Vittorio Veltroni, Prima Comunicazione 10/2014, 29 ottobre 2014
INTERNET NON HA BISOGNO DELLA CARTA
Come Bertolt Brecht, prediligo i Paesi senza eroi, quelli in cui il sistema funziona per responsabilità diffusa e non esiste bisogno costante di campioni e campioncini che si ergano a difensori della cosa comune. Internet per me non ha bisogno di protettori o legittime autorità; è uno strumento economico, complesso per via del carattere tecnologico ma, come un cacciavite o un tornio, non è “una risorsa globale e che risponde al criterio della universalità”, tanto è vero che universale non è.
Per usare Internet l’individuo deve avere un tasso minimo di scolarità, di comprensione della complessità, di capacità di formulare un piano di azione, di scegliere gli strumenti giusti per compierlo e di dotazione economica, soprattutto nella sua giovane età. Altrimenti si guarda Facebook come si guardava prima Raiuno, e non sarà certo il fatto che si è sostituita la sim all’antenna, lo smartphone al Brionvega, che cambierà il tasso d’intelligenza del Paese e della sua struttura economica.
La Rete non è un bene pubblico; nella maggior parte dei casi è stata costruita da privati (sia nell’hardware sia nel software) e ha un dichiarato scopo di lucro che si concretizza nel fatto che l’accesso non è né gratuito né universale e meno che mai standard, visto che diverse reti offrono diversa qualità. Le piattaforme di servizio (la mail, il social, la search, gli scambi pubblicitari, eccetera) sono state disegnate con grande consumo di intelligenza e di capitali e creatori e proprietari si aspettano un ritorno. Il modello di business scelto tanti anni fa (contenuti e servizi gratis) ha favorito la diffusione di Internet e ha necessariamente costretto i proprietari di queste piattaforme a cercare modi alternativi di costruire questi ritorni, modi che fanno leva sulla conoscenza del cliente e sulla capacità di estrapolare da questa capacità vantaggi competitivi nella vendita o nella comunicazione pubblicitaria. Limitare questi vantaggi senza pensare che su questo modello si basa la sostenibilità economica della Rete intera è, allo stesso tempo, naïve e pretestuoso.
La ‘Dichiarazione dei diritti in Internet’ e, più in generale, il proliferare di agende e agendine, diari e astucci digitali, rimanda e offusca la contraddizione principale di questa epoca: la conoscenza e la capacità tecnologica sono sempre state proprietà di élite costose da costruire e mantenere, ma la moderna vita sociale ed economica richiede – non per eccellere, semplicemente per partecipare – una diffusione di massa di queste competenze e di queste attitudini psicologiche. Un pacchetto base di cittadinanza più complesso e costoso di quello che esisteva prima, essenziale per avere la possibilità di comprendere il tempo in cui si vive e sviluppare pienamente la propria azione e la propria identità in una società e in una vita economica che offrono sempre meno alternative a chi di questo pacchetto è sprovvisto. Un’accelerazione brutale di complessità che è avvenuta in un momento in cui lo Stato ha difficoltà a comprendere come offrire questo pacchetto e, soprattutto, come pagarlo essendo strozzato tra deficit, politiche di bilancio e il supporto di generazioni anziane che di queste competenze proprio non hanno voglia di saperne e che, conseguentemente, sono sempre più fuori dalla vita economica globale.
Stretta tra risorse scarse, vittima della propria arretratezza intellettuale, desiderosa di sembrare sul pezzo, l’azione politica si consuma in un’apparenza di estremo impegno condita da dichiarazioni di principio, discussioni su srl speciali, server e protocolli di trasmissione, firewall e motori di ricerca, pr per comparti industriali che nella migliore delle ipotesi possono assorbire il 2% della popolazione (le startup). Combinando questioni costituzionali con estremi tecnicismi, la classe politica vuole dare l’immagine di affrontare il problema, di essere tecnicamente competente mentre, allo stesso tempo, rafforza l’aspetto iniziatico del processo di digitalizzazione, ne innalza un feticcio pseudo tecnologico che rimuove dalla percezione di molti l’effettivo peso di questa contraddizione sulla realtà quotidiana.
Dalla politica, invece, servirebbe un lavoro concreto e incessante per favorire la distribuzione larga e senza discriminazioni delle precondizioni alla modernità (della vita economica, dell’identità personale, della felicità) piuttosto che un formalismo lessicalmente ipertrofico che nasconde impotenza. Se affrontiamo la questione senza ipocrisie, invece di spendere 500 milioni per finanziare autorità ad hoc, invece di finanziare startup più o meno esoteriche, lo Stato potrebbe usare quei soldi per mandare cento programmatori in cento scuole e insegnare a centomila studenti i linguaggi base della programmazione, rendendoli capaci di usare il digitale piuttosto che subirlo. Lo Stato dovrebbe regolare le discipline contrattuali in maniera semplice, intelligibile e stabile; offrire universalmente il set di competenze e la formazione (anche psicologica) che permette uno svolgimento attivo e conscio della nostra vita in questo nuovo paradigma, redistribuire le risorse per assicurarsi che tutti possano (se vogliono) accedere pienamente alla vita economica e controbilanciare la naturale tendenza di Internet a costruire monopoli di piattaforma (non c’è traccia di questo in nessuna agenda o dichiarazione).