Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 29/10/2014, 29 ottobre 2014
ILVA, I SOLDI E I DANNI DELLA FAMIGLIA RIVA, TRA IL PROCESSO PER DISASTRO AMBIENTALE E I 5,3 MILIARDI DI EURO DI INVESTIMENTO NELL’INTERO GRUPPO. ORA CON RICAVI CROLLATI E PERDITE PER UN MILIARDO SI VA VERSO LA CESSIONE
Ilva, ultimo atto. Fra politica e magistratura. Rischio di fallimento di impresa (per ora scongiurato), responsabilità della famiglia Riva e derive (poco liberali) del diritto societario. Al commissario vanno, dunque, gli 1,2 miliardi sequestrati a Milano. Il governo - dopo due anni e mezzo di tempesta giudiziaria, leggi speciali, congelamenti industriali e shock finanziari - si appresta a vendere una impresa che non è sua. Non è tecnicamente sua, perché l’Ilva non è una impresa pubblica. Ma si comporta come se lo fosse.
La famiglia Riva, che a Taranto sta affrontando il processo madre per disastro ambientale e ha perso quello per le morti di amianto e a Milano è stata anche condannata nel procedimento sui contributi all’export per la Legge Ossola, resta comunque titolare dei diritti di proprietà di una società commissariata, ma non (almeno formalmente) espropriata.
Intanto l’impresa, uno dei perni vitali della manifattura italiana, versa in gravi difficoltà: in due anni e mezzo ha ridotto i ricavi di una quota compresa fra il 30 e il 40%, brucia cassa a bocca di barile e in tutto ha perso oltre un miliardo di euro.
Ma qual è la vera storia dell’Ilva? Vale la pena chiederselo. Adesso che, comunque sia, indietro non si torna più. Partiamo dalla fotografia di oggi, per delineare il quadro del passato e intuire quale possa essere una ipotesi di futuro. Sul fronte azionario, ci sono due manifestazioni di interesse: il gruppo Arcelor Mittal, che all’inizio è stato portato dal governo dai Riva, insieme al partner di minoranza Marcegaglia; Arvedi, con l’"attenzione" della Cassa Depositi e Prestiti. La magistratura di Taranto, intanto, è di nuovo in azione. Il gip, Patrizia Todisco, ha raccolto le analisi dei custodi giudiziali di sua nomina sullo stato di avanzamento dei lavori dell’Aia e le ha girate al capo della Procura, Franco Sebastio, sostenendo che «l’attività criminosa non si è mai interrotta».
Ieri è arrivata la decisione del gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo, sui soldi sequestrati per reati valutari e monetari ai trust di Emilio Riva (uno dei maggiori imprenditori italiani del Novecento, un uomo di 88 anni morto il 29 aprile scorso dopo un anno di arresti domiciliari e novi mesi di obbligo di dimora a Malnate, vicino a Varese) e di suo fratello Adriano. A questo punto, nulla impedirà ad Arcelor Mittal, che non voleva in alcun modo sostenere i costi dell’Aia e che dunque ha avuto in questi mesi un orecchio particolare per quanto capitava a Palazzo di Giustizia, di formulare una offerta, esito finale di un percorso di sei mesi che ha visto i suoi tecnici consultare, fin dal 2 giugno, i documenti dell’Ilva, in un crescendo di accesso alle informazioni sensibili che di solito viene riservato a chi tratta in condizioni di negoziato esclusivo, con tanto di (tanti) soldi messi sul tavolo.
Ieri, dunque, si è verificato un punto di svolta. Se il gip di Milano avesse rimandato tutto alla Corte Costituzionale, i tempi si sarebbero allungati e avrebbe preso corpo - dato che le banche, senza un impegno di un nuovo azionista, non avrebbero messo altri soldi - la possibilità di un default.
Ma che industriali sono stati i Riva? Partiamo da questa domanda. Appare utile formularla adesso che - dopo due anni di leggi speciali, commissariamenti e la loro messa fuori gioco per una sorta di "impresentabilità giudiziaria" legata a un procedimento per reati ambientali che non è ancora arrivato ai rinvii a giudizio - perseverano «le evidenti lesioni a ambiente e salute» (Patrizia Todisco dixit), mentre la fisiologia dell’impresa è così compromessa da far dire a Gnudi che "l’amministrazione straordinaria è una ipotesi". Torniamo al 1995, anno della privatizzazione e dell’avvio di una crescita che porterà il gruppo a diventare l’ottavo produttore di acciaio al mondo. «L’impianto di Taranto - ricorda Pierre Carniti, dal 1970 al 1975 a capo dei metalmeccanici della Cisl e poi segretario generale del sindacato cattolico dal 1978 al 1985 - è figlio della storia dell’industrializzazione del Paese. Una struttura economica così basata sull’automobile e sul bianco non poteva non prodursi da sola una quota dell’acciaio necessario». Siamo, dunque, nel cuore del nostro Novecento manifatturiero. «Quando i Riva acquistarono l’Ilva - ricostruisce il manager siderurgico Piero Nardi - alcuni cicli importanti di investimenti erano stati appena compiuti». Nardi, che oggi è commissario straordinario della ex Lucchini, dal 1989 al 1993 è stato chief financial officer e direttore generale dell’Ilva. «L’Altoforno 5 era stato rifatto nel 1990. I treni nastri 1 e 2 nel 1991. In tutto, fra il 1988 e il 1992, a Taranto erano stati investiti 2mila miliardi di lire», ricorda Nardi. Che aggiunge: «I Riva hanno attuato con grande abilità tre linee strategiche: da subito hanno compiuto una notevole operazione sui costi, ristrutturando gli acquisti con risparmi istantanei di 200 miliardi di lire. Poi, hanno riposizionato il mercato-prodotto: da un migliaio di prodotti, sono scesi a un centinaio di specializzazioni. Hanno avuto l’intelligenza di capire che un impianto enorme come Taranto aveva ragione di esistere solo con un aumento dei volumi. Quindi, hanno messo fuori dalla porta la politica e i partiti, che avevano mostruosamente fatto lievitare i costi del personale di staff».
Fuori le forme più deteriori della politica dall’impianto, magari nella loro versione più clientelare-collusiva, ma anche cancellazione di una mala gestio in cui perfino i fenomeni più spiccatamente malavitosi - nell’epoca antecedente all’arrivo dei Riva - avevano avuto diritto di cittadinanza all’interno del perimetro dell’acciaieria: basti pensare che, dentro alla fabbrica, prima della privatizzazione il capo della Sacra Corona Unita di Taranto, Antonio Modeo detto "il messicano", aveva con i suoi familiari e i suoi stretti "collaboratori" un ufficio dove commerciava residui ferrosi.
Sullo zoccolo del ciclo di investimenti da 2mila miliardi di lire di vecchia matrice Iri, nei loro quindici anni i Riva hanno investito a Taranto 4,4 miliardi di euro (il 25%, secondo i bilanci, per l’ambiente).
Stando alla riclassificazione dei bilanci di R&S Mediobanca, in quindici anni l’Ilva ha realizzato investimenti tecnici (nelle fabbriche, non solo a Taranto) per 5,3 miliardi di euro. Investimenti più una gestione imprenditoriale - così efficientista da essere vissuta come di una durezza ostile dalla comunità locale - hanno reso l’Ilva ben funzionante sotto il profilo industriale. L’acciaieria dei Riva ha, dunque, una natura bifronte: il distacco per la comunità locale, reso più stridente dal confronto con il ricordo di trent’anni Partecipazioni Statali "generose" fino a estremi patologici, produce fuori da essa una ostilità che, invece, fa il paio con l’efficienza gestionale interna allo stabilimento.
L’Ilva è stata sempre in linea con i maggiori gruppi mondiali: per esempio, nel 2000 il 6,4% di margine operativo lordo dell’Ilva e l’8,6% di quello di ThyssenKrupp diventano rispettivamente, nel 2005, il 14,5% e 7,7%; per uscire dall’Europa, nel 2010, il 2,5% dell’Ilva fa il paio con il 3,1% di Us Steel.
Peraltro, al di là dei bilanci, grazie alla produttività degli impianti e alla posizione logistica (il porto ha fondali profondi che possono movimentare grandi volumi sia di materie prime sia di prodotti con un numero limitato di navi), l’Ilva ha vantaggi di costo pari al 10-12% rispetto ai concorrenti europei.
Sottolinea Patrizio Bianchi, già direttore della rivista prodiana L’Industria e autore della voce Industria Siderurgica nel dizionario di Economia e Finanza della Treccani: «Il problema è che, fra il 2008 e il 2009, si è verificato un cambio di ciclo internazionale, che ha modificato gli equilibri di tutta la siderurgia italiana». Il ciclo internazionale, nel caso dell’Ilva, si è incrociato con il tema della azione della magistratura e della risposta della politica.
Secondo R&S Mediobanca, a parte il 1997 e il 2001 - esercizi in cui l’Ilva ha distribuito dividendi per 6,5 milioni di euro - negli altri dieci anni in cui ha chiuso in attivo, la società ha ottenuto risultati netti per 2,178 miliardi di euro. Utili riportati a nuovo, cioè reimmessi nell’impresa che li aveva generati. Dagli arresti del 26 luglio 2012, con i vertici aziendali prima "sorvegliati" da un garante e poi sostituiti da due commissari straordinari, l’Ilva ha perso oltre un miliardo di euro. I numeri, dunque, appaiono eloquenti.
Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 29/10/2014