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 2014  ottobre 26 Domenica calendario

IL PRESIDENTE RIFORMISTA ROHANI MAGLIA NERA PER I DIRITTI UMANI

Il rohanometro sta andando in tilt. Poco più di un anno fa quando l’Institute for Global Studies dell’università di Toronto lanciò il misuratore online delle 46 promesse del neopresidente iraniano Rohani molti vagheggiarono il bis della stagione riformista di Khatami. Invece, al di là del vago annuncio di un’imminente Carta dei diritti e dei tweet contro la censura del web, il successore di Ahmadinejad pare distante dalle aspettative generate. L’incandescente vulcano mediorientale ha spinto Teheran sulla ribalta geopolitica internazionale ma la vita e la morte dei suoi figli restano dettagli insignificanti accantonati dietro le quinte.
Secondo il Centro di documentazione diritti umani dell’Iran quella di Reyhaneh Jabbari è la 382esima esecuzione dal voto che l’estate scorsa ha portato al potere Rohani (almeno 500 nel 2013, Amnesty ne conta 353). Peggio ha fatto solo la Cina, aggiunge Amnesty International precisando che data la segretezza di molte condanne (la pena capitale è prevista per omicidio, adulterio, stupro, droga, blasfemia, sodomia, corruzione e altri reati) la cifra potrebbe essere maggiore.
Di certo ci sono i volti e le storie che Internet ci aiuta a conoscere ma altrettanto facilmente a dimenticare. C’è Reyhaneh, che l’indignazione globale non è riuscita a salvare, ma c’è anche Ghoncheh Ghavami, la 25enne giurista anglo-iraniana rinchiusa da giugno nella temibile prigione di Evin perché voleva assistere a una partita di pallavolo maschile (è in sciopero della fame). Ci sono i sei ragazzi condannati un paio di settimane fa a 6 mesi di carcere e 91 frustate per un video su YouTube in cui ballavano sui tetti di Teheran al ritmo dell’hit di Pharrel Williams «Happy». C’è il fisico 32enne Omid Kokabee, impiegato all’università del Texas e arrestato nel 2011 durante le vacanze in Iran con l’accusa di «collaborare con un governo ostile» (è tuttora in cella). C’è il corrispondente del «Washington Post» Jason Rezaian in carcere dal 22 luglio senza che Teheran ne abbia rivelato il motivo. C’è il 28enne attivista e filosofo Arash Sadeghi che dal 2009 entra e esce da Evian (è dentro dal 6 settembre). C’è Saeed Shirzad, rinchiuso a Evin da 4 mesi per aver collaborato con il delegato Onu per i diritti umani in Iran. E c’è l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh, vincitrice del Sakarov 2012, detenuta dal 2010 al 2013 e graziata al prezzo dell’interdizione dal lavoro per 3 anni.
Ci sono poi quelli che non ci sono più. Il 34enne poeta e insegnante arabo-iraniano Hashem Shaabani Nejad, giustiziato a febbraio dopo essere stato condannato nel 2012 per rime considerate «guerra contro Dio». Il 37 psicoterapeuta Moshen Amir-Aslani impiccato settimane fa per eresia dopo 9 anni di prigione. La lista è senza fine se gli osservatori internazionali (da Amnesty all’Onu a Hrw a Iran Human Rights a Nessuno Tocchi Caino) concordano nell’assegnare a Rohani un record peggiore di qualsiasi aspettativa: almeno 300 esecuzioni nel 2014 (147 da gennaio a giugno secondo le fonti ufficiali); 900 prigionieri politici tra cui i leaders della protesta del 2009 Mosavi e Keroubi, 32 giornalisti e 179 membri della minoranza religiosa baha’i; la doccia fredda somministrata agli internauti con gli 8 utenti di Facebook condannati a maggio a pene tra 7 e 20 anni di carcere.
«Rohani non ha il completo controllo sulla censura in Rete» nota l’esperto di cybersicurezza Collin Anderson. E sul resto? ci si chiede, se la Nobel Shirin Ebadi rileva che «quasi tutti gli attivisti dell’opposizione arrestati prima dell’elezione di Rohani sono ancora in cella». Il presidente parla al mondo con charme ma tra le righe ha sempre escluso riforme repentine. Quanto è possibile aspettare in nome dell’aiuto iraniano in Siria e Iraq? Per Reyhaneh e molti altri il tempo è già scaduto.