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 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

POLITICA E CAMICIA DI FORZA. GLI STRANI MATTI DEL DUCE

Claudio, «andatura lenta e dondolante, mimica abbondante, voce grossa con accento marchigiano», era un calzolaio di mezza età, con qualche trascorso penale. Schedato come repubblicano, aveva avuto una condanna a cinque mesi di carcere per le ingiurie contro Mussolini pronunciate nel 1929 in un locale pubblico e, l’anno successivo, un’altra a tre mesi e quindici giorni per offese al culto cattolico. Uscito dal carcere, nel 1932 era stato arrestato di nuovo perché, «in stato di manifesta ubriachezza», aveva urlato a un sacerdote «Abbasso i preti!» e «Abbasso il papa!». Venne processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, per «offese al Sommo Pontefice», crimine equiparato a quello di offese al re. Durante il processo, l’unica difesa di Claudio fu ammettere che era ubriaco. Il tribunale lo prosciolse «per aver commesso i fatti in stato di cronica intossicazione», ma ne ordinò il ricovero in un manicomio giudiziario per due anni: alla fine della pena venne giudicato – ormai – un pazzo pericoloso e morì in manicomio.
Nel Casellario Politico Centrale del ventennio vennero schedati 44.540 antifascisti. Molte migliaia finirono, per periodi più o meno lunghi, in prigione o al confino. Le condanne a morte eseguite per reati politici, dal 1927 (quando nacque il Tribunale speciale) al 1943, furono 53. Un dato meno noto è che 475 antifascisti – l’1,06 per cento di quelli schedati – furono sottoposti a internamento psichiatrico, ovvero chiusi in manicomio, spesso dopo il carcere o il confino, e 122 di loro non ne uscirono vivi. Quella di Claudio è una delle tante storie raccontate in I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, di Matteo Petracci (Donzelli, pagg. 238, euro 33).
Di “matti” internati nei manicomi del ventennio si è sempre parlato solo per un caso rosa-politico, a proposito del figlio di Mussolini, Benito Albino Dalser, e di sua madre Ida. Il saggio di Matteo Petracci, invece, fornisce anche un’analisi attenta su come venivano trattati i “fenomeni di devianza sociale” a partire dall’Ottocento, quando si cominciò a cercare - spesso imporre - un nesso fra malattia psichiatrica, alcolismo, «sessualità disordinata», ozio e militanza rivoluzionaria. (È uscito in questi giorni anche Crimine e Potere, di Thomas Hodgskin, a cura di Alberto Mingardi, LiberiLibri, che a metà dell’Ottocento sviluppò la tesi per cui il potere crea il crimine). E non si tratta di un fenomeno che termina con la fine della Seconda guerra mondiale, tutt’altro: secondo le testimonianze del Tribunale Sacharov sulle violazione dei diritti dell’uomo in Unione Sovietica, un sano di mente chiuso in manicomio si sentì dire, da un rappresentante del ministero dell’Interno: «Noi ti curiamo non da una malattia, ma dalle tue convinzioni». Succede in tutti i regimi dittatoriali.
Nell’800, come durante il fascismo - e non solo - era preferibile che chi andava contro il potere venisse dichiarato matto. Il manicomio comporta una squalifica intellettuale: «Ridurre a pazzo un oppositore», nota Petracci, «significava trasformare le sue idee e le sue affermazioni in deliri, ridicolizzarlo al cospetto degli altri, minarne irrimediabilmente la credibilità». Il primo teorizzatore di queste tesi fu, paradossalmente, un ebreo che venne tenuto in gran conto dal fascismo, Cesare Lombroso, il quale a fine ’800 suggeriva di evitare la condanna a morte di un delinquente politico, perché «i martiri sono venerati», mentre dei matti «si ride, ed un uomo ridicolo non è mai pericoloso». In Italia, la legge che regolava l’internamento manicomiale risaliva al 1904 e resse fino agli anni Sessanta e alla riforma Basaglia del 1978, perché era particolarmente flessibile e utile anche a colpire il dissenso. Bastava che qualcuno fosse «pericoloso a sé od agli altri», o che provocasse «pubblico scandalo» per internarlo, sulla base di un certificato medico, a tutela degli «interessi degli infermi e della società». Il regime fascista fece un uso spregiudicato della legge, a fini di bonifica sociale, tanto che i ricoverati passarono da circa 62mila nel 1927 a quasi 95mila nel 1941.
Benché Nicola Pende - il più noto firmatario del Manifesto della Razza del 1938 - abbia paragonato i devianti alla «cellula maligna di un tumore» capace di minacciare tutta la società, bisogna precisare che non è possibile alcun paragone con i metodi nazisti per difendere la razza, anche perché mentre i medici di Hitler erano una delle categorie più nazificate, quelli di Mussolini godevano di una discreta libertà di giudizio, nel caso se ne volessero valere. Tuttavia fu alto, anche se non esattamente calcolabile, il numero di alcolizzati, malati di sifilide e, persino, omosessuali mandati sbrigativamente in manicomio. E ci voleva poco a dichiarare un contestatore politico affetto da «mania politica», schizofrenia, paranoia, isterismo, depressione, dopo averlo perseguitato con pedinamenti, perquisizioni, arresti. Poi, l’inferno. Il saggio di Petracci racconta decine di storie - documentate con cartelle cliniche, atti giudiziari, memorie - con i tormenti praticati nel manicomi, spesso per crudeltà, ancora più spesso per i limiti della medicina all’epoca: così tristi e raccapriccianti che non li racconto, per non scoraggiare il lettore dall’acquisto del libro.