Marco Imarisio, Corriere della Sera - La Lettura 26/10/2014, 26 ottobre 2014
OTTO SPARI DIMENTICATI
L’urlo del matto è nascosto in un angolo del parco. Non c’è una scritta, non c’è una targa. Ci sono solo queste sei sagome di metallo piantate nella sabbia che dovrebbero riprodurre il profilo di un uomo che forse grida, forse ha la bocca aperta.
Alle nove del mattino del 2 novembre 2004 il regista Theo van Gogh imboccò Linnaeusstraat con la sua bicicletta. Lo aspettavano alla sede della Column Film, una villetta nella zona ovest di Amsterdam. Quel giorno avrebbe dovuto completare il montaggio di 06 05 , il suo ultimo film dedicato a Pim Fortuyn, il leader nazionalista olandese ucciso il 6 maggio 2002, del quale era stato amico e soprattutto ammiratore. Appena lo vide, Mohammed Bouyeri, olandese di seconda generazione, gli sparò addosso otto colpi di pistola. La vittima cadde sulla pista ciclabile davanti a uno snack bar che si chiamava Fata Morgana. «Pietà, non credi che possiamo parlarne?». L’assassino gli tagliò la gola e cercò di decapitarlo. Poi lo pugnalò al petto con un taglierino sul quale era appesa una lettera di minacce all’Occidente, agli ebrei, ad Ayaan Hirsi Ali, la deputata di origine somala sceneggiatrice di Submission , un cortometraggio diretto da van Gogh che criticava il trattamento delle donne nelle società islamiche.
La strada non è cambiata da allora. Il Manor Hotel, dove van Gogh consumava abbondanti libagioni, è ancora l’edificio più vistoso. Dall’altra parte resiste Fata Morgana. Nessuna traccia dell’omicidio che venne definito come l’«11 settembre olandese». Nel 2007, tre anni dopo, fu installata all’interno dell’Oosterpark, a un isolato di distanza, questa statua che solo con uno sforzo di fantasia può suscitare il ricordo di quel che accadde. Gli abitanti di Linnaeusstraat ottennero dalle autorità che non venisse posta nessuna targa o stele commemorativa sulla via. È un quartiere misto, scrissero in una lettera al sindaco di Amsterdam, non vogliamo urtare alcuna suscettibilità. Racconta l’attore Hans Leewen che dopo l’inaugurazione di quella specie di monumento il governo depose la vera lapide, introducendo per la prima volta il reato di blasfemia. Per quelli come lui, sodali di van Gogh e delle sue iniziative per la libertà d’espressione, il messaggio era chiaro. Ci saranno anche problemi con l’islam, ma non bisogna andarseli a cercare.
«Un Paese con migliaia di pensieri diversi/ Un Paese pieno di tolleranza/ Quindici milioni di persone insieme su una piccola terra piatta/ Dove nessuno ti dirà mai cosa fare». Nel 1995 Postbank commissionò una pubblicità televisiva mirata a mostrare l’amore dell’istituto per i suoi connazionali e correntisti. 15 Miljoen mensen , la canzone che accompagnava le immagini, ottenne un successo inspiegabile. Divenne la carta di identità di una nazione. Gli olandesi si vedevano così. In quel fine secolo il poldermodel veniva studiato e riverito ovunque per la sua misteriosa capacità di dare a tutti un tetto e un’accoglienza degna di questo nome.
Amsterdam non è poi così grande. I suoi abitanti equivalgono alla popolazione di un singolo quartiere di Mumbai o Shanghai. Ma per la piccola Europa ha avuto sempre un significato particolare. Era una parte per il tutto che, attingendo al Secolo d’oro, alla tradizione dei grandi viaggi, aveva saputo mescolare tolleranza e libertà individuali. Nella società moderna il combinato disposto di queste virtù si traduceva in una sola parola. «A partire dal 1980 il multiculturalismo è diventato la nuova incarnazione della formula magica che gli olandesi hanno inventato nel XVII secolo», dice a «la Lettura» Paul Scheffer, professore universitario e nume tutelare del Partito laburista olandese che pubblicò nel 2000 un saggio dal titolo eloquente, Il disastro multiculturale .
I vent’anni abbondanti di melting pot poco temperato non avevano fatto crescere una nuova società olandese arricchita dalla linfa vitale proveniente dagli immigrati. Al suo posto era nata una sottoclasse di immigrati che stava diventando un peso economico, con poca coscienza dei valori della società che li stava aiutando e talvolta una aperta ostilità nei loro confronti. Il multiculturalismo stava fallendo per la sua semplice ragion d’essere, la pretesa uguaglianza e la conseguente parità di trattamento di tutte le culture. Quasi un errore di sistema.
Alle 8 di un sabato sera d’ottobre Spuistraat è ancora il biglietto da visita della Amsterdam da immaginario collettivo. Le case occupate e i loro murales si alternano a ristoranti di gran nome. I turisti fotografano gli squatter vestiti di nero come fossero reperti di una diversità conclamata e impossibile da riprodurre a casa propria. Dopo le minacce ricevute per Submission , Theo van Gogh aveva definito se stesso come il matto del villaggio al quale nessuno oserà fare del male. Lungi dall’essere un folle, il regista olandese era piuttosto un prodotto di quella cultura libertaria che nel Settecento pubblicava i Molière e gli Swift proibiti a casa loro e oggi si offre come una reliquia nelle strade del centro cittadino. Anche Bouyeri non era un corpo estraneo. «Quel ragazzo viveva con il sussidio di disoccupazione pagato anche da me», disse la madre di Theo, che da giovane insegnava inglese ai migranti marocchini.
La morte di van Gogh non segna la fine del multiculturalismo, ma è semmai la conseguenza del fallimento di quel modello sociale. La perdita dell’innocenza olandese risale a ben prima dell’11 settembre 2001. La notte del 4 ottobre 1992 un cargo in avaria della compagnia aerea El Al si schiantò contro i palazzi del sobborgo di Bimre, abitati da immigrati illegali. Il governo promise l’immediato permesso di soggiorno a tutti coloro che vivevano negli appartamenti distrutti. Il giorno seguente gli uffici della polizia furono presi d’assalto da quattromila persone. Gli scontri durarono giorni. La stampa rivelò ben presto che molti erano arrivati da Parigi o Berlino per afferrare l’occasione di una vita.
All’improvviso l’Olanda scoprì pregiudizi fino a quel momento occultati sotto l’orgoglio di se stessa. I migranti potevano assumere l’aspetto di una minaccia al benessere diffuso. A mettere il concetto nero su bianco, in un libello uscito due mesi dopo la tragedia di Bimre, fu un oscuro assessore comunale di Rotterdam, ex comunista e socialdemocratico, omosessuale dichiarato. Si chiamava Pim Fortuyn. Sosteneva che l’islam fosse una religione troppo arretrata per una società avanzata come quella olandese. Nelle sue parole prevaleva il rimpianto per un paradiso ormai perduto come quello di 15 Miljoen mensen , che non a caso divenne la colonna sonora dei suoi comizi. Pochi ricordano che al momento della morte (fu ucciso da un matto animalista) i sondaggi lo davano vincitore assoluto delle imminenti elezioni generali.
Il suo destino postumo è legato a quello di Theo van Gogh. Entrambi liquidati alla voce onderbuikgevoelens , termine quasi intraducibile che indica chi gioca con gli istinti primari della gente. Geert Mak, il più progressista degli storici olandesi, riconosce che l’Olanda reagì male a un’ondata senza precedenti di panico morale: «Negli anni Novanta — sostiene con “la Lettura” — il discorso pubblico girava intorno alla tolleranza. Tutto a un tratto ci trovammo catapultati in un’epoca dove chi usava quella parola veniva etichettato a scelta come multiculturalista o traditore». Pochi giorni dopo l’uccisione del regista, Job Cohen, il potente sindaco di Amsterdam, trascorse un pomeriggio intero a discutere bevendo tè con esponenti anche radicali della comunità musulmana. Geert Wilders, il politico più lesto a raccogliere quanto seminato da Fortuyn, ebbe gioco facile a indicarlo come simbolo di un Occidente debole e colluso. Ahmed Marouch, oggi parlamentare laburista, partecipò a quelle riunioni in quanto portavoce delle moschee marocchine. «Ci fu un’ipocrisia consapevole da entrambe le parti. Noi dicemmo che l’omicidio non poteva in alcun modo essere considerato un atto religioso legato all’islam. Ma sapevamo bene che per Bouyeri lo era, assolutamente».
I contestatori degli anni Sessanta sono stati assorbiti dal sistema, che in cambio adottò le loro idee libertarie. James Kennedy, professore americano di storia dei Paesi Bassi, celebre per i suoi saggi sulla cultura alternativa di quel periodo, dice che oggi sta succedendo la stessa cosa, ma all’incontrario. Dall’apertura alla chiusura. Le ultime due legislature si reggono sul patto non dichiarato con il Partito della Libertà creato da Wilders, un cambio merce tra appoggio esterno e un’agenda costruita sulle sue parole d’ordine.
Le idee xenofobe di Wilders entrano in circolo nella società attraverso una sorta di silenzio-assenso della politica, senza una vera discussione. Scheffer ammette che il multiculturalismo olandese rischia di finire quasi di nascosto, con un’eutanasia non dichiarata. «Nella nostra storia — spiega — l’immigrazione ha sempre generato scontri. Oggi nessuno può permettersi questo lusso. Il multiculturalismo rimane un tabù, ma si tratta di una discussione inevitabile, che prima o poi andrà affrontata a viso aperto. In Olanda, in Italia, in Europa».
Alla fine anche Osdorp è diventata olandese. Il viaggio termina qui, al numero 27 di Philipstraat. Davanti alla casa dove abitò Mohammed Bouyeri, il ragazzo che collezionava video delle decapitazioni fatte da Al Zarqawi in Iraq. Oggi è diventata una villetta in mattoni rossi, simile a quella dove viveva il borghese Theo van Gogh. Sui marciapiedi due file di alberi ben curati sono la testimonianza del cambiamento. Osdorp distava solo otto fermate di tram dalla stazione centrale, dove comincia la città-vetrina dei turisti. Nel 2009 il governo olandese ha varato una legge sul decoro urbano che destina centinaia di milioni alla riqualificazione dei sobborghi di Amsterdam. I quartieri dalle mille parabole rivolte verso Marocco e Libia, dove ribolle l’islam radicale, hanno solo cambiato indirizzo. Adesso sono davvero periferia, quasi invisibili oltre l’anello della tangenziale che circonda la città. Li hanno nascosti bene. Come quella statua nel parco.