Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 26 Domenica calendario

MANLIO CANCOGNI:

Invidiabile. Davvero invidiabile l’esistenza di Manlio Cancogni. Novantotto anni compiuti: «A questo punto vorrei fare l’en plein. Arrivare ai cento», dice tra lo scherzoso e il serio. Vado a trovarlo a Fiumetto, non distante da Viareggio. Mi accompagna Simone Caltabellota: scrittore innamorato dello scrittore Cancogni. Sta pubblicando per Elliot quasi tutti i suoi libri. Romanzi, soprattutto. Segnati dall’amicizia, o dal bisogno di ripercorrere personaggi famosi.
Rileggerli alla luce della loro e della nostra inquietudine.
La casa, molto semplice, nella quale vive con Rori, la moglie, anche lei novantenne, non mi sembra un granché cambiata. Ritrovo gli stessi arredi, gli stessi quadri, la stessa poltrona nella quale siede, dell’ultima volta, quasi dieci anni fa, in cui c’eravamo visti. «Sono solo più vecchio e meno depresso», dice abbracciando una borsa d’acqua calda in una fine mattinata che inviterebbe a stare fuori, tanto è bella e tiepida.
Esce mai di casa?
«No, il mio mondo è tra questi muri: la poltrona su cui siedo, il tinello dove mangio, il letto in cui dormo. La vita si allunga e gli spazi si restringono».
Non si sente recluso?
«Tutto sommato è un vita ancora gradevole, lenta nei movimenti e con il tempo che stranamente se ne va in fretta. Mi farebbe più fatica uscire. E poi amo questa casa. Anche Fiumetto amo. Tanto quanto ho detestato Roma».
C’è vissuto quando?
«Dal 1917 al 1940. Roma è una città bellissima che odiavo profondamente. Odiavo la squadra di calcio, le facce indolenti dei romani, la storia antica, la retorica delle rovine. Odiavo i musei e le gallerie, i caffè e i ristoranti. Parteggiavo per Pirro e Annibale. Sognavo Vercingetorige. Mi auguravo nuove invasioni barbariche. Ero per New York. O al massimo per Milano. Ho cominciato ad affezionarmi a Roma da lontano, durante i miei anni americani».
A parte odiare cosa faceva a Roma?
«Da giovane studiavo. Ero un perfetto buono a nulla. Con inclinazioni letterarie, certo. Che i miei contrastavano. Mi iscrissi a legge. Detestavo gli azzeccagarbugli e i magistrati. Che carriera avrei potuto fare?».
E al dunque?
«Mio padre mi obbligò a fare un concorso per il ministero dell’educazione. Finii lì, per qualche tempo, come impiegato. Era un luogo di imboscati. Strinsi amicizia con un collega: Vasco Pratolini. Vedevo ogni tanto Cesare Brandi e Antonio Giolitti».
E cosa faceva?
«Nulla. A un certo punto un funzionario mi passò delle lettere del 1935. Erano trascorsi degli anni. Mi dissi: che senso ha rispondere oggi? Pensai che potevano attendere ancora. E richiusi il fascicolo. Lavoravo, si fa per dire, al-la divisione Belle arti. Uno dei passatempi preferiti era riprodurre, con Pratolini, i versi della fattoria degli animali. Muggivamo, abbaiavamo, ragliavamo».
Disperati?
«Insensati. Il grado di alienazione era preoccupante. Il fascismo era preoccupante. Anche se culturalmente non è stato così male».
Nel senso?
«La cultura è la cosa migliore che il fascismo abbia prodotto».
Anche le leggi razziali erano cultura?
«Le dico questo: avevo sei anni quando assistetti a uno scampo della marcia su Roma. E fu allora che cominciai a detestare i fascisti. Erano il peggio. Arroganti, violenti, illiberali, retorici, pericolosi. Con un diritto che faceva schifo e delle leggi omicide. Non lo discuto. Ma sul piano culturale ha prodotto cose che sono sopravvissute: architettura, arte, cinema, editoria, musica. Molto di quello che conosco, delle mie ambizioni letterarie, è nato in quel clima».
Cosa voleva fare nella vita?
«La cosa più vaga e ridicola: occuparmi di letteratura. I miei mi trattavano come fossi un analfabeta. Ricordo le risate e lo scherno di mia madre. Quanto li ho odiati. Poi inaspettatamente vinsi il concorso per insegnare ai licei».
Si mise alla prova.
«Andai a Sarzana. Era metà ottobre del 1940. A gennaio del 1941 venni richiamato per la guerra. Disperato e sgomento partii per l’Albania. Non volevo morire. Non volevo combattere. E poi per chi: per il fascismo? No. Non volevo. Però è strano».
Cosa?
«Una notte ebbi una incredibile trasformazione. Sentii la felicità di essere al fronte. Durò solo tre giorni quello stato di euforia. Ripiombai nello sconforto».
Combatteva, rischiava, cosa faceva?
«Vivevo l’incubo della guerra di posizione. Eravamo un cuneo umano circondato dai greci. Dormivamo di giorno e stavamo svegli la notte. Non ho visto morire nessuno. Solo, da lontano, una lunga linea di croci del cimitero. Trascorsero due mesi. Poi fui preda di una febbre insidiosa, il medico diagnosticò una pleurite. Dentro di me esultavo. Mi rimpatriarono. Tornai a insegnare a Sarzana. Arrivò l’8 settembre».
Arrivò per molti.
«Scappai da Sarzana. Mi nascosi a Firenze. Passai un anno strano. Perfino bello. Scrissi un lungo racconto: Azorin e Mirò. Cominciò così una nuova vita».
Che divise tra narrativa e giornalismo.
«Non mi aspettavo grandi cose».
Perché?
«Non avevo ambizione e neppure molta stima di me. Stranamente ero adorato da Arrigo Benedetti».
L’aveva assunta all’Espresso?
«Sì, ma il nostro rapporto risaliva agli anni dell’ Europeo. Poi, il caso volle che finissi a occuparmi del processo all’Immobiliare».
Cos’era?
«Una società a catena che si occupava di speculazioni edilizie. Benedetti mi chiese di occuparmi del sindaco di Roma di allora. Rebecchini, si chiamava. Sempre sorridente. Pensai: sarebbe bello capire cosa c’è dietro quel sorriso. L’inchiesta nacque così. Scoprimmo gli altarini: la corruzione, le tangenti, la connivenza del potere politico con il malaffare. Era il 1956. Mi ero trasformato, con successo, in un giornalista di denuncia».
È passato per diverse testate giornalistiche. L’ultima, un po’ sorprendentemente, la collaborazione all’Osservatore Romano.
«Sull’Osservatore ho scritto gli articoli migliori».
È un’affermazione singolare per uno che veniva dal mondo laico di Benedetti e poi di Montanelli.
«Ma cosa vuol dire laico? È solo un’etichetta. Sono convinto che senza un apporto dell’aldilà non andiamo da nessuna parte».
È la rivendicazione di una fede?
«La fede non si rivendica, si testimonia, semmai. Sono cresciuto in una famiglia cattolica. Non ho avuto un rapporto facile con la religione. Mia madre se ne serviva per terrorizzarmi. Ogni volta che andavo a confessarmi era una sofferenza enorme. A vent’anni ero un ateo convinto. Poi a poco a poco mi sono riavvicinato al cattolicesimo. Non ero praticante. Diciamo che il rapporto con la fede si è rafforzato dopo la scomparsa di mia figlia».
Quando è accaduto?
«Nel 1993. Ho reagito cercando un senso nel dolore».
L’ha trovato?
«Non con la ragione. Per me è stato come chiudermi certe porte alla spalle».
Ha lasciato aperta quella della letteratura.
«È vero, anche se non ho mai capito bene che razza di scrittore io sia».
Dubbi?
«Chi non ne avrebbe. Posso sempre scaricare la colpa su Cassola. Fu lui che mi ha spinto a scrivere. Il nostro fu un rapporto curioso».
«Era fondato su certe affinità. Ma penso che l’amicizia sia un’altra cosa. Si basa sulla diversità dei caratteri. Noi evitammo a lungo i motivi di conflitto. Poi tutto finì. Mi scocciai per tutte le volte in cui, citandomi nei suoi articoli, diceva: il mio ex amico».
Cos’era accaduto?
«Era di un fanatismo a tratti persecutorio. Se si metteva in testa che una persona non rientrava nei suoi schemi mentali, diventava un martello. Mi accadde di dirgli che sarei andato di nuovo a vivere negli Stati Uniti. Mi scrisse una letteraccia piena di insulti. Decisi di troncare. Non risposi. Partii».
«Per lavoro, certo. Vi giunsi la prima volta dopo i cinquant’anni. Era il 1967. Andai a vivere a Milwaukee, nel Wisconsin. Dove era nato mio nipote. Uscii dalla stazione ferroviaria e chiesi al taxi di portarmi nel migliore albergo della città. Fece il giro dell’isolato e mi lasciò giusto sul marciapiede di fronte dove mi aveva raccolto. Neanche un tassista di Napoli avrebbe preso quella corsa».
Cosa ha fatto in seguito?
«Lavoravo per il Corriere della Sera, quando ricevetti l’offerta dalla Rizzoli di dirigere La fiera letteraria. Per me fu un modo di rientrare nel circuito della letteratura. Anche se devo dire, all’inizio, fummo guardati con molta diffidenza ».
Perché?
«Per il conformismo culturale. Il mondo era diviso tra einaudiani, mondadoriani, feltrinelliani. La Rizzoli era considerata troppo “pop” o troppo “cheap” faccia lei. Presi il meglio che il mercato culturale offriva in quel momento: Piovene, Zampa, Fedele D’Amico, Brandi, Pampaloni, Garboli, Fornari per la psicoanalisi e Preti per la filosofia. E partimmo. Sulla Fiera firmavo i miei articoli con un paio di pseudonimi».
E che ne fu di Cassola. Cosa restò di quella relazione?
«Rimase la mia stima letteraria. Degli scrittori del Novecento ho amato Pea, Tozzi, Comisso, Tobino e Cassola».
E Bassani?
«Così così. Mi piacquero le Storie
ferraresi ».
Neppure Calvino le piacque?
«La sua scrittura precisa, ragionata, millimetrica non mi appassionava».
Ha un debole per l’aria letteraria della Versilia.
«Anche per la pittura e per i luoghi che io trovo, è scontato dirlo, bellissimi. Li ho anche raccontati nei miei romanzi. Talvolta indirettamente. Con qualche pudore e un po’ di fantasia».
Un personaggio della Versilia fu Cesare Garboli.
«Ah Cesare! Non fu un rapporto facile. Nonostante fossimo amici c’era qualcosa di irrisolto, di profondamente conflittuale tra noi».
Non è dal conflitto che nasce l’amicizia?
«Di solito è così. E lo preferisco alle finte armonie. Ma nel nostro caso la rivalità non prese mai la forma di un chiarimento. Garboli dava l’impressione costante di una recita. Quasi gli fosse naturale confondersi con la teatralità di certi personaggi che amava. Ma secondo me era un cattivo attore. C’era come una forzatura in lui. Una sovraesposizione che stonava».
Anche sul piano della scrittura?
«No, assolutamente no. Per qualche miracolosa combinazione la scrittura restituiva la parte più bella ed efficace del suo modo di stare al mondo. Quando andai a trovarlo in una clinica romana, prima che morisse, ci siamo come ritrovati. Era un uomo forte, ma ormai alla fine. Parlò faticosamente. Poi disse: “Manlio tu sai che a me piace il castagnaccino che è più morbido e sottile del castagnaccio”. Ecco, vorrei che le nostre conversazioni finissero così. Con un senso di morbido e di sottile».
In fondo Garboli è stato per la letteratura quello che Montanelli fu per il giornalismo.
«Non ci ho mai pensato. Certo Montanelli è stato un giornalista straordinario. Ma ha sempre avuto il rimpianto segreto di non essere uno scrittore vero. Era un piacere leggerlo. Ma non gli bastava».
Era una natura chiara ma esposta ad attacchi di depressione.
«Poteva sparire per mesi. Inghiottito dal male oscuro. Lo vidi in quelle condizioni una volta che andai a trovarlo nella clinica a San Rossore diretta dallo psichiatra Cassano».
Che effetto le fece?
«Sinceramente non me lo ricordo. Aveva la voce impastata. Mi colpirono le parole rallentate. Ma ne ho perso il contenuto. La mia memoria non c’è quasi più. Un tempo mi angosciavo. Oggi non me ne frega niente. I miei amici coetanei sono quasi tutti morti. Meno uno: Angelo Ponzi».
Chi è?
«Non è nessuno. Ha 94 anni. A volte capita che mi venga a trovare. Lo guardo come si guarda un oggetto che non ti appartiene. È un uomo triste, pessimista. Fu un industriale di successo. Cos’è il successo? Non è nulla il successo».
Lei ne ha avuto.
«Non mi lamento. Sono stato fortunato».
Pensa di essere un’eccezione?
«Per un’età così lunga sono un’eccezione. Mi sentivo un’eccezione anche da adolescente. Sapevo di essere veramente solo. Non avevo confidenze. Né amicizie. Detestavo i miei genitori. La mia casa. Il mio paese. Oggi so che non avrei potuto fare a meno di quelle cose. Per questo non le rinnego. Anzi. Forse le amo».