Didier Truchot, Mente & cervello 11/2014, 29 ottobre 2014
PAZZI PER IL LAVORO
Nel mondo è una tendenza importante. In Europa il 18 per cento degli uomini e l’8 per cento delle donne lavora più di 48 ore a settimana. Negli Stati Uniti queste percentuali aumentano: il 25 per cento degli uomini e l’11 per cento delle donne lavorano oltre 50 ore a settimana. E in Giappone il 28 per cento degli individui arriva a più di 50 ore lavorative a settimana, mentre il 12 per cento supera addirittura le 60 ore.
Perché lavorare a questi ritmi? Prima di tutto per piacere, perché il lavoro permette di investire tempo ed energia su progetti condivisi e, in molti casi, l’impegno professionale diventa fonte di benessere. Un orario di lavoro molto lungo può anche rispondere a limitazioni finanziarie, ambizioni personali, pressioni organizzative o valori culturali. Ma le ore passate in ufficio, talvolta diventano una dipendenza. Si parla allora di workaholism.
Nel 1968 lo psicologo statunitense Wayne Oates fu il primo a proporre questa definizione. In un articolo intitolato On being a Workaholic, descriveva, parlando di se stesso, il suo «bisogno incontrollato di lavorare senza sosta». Oates, docente di psicologia delle religioni, aveva preso coscienza della sua dipendenza dal lavoro il giorno in cui suo figlio di cinque anni aveva dovuto prendere un appuntamento presso il suo ufficio, per parlargli di certe sue preoccupazioni.
Una vera ossessione
Oates si rese conto che la relazione che intratteneva con il lavoro aveva punti in comune con la dipendenza di un suo paziente verso l’alcool. Da cui la parola workaholism. La pubblicazione nel 1971 del suo libro intitolato Confessioni di un workaholic ha contribuito alla diffusione di questo termine e del relativo concetto nei paesi anglosassoni.
Se la dipendenza dal lavoro è sempre associata a un numero eccessivo di ore lavorate, questo solo criterio non è sufficiente per definirla. Come già accennato, differenti ragioni possono condurre all’accumulo di ore lavorate. Beninteso, i guadagni motivano sia i workaholic che i non workaholic. Ma la vera dipendenza non è motivata da ragioni esterne; ciò che la distingue è la pulsione a lavorare.
Per gli psicologi Bryan Robinson, Jane Carroll e Claudia Flowers, che hanno analizzato il fenomeno in modo dettagliato nel 2001, si tratta di «un problema compulsivo e progressivo, potenzialmente fatale, caratterizzato da esigenze autoimposte, superattività compulsiva, incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro, abuso del lavoro a esclusione e detrimento delle relazioni intime e delle attività quotidiane più importanti». Un esperto, il consulente per l’aeronautica Carl Selinger, ha proposto nel 2007 una definizione abbastanza simile: secondo lui il workaholic è «una persona che lavora a detrimento della famiglia e della vita personale. Ha la coazione a fornire sempre più lavoro».
Altri autori affermano che la dipendenza dal lavoro nasce quando una persona preferisce lavorare per evitare di pensare alla propria vita personale ed emotiva. Per gli psicologi statunitensi Kimberley Scott, Keirstein Moore e Marcia Miceli, le definizioni di workaholism contengono tre caratteristiche essenziali comuni: chi è affetto da questa dipendenza consacra molto tempo alla propria attività professionale; è preoccupato per il lavoro, anche quando non sta lavorando; lavora molto di più di quanto gli viene richiesto. Si possono quindi distinguere due componenti del workaholism: una comportamentale (lavorare eccessivamente), l’altra psicologica (essere ossessionati dal lavoro, lavorare in modo compulsivo ed essere incapaci di staccarsi dal lavoro).
È difficile per i workaholic rilassarsi durante il tempo libero, che giudicano d’altronde poco desiderabile perché si sentono colpevoli quando non lavorano. Si distaccano dall’ambiente familiare, che suscita loro tensioni emotive e mentali, mettendo in pericolo la relazione con il partner ed eventualmente con i figli. In generale questi individui vivono in una forma di isolamento sociale e hanno pochi amici.
Ma come contropartita al suo impegno almeno il workaholic è un impiegato modello? Per la verità no: lavorare troppo non è affatto associato a un rendimento elevato, ma piuttosto al suo contrario. Questo comportamento conduce infatti all’esaurimento professionale, il burnout, una sindrome che include perdita di produttività, così come distacco psicologico e comportamentale, che sfocia in trascuratezza verso il proprio lavoro e nei confronti dei colleghi.
Lo psicologo giapponese Kazumi Kubota e i suoi colleghi dell’Università di Tokyo hanno anche osservato, analizzando un campione di 1683 salariati giapponesi impiegati in diversi settori, che la dipendenza dal lavoro compromette la qualità del sonno.
Inoltre i workaholic, lontani dal rappresentare un beneficio per l’azienda in cui lavorano, sono anche un importante fattore di stress per i colleghi. Si rifiutano di delegare e svalutano gli altri, considerandoli dotati di mezzi e qualità inferiori ai loro. Questa attitudine genera spesso tensioni e conflitti all’interno dei gruppi di lavoro.
Il paradosso viene dal fatto che a volte il workaholism è incoraggiato dai superiori. Nella nostra cultura i lavoratori accaniti sono valorizzati e ricompensati, così che non solo mantengano le loro attitudini e i loro comportamenti, ma servano anche da esempio per i colleghi. Questo contesto interferisce con il riconoscimento stesso del problema.
L’impegno sul lavoro
Dopo aver detto tutto questo saremmo tentati di concludere che il workaholism è un flagello che nuoce sia agli interessi professionali che familiari. Però alcuni individui sembrano felici in questa condizione, come ha sottolineato nel 1979 la psicologa E. Cantarow, che ha descritto personalità appassionate, che si impegnano nel proprio lavoro in modo entusiastico e trovano il proprio piacere nella creatività e nella gratificazione lavorativa. Ma tutto ciò deriva da un forte impegno sul lavoro, che è molto diverso dal workaholism.
Dipendenti che lavorano duro, e sono fortemente coinvolti in quello che fanno, possono somigliare a workaholic. Tuttavia una caratteristica essenziale distingue i due gruppi. I lavoratori impegnati non presentano la pulsione caratteristica dei workaholic; se lavorano duro è perché quel che fanno li gratifica, non perché hanno una pulsione da soddisfare. Lo psicologo Wilmar Schaufeli e i suoi colleghi dell’Università di Utrecht, in Olanda, hanno fatto riempire a 587 quadri di una società di telecomunicazioni olandese un questionario contenente, fra l’altro, una misura dell’impegno professionale e una dell’eventuale dipendenza dal lavoro. I risultati mostrano che le due dimensioni essenziali dell’impegno lavorativo – vigore e devozione – sono assenti nel lavoro eccessivo e compulsivo. In effetti i due profili condividono solamente una caratteristica: l’assorbimento.
Inoltre il workaholism e l’impegno sul lavoro hanno effetti diversi sulle persone. Se il primo, come abbiamo visto, ha conseguenze dannose, il secondo si rivela benefico. Uno studio condotto da Akihito Shimazu, dell’Università di Tokyo, su un gruppo di lavoratori giapponesi, mostra che il workaholism è correlato a stress psicologico, dolori fisici, una debole soddisfazione riguardo al proprio lavoro e alla propria vita personale, così come uno scarso livello di performance professionali. Al contrario l’impegno sul lavoro è associato a un sentimento di soddisfazione sia riguardo alla vita privata che al lavoro, così come a performance elevate.
Ci si può liberare dalla morsa del workaholism? Esistono gruppi di aiuto fondati sul modello degli alcolisti anonimi, ossia i cosiddetti Workaholics Anonymous, ma la loro efficacia non è stata ancora confermata scientificamente. Un altro metodo è stato proposto da Bryan Robinson, dell’Università del North Carolina a Charlotte: secondo Robinson è fondamentale capire innanzitutto le risposte e le implicazioni affettive che caratterizzano il sistema personale del workaholic.
Poi il terapeuta affronta il modello di comunicazione che, all’interno del contesto relazionale, contribuisce a mantenere il comportamento del workaholic. Infine si aiutano familiari e amici a mettere in atto limiti riguardanti il tempo e l’investimento emotivo dedicati al lavoro. Ma anche l’efficacia di questo tipo di intervento non è ancora stata veramente studiata. Le terapie cognitivo-comportamentali sono invece molto sfruttate per uscire da questo tipo di dipendenza. E sebbene la loro efficacia terapeutica non sia ancora stata valutata per questo tipo di disturbo, conosciamo la capacità di queste tecniche di trattare altre forme di dipendenza, come quella dal gioco d’azzardo. Tuttavia, qualunque sia la terapia scelta, la più grande difficoltà deriva di solito dalla mancanza di motivazione del workaholic nel cambiare comportamento.
Riassumendo, la dipendenza dal lavoro ha effetti negativi sia per il singolo che per i suoi familiari e amici, e non apporta alcun reale vantaggio all’azienda. Al contrario i workaholic, rifiutando di delegare determinati compiti, possono provocare tensioni all’interno del gruppo di lavoro e, sprofondando progressivamente nell’esaurimento professionale, finiscono per nuocere alle performance collettiva. Le aziende che li impiegano dovrebbero dunque rivedere il proprio giudizio finale su una certa categoria di lavoratori (troppo) zelanti.