Raffaele Panizza, Wired 11/2014, 29 ottobre 2014
HOUSE OF REED
Nonostante faccia parte del club dei miliardari (smascherato da forbes, lo scorso giugno), e nonostante la sua Netflix abbia ormai totalizzato cinquanta milioni d’abbonati nel mondo. Reed Hastings si diverte a parlare una lingua poco californiana. Anti startuppara. Da buon padre di famiglia. Quasi.
Allampanato, col collo lungo e sempre un po’ arrossato, 54 anni portati senza giovanilismo e col tocco di tenerezza regalato da un discutibile gusto per le camicie fantasia e le giacche di una taglia più grandi, si diverte a filosofeggiare in modo lapalissiano. Del tipo: «Capita qualche volta che un’immensa ricchezza venga costruita in un breve lasso di tempo», ama constatare, «ma quando accade, è grazie a una dose eccezionale di fortuna. In generale, è meglio prepararsi a un immenso e faticoso lavoro. Che può, come non può, trasformarsi in un’immensa ricchezza». Figura in ascesa nella Silicon Valley, membro dal 2011 del consiglio d’amministrazione di Facebook, da qualche mese combatte una battaglia per lo più solitaria contro il potere eccessivo degli internet provider e in difesa dei diritti universali di accesso alla rete. «L’influenza di Hastings s’è estesa molto al di là della sua azienda», dice Corinne Grinapol, autrice dell’unica biografia non autorizzata esistente, «le sue idee hanno modificato il rapporto tra tecnologia e intrattenimento». Una curiosa forma di tech guru, Hastings. Analogico e virtuale allo stesso tempo. Un innovatore che non s’è inventato nulla ma allo stesso tempo è riuscito a cambiare tutto, Reed Hastings: in dieci anni, sorpassando l’idea del pay per view e aprendo agli utenti un mondo sconfinato per 8 dollari e 99 centesimi al mese, la sua Netflix è diventata la più grande piattaforma di fornitura di contenuti video in streaming del mondo. «Se tutte le case di produzione cinematografica prevedono contratti di licenza per la distribuzione online, lo si deve a lui», spiega Cliff Edwards, tecnoreporter di Bloomberg.
In Italia, dove il servizio non è ancora disponibile (in Francia, invece, è partito da poche settimane), il grande pubblico ne ha sentito parlare lo scorso aprile, quando Sky Atlantic ha annunciato la messa in onda di House of Cards, serie di culto prodotta proprio da Netflix e lanciata in America con una mossa che ha fatto scuola: tutte e tredici le puntate delle prime due stagioni rilasciate online in contemporanea, il giorno di San Valentino. «Abbiamo educato il mondo a pretendere la gratificazione istantanea dei propri desideri», ha detto Ted Sarandos, il capo dei contenuti di Hastings. In Usa, secondo dati raccolti dai fornitori di banda larga che lo amano e lo odiano allo stesso tempo, in una serata media i suoi 35 milioni di abbonati occupano più di un terzo del traffico totale di internet in downstream. Un flusso imponente di dati in alta risoluzione che Hastings lascia gestire a una cinquantina di ingegneri capitanati da Ken Florance, un vecchio hippie buddista e suonatore di sitar che tutte le mattine, scalzo, medita un’ora nel garage della sua casa di Santa Cruz prima di andare negli uffici della compagnia a Los Gatos, a trenta chilometri di distanza. Una congestione da bollino nero che ha portato grandi fornitori di connessione via cavo come Verizon, At&t, Comcast e Time Warner cable ad abbandonare il vecchio fair play legato alla libera interconnessione e al peering gratuito e a chiedere a Netflix milioni di dollari per l’utilizzo intensivo della banda. Controvoglia, appellandosi al presidente Obama e alla Federal Communications Commission affinché faccia rispettare i principi fondanti della “net neutrality”, Reed ha dovuto pagare. Ma ha iniziato il martellamento: «Bisogna impedire che questi giganti possano bloccare, rallentare o accelerare arbitrariamente il web», ha scritto sul Netflix blog, «avanti di questo passo i provider chiederanno sempre di più, penalizzando anche YouTube e Skype e obbligandoci a riversare i costi sugli utenti finali. Internet, la piattaforma principale del progresso umano, non può essere tassata».
Per accaparrarsi le simpatie popolari si è messo persino a disintegrare scientificamente la qualità del servizio offerto dai nemici: «Se uno spende 78 dollari al mese per navigare a 50 megabit al secondo, allora deve navigare a 50 megabit al secondo. Secondo le nostre rilevazioni, gli americani pagano per un servizio che non hanno». Una media di 2,23 megabit effettivi, secondo quanto pubblicato dal suo temuto Netflix Index. Meglio della Costa Rica. Ma molto peggio della Colombia, per non dire dell’Olanda o della Norvegia, altri paesi europei dove il servizio è disponibile. E per dimostrare che la banda larga è un bene inesauribile e che le restrizioni sono frutto di precise scelte industriali dei provider, si è lasciato andare a un inusuale gesto messianico. «Tutti i dati necessari a portare contenuti in super hd 4K a tutti i nostri utenti, diciamo 101,7 terabit al secondo, potrebbero scorrere lungo un cavo di fibra ottica sottile come questo», ha detto lo scorso luglio commentando i risultati finanziari dell’azienda davanti a seicento dipendenti, trattenendo tra le dita dopo averlo strappato dalla sua folta pettinatura, un capello grigio.
Nato a Boston sotto il nome di Wilmot Reed Hastings Junior l’8 ottobre 1960, cresciuto nel sobborgo di Belmont, è un tizio che quando racconta la sua vita lo fa per epifanie concatenate, macrotappe, flash dalle conseguenze sulla sua personalità non sempre decifrabili. La prima riguarda una gita di famiglia a Camp David, a 12 anni, presso la residenza estiva del presidente degli Stati Uniti, a Frederick, nel Maryland. Il padre lavora come legale presso il dipartimento per la Salute, l’Educazione e il Welfare dell’amministrazione di Richard Nixon. E così, nel corso della visita, la famiglia Hastings al completo ha la possibilità di visitare anche gli spazi più privati. Il piccolo Reed finisce nel bagno di Nixon, e ciò che registra è il gusto kitsch del presidente: «L’asse del water era color oro. Forse, era d’oro davvero». Alle superiori frequenta la Buckingham Browne & Nichols, una scuola privata di Cambridge, al termine della quale si prende un anno sabbatico per vendere porta a porta gli stracci per pavimenti Rainbow: «Pulivo il tappeto e mostravo lo sporco in più che Rainbow era in grado di raccogliere. Quello era il mio pitch di vendita». All’università sceglie un college piccolissimo, niente Mit e niente Ucla: va a studiare nella cittadina costiera di Brunswik, nel Maine, dove si laurea in matematica a Bowdoin: «Trovavo le astrazioni dei numeri beautiful and engaging». Nel college è membro dell’Outing club, che organizza attività outdoor per gli studenti, in particolare kajak e scalata. E anche qui accumula metafore letterarie: «Nel torrente, se ti concentri sui sassi, vai a sbattere. Occorre pensare solo agli spazi liberi, piuttosto». Dopo il primo anno si iscrive al campo estivo di addestramento paramilitare dell’Officer candidate school di Quantico dove però resta solo due settimane: «Avevo da dire su tutto, da come rifacevano i letti a come erano organizzate le giornate. Preferivo cogliere margherite, piuttosto che marciare». Così, subito dopo la laurea, nel 1986, parte per lo Swaziland insieme ai Peace Corps fondati da John Fitzgerald Kennedy e ci resta due anni e sette mesi, insegnando geometria ed equazioni differenziali nel Nordovest del paese, in un liceo con ottocento studenti, dormendo su un pagliericcio in una zona rurale priva di elettricità: «In quasi tre anni sono tornato a casa solo per il matrimonio di mia sorella». Nel 1986 si iscrive a un master in Computer science a Stanford e a 31 anni fonda Pure, una startup che sviluppa programmi per debuggare software dedicati ai programmatori Unix. Mette a segno una fusione con Atria e alla fine vende tutto a Rational software, nel 1997: «Più diventavamo grandi, più diventavamo burocratici», racconterà più avanti, «e io sono stato un pessimo amministratore delegato: ho tentato di licenziarmi due volte, in quegli anni». Insieme al compagno di sempre Marc Randolph, fonda Netflix il 29 agosto 1997 come servizio di noleggio dvd per posta, in un’America dove giravano quasi solo videocassette firmate Blockbuster e Wal Mart e un lettore non costava meno di 600 dollari. «L’idea è venuta mentre sistemavo casa. Ho trovato una copia di Apollo 13, che avevo noleggiato un mese prima. Dovevo pagare il ritardo, e in più andare al negozio per restituirlo. Allora mi sono detto: spediamo i dvd a casa della gente, in buste preaffrancate, ordinate comodamente su internet. Per una quota fissa mensile si può noleggiare un numero illimitato di titoli. E senza penali per il ritardo: quando restituisci il film, ti mandiamo quello nuovo». Blockbuster, che per mettere in piedi un modello di business simile ci mette anni, perde il treno dell’innovazione e va in fallimento: «Nelle riunioni aziendali ciascuno di noi era incoraggiato ad alzarsi in piedi e dire se aveva visto un nuovo Blockbuster chiuso», ricorda un dipendente. Netflix, in cinque anni, entra tra i primi dieci clienti delle poste americane con 40 centri di distribuzione, ciascuno dei quali lavorava circa 100mila dischi al giorno. Ma Hastings pensa già al passo successivo: «Chiamammo la compagnia Netflix perché sapevamo che un giorno avremmo venduto in streaming, su internet». Un’altra visione, un altro sguardo realista e magico, considerato che nel 2000 solo il 7% delle case americane possedeva una connessione in banda larga.
Oggi Netflix ha 2327 dipendenti e un fatturato di 4,3 miliardi di dollari (dati Nasdaq). Nell’ultimo anno ha totalizzato ricavi per 1,44 miliardi di dollari, superando Hbo (la casa di produzione di Game of Thrones) nel computo totale degli incassi provenienti da sottoscrizioni, e le azioni sono arrivate a costare 400 dollari l’una. Ma è sulla cultura, e non sui numeri, che Hastings sembra vincere sempre. Il documento programmatico scritto insieme all’esperta di risorse umane Patty McCord, 127 pagine in power point, per spiegare la sua filosofia aziendale e i valori della società, è già diventato virale. «Ci sono un sacco di idee strambe, lì dentro», ricorda McCord, «come quella che autorizza gli impiegati a prendersi tutte le vacanze che ritengono necessarie, senza limiti. O l’assioma che invita a tagliare le regole e assumere talenti più velocemente di quanto aumenta la complessità aziendale: la gente responsabile, questo è il presupposto, si governa da sola». Dopo averlo letto, a Facebook hanno strabuzzato gli occhi: «Questo è il documento più importante mai uscito dalla Silicon Valley», s’è sbilanciata Sheryl Sandberg, direttore operativo di Zuckerberg. Quando hanno chiesto ad Hastings se davvero a Netflix si può stare a casa quanto si vuole, lui ha risposto però col suo solito sorriso paterno; «Fino alle 48 ore di permesso all’anno, dal mio punto di vista, davvero no problem».