Pietro De Leo, Il Tempo 29/10/2014, 29 ottobre 2014
QUANDO IL COLLE FINISCE NEI PASTICCI
Nell’epoca del copia-incolla, l’ermo colle può essere spostato dall’Infinito di Leopardi al ben più materialistico Quirinale. Ermo sta per romito, lontano dai luoghi abitati. In senso figurato, anche il Quirinale lo è. Crocevia, non meno delle altre Istituzioni, di quella parte di storia sotterranea, che però a volte emerge come un fiume carsico, dirompente nella sua essenza fatta di particelle non convenzionali. Trattative invece di trattati. Dossier al posto di atti ufficiali. E così, il presidente della Repubblica, figura che una certa retorica nazional popolare vuole "garante della democrazia" diventa umano fra gli umani, semplice primus inter pares. Quanto accaduto ieri, con l’audizione di Giorgio Napolitano come persona informata sui fatti riguardo alla cosiddetta "trattativa Stato- mafia" è, in realtà, solo l’ultimo caso. Andando indietro con la memoria, il presidente Giovanni Leone fu, forse, quello che più di altri subì una radiografia mediatica ed etica che prendeva corpo, chiaro, da una operazione giudiziaria. Al centro c’era il cosiddetto scandalo Lockheed, giro internazionale di tangenti per la fornitura di aerei militari che fece scaturire inchieste monstre. Con il conseguente, enorme, battage mediatico. Giovanni Leone (anni ’70) ci finì in mezzo, quando stava al Colle, anche se le vicende oscure in cui cercarono di trascinarlo si riferivano all’epoca in cui era presidente del Consiglio. Da manuale furono l’aggressione di certa stampa e il cinismo del suo partito, la Dc, nello scaricarlo. Alla storiaccia Lockheed faceva da cornice una martellante campagna di infangamento della sua figura. Battendo il tasto su alcuni suoi tic caricaturali (aveva il vizio, da napoletano, di fare le corna), ridicolizzando alcuni comunissimi gesti umani (Camilla Cederna, giornalista, enfatizzò l’aver sentito il rumore di uno sciacquone prima che Leone entrasse nella stanza dove lei lo avrebbe intervistato), oppure tratteggiando la sua famiglia come ingombrante, e troppo disinvolta. Fatto sta che Leone si dimise, uscì pulito dalle accuse e solo il tempo gli restituì la dignità dopo una guerra condotta a colpi di detto e non detto. Che, molto prima di lui, aveva riguardato anche Giovanni Gronchi, presidenza a cavallo degli anni 50 e 60. Enrico Mattei (non il fondatore dell’Eni ma il giornalista de La Nazione ) scrisse che con Gronchi «il Quirinale diventa Palazzo», teatro di intrighi e manovre poco chiare dall’equivoca portata economica. Che Indro Montanelli denunciò in una serie di durissimi articoli sul Corriere della Sera. La presidenza Gronchi ebbe anche sfumature di rosa e di giallo. Il settimanale Abc , scriveva: «I romani parlano spesso della porticina che Gronchi ha fatto aprire su un lato del Quirinale, in via dei Giardini. Si mormora che di lì passino le amicizie femminili del presidente». Il giallo sta invece nei misteri attorn o all’archivio del Sifar, il servizio segreto militare, un monumentale schedario, a cui pare che Gronchi fosse molto affezionato, con oltre 150 mila fascicoli su politici e funzionari dell’epoca. Sempre sui servizi segreti furono gli inciampi di Oscar Luigi Scalfaro. Anni tormentati, quelli del suo settennato. Tangentopoli, lo stragismo mafioso, il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica. E lui, che fu magistrato di indubbia vocazione cattolica e ministro dell’Interno, puntò le sue fiches comunicative sull’enfasi di un solido rigore morale. D’altronde, era pur sempre uno ricordato per aver, quasi cinquant’anni prima, ripreso duramente al ristorante, davanti a tutti, una nobildonna rea di generosa scollatura. Carattere integerrimo, quindi che sfoderò quando, il 3 novembre 1993, pronunciò il fatidico «Non ci sto» a reti televisive unificate. Scalfaro rispondeva alle accuse di un ex direttore del Sisde che, arrestato in un’inchiesta di fondi neri, aveva additato l’inquilino del Colle come destinatario di cento milioni di lire al mese provenienti da un plafond riservato del servizio segreto. Tuttavia, Scalfaro terminò regolarmente il suo mandato e non fu mai messo in stato di accusa. Incriminazione che, invece, aveva evitato per un soffio il suo predecessore Francesco Cossiga. Le accuse che gli erano state mosse dalla sinistra erano due: nella prima, le sue ‘picconate’ erano identificate come dichiarazioni destabilizzanti del sistema istituzionale; l’altra accusa era relativa al ruolo strategico che Cossiga ebbe, anni prima, nell’organizzazione Gladio, la struttura paramilitare che avrebbe dovuto intervenire nel caso in cui l’Italia fosse stata invasa dalle truppe sovietiche. Nel 1984 Sandro Pertini fu ascoltato in merito ad un’inchiesta su un’ingente evasione fiscale che aveva a che fare con le politiche energetiche. Nel 2004, invece, toccò a Carlo Azeglio Ciampi. Che ricevette i magistrati a domicilio, nella tenuta di Castelporziano. L’inchiesta era quella nata sull’onda dell’acquisto di un pacchetto azionario della compagnia telefonica Telekom Serbia da parte di Telecom Italia. Ciampi depose in quanto “persona informata dei fatti”. 1984, 2004, 2014. Ci fosse ancora Leone, forse direbbe che il 4, dalle parti del Quirinale, non porta poi tanto bene.