Isis, che non è riuscita a conquistare né i giacimenti del Kurdistan, né quelli della regione di Bassora, e comunque vende il poco greggio su cui è riuscito a mettere le mani sul mercato nero. Dal lato della domanda, hanno inciso il rallentamento dell’economia mondiale, compresa quella cinese, che ha portato a un naturale calo dei consumi; l’avvento di una nuova generazione di automobili, che «bevono» in media il 25% in meno di quelle di dieci anni fa; il crescente ricorso, soprattutto in Europa, alle energie rinnovabili. Nel complesso, il fabbisogno mondiale è diminuito di circa due milioni di barili al giorno rispetto ai 90 pre-crisi. In tempi passati, quando l’Opec faceva il bello e il brutto tempo, i signori del petrolio avrebbero concordato una riduzione della produzione per stabilizzare i prezzi. Oggi questo non è più possibile, perché i più importanti produttori, dalla Russia agli Usa, dal Messico al Canada, non fanno parte dell’organizzazione e si amministrano per conto proprio. Oltre tutto, l’Arabia Saudita, il Paese che in queste situazioni faceva da cuscinetto, arrivando a dimezzare la propria produzione per il periodo necessario a riequilibrare domanda e offerta, non ha oggi più interesse a farlo: poiché i suoi costi di estrazione sono bassissimi (circa 5 dollari al barile), più i prezzi scendono, più mette fuori mercato i Paesi dove questi arrivano a 80 dollari e scoraggia nuovi investimenti in giacimenti dove potrebbero superare anche i cento. Molti poi sospettano che ci sia un accordo segreto tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti per mettere con le spalle al muro tre avversari degli americani, Venezuela, Iran e Russia, la cui economia si regge soprattutto sulla esportazione di idrocarburi. Il Venezuela potrebbe essere la prima vittima. Sotto il governo di Chavez, ha nazionalizzato tutti gli impianti, ma poi non ha trovato i soldi per l’indispensabile rinnovamento tecnico e già oggi la sua produzione è in declino. Ma, grazie alla folle politica sociale del defunto caudillo e del suo successore Maduro, ha bisogno di un prezzo di 120 dollari al barile per fare quadrare i bilanci. Con un’inflazione del 60%, un deficit che già prima del tracollo del greggio ammontava al 17% del Pil e un ingente debito in scadenza (il rating del Venezuela è CCC+, spazzatura) , un default potrebbe essere dietro l’angolo. In ogni caso, Maduro sarà costretto a ridurre, se non a eliminare, la distribuzione semigratuita di petrolio su cui si regge Alba, l’alleanza antiamericana costituita da Chavez: questo metterebbe in crisi Cuba, Nicaragua, Giamaica e altri Paesi dei Caraibi e potrebbe perfino portare alla caduta del già traballante regime dei Castro.
Più complessa è la situazione dell’Iran: il regime degli ayatollah è già stato fortemente penalizzato dalle sanzioni occidentali, che lo hanno obbligato a vendere il suo petrolio – spesso a prezzi inferiori a quelli di mercato – solo ai Paesi che non vi hanno aderito, come la Cina e la Corea del Nord. Inoltre, Teheran è ancora più dipendente del Venezuela dalla rendita petrolifera, nel senso che riuscirebbe a fare fronte a tutti i suoi impegni solo se il prezzo del greggio fosse di 140$ al barile. Molto cambierebbe, naturalmente, se cessassero le sanzioni: pertanto, la speranza è che la crisi petrolifera costringa Teheran a venire a patti con l’Occidente e a fare sufficienti concessioni nei negoziati per l’arresto della sua corsa all’arma atomica, che dovrebbero concludersi entro il 24 novembre. Sarebbe un grosso passo avanti per la stabilità del Medio Oriente. Anche per la Russia, che per fare quadrare i conti ha bisogno di un prezzo intorno ai 100$ a barile, la svolta negativa del mercato è una pessima notizia, ma fino adesso non sembra avere ammorbidito le posizioni di Putin. Una delle ragioni è che non solo il Cremlino ha accumulato negli anni delle vacche grasse consistenti riserve, ma, poiché vende i suoi idrocarburi in dollari, è stato aiutato anche dalla svalutazione del rublo. Gli esperti calcolano che Mosca è in grado di far fronte ai prezzi attuali per un paio d’anni, ma altri obbiettano che, con l’economia già vicina alla recessione, queste previsioni sono troppo ottimistiche.
Per quel che riguarda noi, e molti altri Paesi importatori, possiamo solo sperare che l’attuale tendenza duri. Con i prezzi attuali, l’intera economia mondiale dovrebbe ricevere una spinta, con un aumento potenziale del prodotto lordo globale dello 0,5% nel 2015. È davvero il caso di tenere le dita incrociate.