Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

DRAHI METTE IN RIGA ‘LIBÉRATION’


Novantatré posti di lavoro su 250 verranno soppressi a Libération e la redazione passerà da 180 a 130 giornalisti. L’8 settembre scorso il direttore generale, Pierre Fraidenraich aveva scelto le colonne del concorrente Le Figaro per denunciare “la scarsa produttività di troppi redattori”, e una settimana dopo il piano presentato dalla direzione è stato coerente con questa dichiarazione. Molti dipendenti di Libé avevano preferito credere che la ricapitalizzazione effettuata dal miliardario israelo-svizzero Patrick Drahi, azionista dell’Internet provider Numericable e della compagnia telefonica Sfr, fosse una scelta di mecenatismo. “Drahi è intervenuto perché il presidente Hollande gliel’ha chiesto in cambio della benevolenza del governo verso l’acquisizione della attività telefoniche di Sfr, dossier nel quale Drahi era in concorrenza col potentissimo gruppo Bouygues, proprietario della prima rete televisiva Tf1”, si sentiva dire. “Per lui 18 milioni non sono una gran cifra. Lascerà in pace la redazione”. Ma, come il gruppo Dassault nei confronti del Figaro e il trio Niel-Bergé-Pigasse nei confronti di Le Monde, Drahi non si è accontentato di fare il mecenate. Ha immediatamente preteso che i conti di Libération tornassero in ordine. Anche perché la situazione è pesante: si parla di una perdita di esercizio di 22mila euro al giorno, 10 milioni per tutto il 2014, a cui ne andranno aggiunti 10 per finanziare la ristrutturazione. I 18 milioni investiti da Drahi rischiano di non essere sufficienti già quest’anno!
La nuova proprietà del giornale punta sul fatto che 34 giornalisti hanno più di 59 anni e offre a chi si dimetterà volontariamente un bonus di 12mila euro, che si aggiunge alla buone condizioni finanziarie già previste dal contratto. Ma solo fino al 30 novembre. Dopo scatteranno i licenziamenti, e non solo quelli. Tutti i dipendenti dovranno infatti sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro che prevede tra l’altro la rinuncia a nove giorni di ferie (su nove settimane) e una strana clausola che vieta loro di denigrare pubblicamente azionisti e direzione, pena il licenziamento. I giornalisti si impegneranno a lavorare senza aumenti di compenso sia per il quotidiano e i suoi supplementi, sia per il web, per la sezione video del sito, per la radio che è in progetto e pure per i forum che verranno organizzati in giro per la Francia. La riduzione prevista della massa salariale è di 8 milioni all’anno, a cui si aggiungeranno i risparmi sull’affitto dei locali. Il giornale infatti traslocherà in periferia, il che permetterà di dimezzare il prezzo dell’affitto.
Naturalmente il piano presentato dal direttivo, del quale fa parte il nuovo direttore della redazione Laurent Joffrin, che tanto nuovo non è visto che questa è la terza volta che ricopre l’incarico a Libé, comporta anche una parte relativa all’inevitabile “rilancio del prodotto editoriale”. Con una parola d’ordine, ‘digital first’, che è stata adottata dal Figaro e da Le Monde ormai da alcuni anni, e una ridefinizione dei territori anch’essa ormai evidente e scontata per chi lavora nei quotidiani: il prodotto cartaceo subirà un ridimensionamento, tanto nella foliazione quanto nelle notizie dove non si tenderà più all’esaustività. Ma del resto chi ancora la pretende?
Libération è stata per anni all’avanguardia nella stampa quotidiana, nella forma e nella sostanza. Nell’epoca del suo declino sembra tristemente seguire le orme dei suoi concorrenti, che pure non si può dire siano coronate da indiscutibili successi.

Pubblicità: Internet superstar
Non c’è aumento degli investimenti pubblicitari senza ripresa della crescita economica. È quanto confermano i dati resi noti il 26 settembre scorso dall’Irep, l’organismo interprofessionale che misura l’andamento degli investimenti netti nei media. Nel primo semestre i dati registrano un calo complessivo dell’l,5%, che dovrebbe diventare un buon -2% nell’intero 2014. I volumi sono stabili e il consumatore non ha quindi la sensazione che la pressione pubblicitaria diminuisca, ma la deflazione è là, e lo squilibrio persistente tra offerta e domanda, ormai cronico da quando Internet è il media preferito dai pubblicitari, continua a pesare negativamente sui prezzi. La sorpresa di questo primo semestre è la crescita degli investimenti nelle affissioni, praticamente esenti dalla concorrenza digitale, che rappresentano oltre 1’11% della spesa pubblicitaria. È ormai più di quanto pesino i quotidiani, in caduta di circa 1’8% e addirittura del 12% nel settore dei gratuiti. I ricavi pubblicitari di tutta la stampa dovrebbero chiudere il 2014 a 2 miliardi e mezzo, più o meno l’ammontare degli investimenti nel digitale. Certo, esistono anche i ricavi dei siti Internet di quotidiani e periodici, ma restano poca cosa davanti ai fatturati di giganti come Google o Facebook. E il loro aumento è lungi dal compensare la riduzione degli investimenti sulla carta. Non tutto però è in aumento su Internet: vanno forte gli investimenti sul video (+30%) e sul mobile (+60%), mentre diminuisce il display tradizionale sui computer. Ciò non impedirà al digitale di superare la stampa come quota di mercato nel 2015 e di superare anche la tivù nel 2016 o al massimo nel 2017. Il piccolo schermo si difende meglio della stampa – è previsto a -2% nel 2014, così come la radio – ma non riesce a tornare a crescere, nonostante la moltiplicazione delle reti. E la diversificazione della tivù su Internet francamente non si sta rivelando un successo.