Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 29 Mercoledì calendario

ARTICOLI SULLA DEPOSIZIONE DI NAPOLITANO DAI GIORNALI DEL 29/10/2014


STEFANO CAPPELLINI, IL MESSAGGERO -
La deposizione di Giorgio Napolitano al Colle «è inutile, dannosa per l’accertamento della verità». Questo giudizio non appartiene a un detrattore del processo sulla trattativa Stato-mafia, bensì ad Antonio Ingroia, il pm che il processo lo ha istruito. Per paradosso, stavolta si può essere totalmente d’accordo con Ingroia: l’udienza di ieri al Colle è stata inutile e dannosa, dato che il suo unico effetto concreto è aver permesso all’avvocato di Totò Riina di fare passerella al Quirinale e ipotizzare scenari revisionisti sulla storia d’Italia a uso e consumo del suo cliente. Naturalmente, la tesi di Ingroia è un’altra: la deposizione è inutile - così ha scritto in un lungo articolo uscito qualche giorno fa - perché sarebbero venute meno tutte le condizioni per arrivare all’accertamento dei fatti e perché non ci sarebbe la possibilità tecnica di rivolgere le giuste domande al capo dello Stato. In sostanza, in un colpo solo Ingroia ha messo le mani avanti sull’esito della deposizione, addebitando il suo più che probabile flop al lavorìo di non meglio precisati poteri forti, e sul processo tutto, offrendo la chiave di lettura che più compiace e convince i fautori di questo can can mediatico-politico.
E cioè: se dalla testimonianza di Napolitano non esce nulla non è perché nulla poteva uscirne. Al contrario, il nulla è la prova del tutto, l’evidenza che si lavora a coprire la verità. Se vi sembra assurdo che un pm, per quanto ex, ragioni con questa logica, andate a leggere cosa scrive Ingroia quando spiega quali domande avrebbe posto lui a Napolitano. Una di queste è: se il contenuto delle telefonate con l’indagato Nicola Mancino erano penalmente irrilevanti, perché Napolitano non ha fatto di tutto per renderle note e «sgombrare il campo da malignità e dietrologie»? A questo siamo: se le intercettazioni contengono notizie di reato vanno pubblicate, se non le contengono, pure. Dunque un cittadino - capo dello Stato o no - che si oppone a rendere pubbliche le sue telefonate ha qualcosa da nascondere. Una cultura del diritto raffinatissima, non c’è che dire.
In questo senso, l’aver portato il circo giudiziario al Colle ha comunque prodotto un risultato, inservibile in tribunale ma utilissimo sui media amici: si è coinvolta la prima carica dello Stato e si è gettato un seme velenoso per rafforzare, in quella parte di opinione pubblica che altro non aspetta, la convinzione che - se il Grande Processo si arenerà - non sarà per la sua inconsistenza ma a causa del muro di gomma del Palazzo.
Ci sono stati pezzi dello Stato che hanno trattato con Cosa nostra? Possibile. Ma bisognerebbe che questi pezzi fossero chiamati a rispondere davanti a ipotesi di reato chiare - non essendo ancora il reato di trattativa compreso nel codice penale - e che queste ipotesi fossero suffragate da prove. Invece la sceneggiatura del film Stato-mafia è stata redatta sulle dichiarazioni e sulle carte - il famigerato papello - fornite da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco democristiano di Palermo colluso con la mafia e surrealmente divenuto idolo di un pezzo dell’antimafia militante. Dacché Ciancimino jr è diventato il teste chiave del processo sulla trattativa è stato arrestato e indagato in altre due vicende, per una delle quali è stato appena rinviato a giudizio dalla procura di Caltanissetta con l’accusa di calunnia aggravata, per aver prodotto falsi documenti e testimonianze allo scopo di screditare l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ma diamo per buona la presunzione d’innocenza, sorvolando sui guai di questo personaggio che per anni, nei talk impegnati, è stato intervistato con il riguardo che si deve ai martiri dell’antimafia. Resta che: l’autenticità del papello, a differenza di quanto scrivono i cantori ingroiani, è tutt’altro che dimostrata, anzi nelle motivazioni della sentenza di assoluzione del generale Mori, in un altro processo molto controverso chiuso con l’assoluzione dell’imputato, i giudici attribuiscono a Ciancimino «buona predisposizione a fabbricare documenti falsi».
Le rogatorie internazionali hanno smentito Ciancimino sul luogo di custodia del papello, che il collaboratore sosteneva essere - in una delle plurime versione fornite - all’interno di una cassetta di sicurezza in Liechtenstein. I giudici della IV sezione penale di Palermo scrivono che il presunto contropapello - che secondo Ciancimino fu redatto dal padre per addolcire le richieste iniziali di Cosa nostra - è un testo incongruo e inattendibile nella datazione. Non parliamo poi del fantomatico «signor Franco», l’agente dei servizi che avrebbe fatto da tramite con la mafia e al quale Ciancimino ha attribuito svariate identità - compreso lo stesso De Gennaro - facendolo apparire e scomparire dalla scena, con un ruolo diverso a ogni nuova testimonianza, e spacciando come provenienti dall’archivio del padre documenti risultati patacche. Alla fine il «signor Franco» sarebbe stato identificato in un placido barista romano. E si potrebbe andare avanti a lungo, non trascurando nemmeno le dichiarazioni di altri pentiti, tra cui il primo ad avere parlato della trattativa, Giovanni Brusca, secondo il quale il primo punto delle richieste mafiose era la richiesta di abolizione dell’ergastolo, che nei 12 punti del papello presentato da Ciancimino non c’è.
Le indagini sulla trattativa hanno smosso titoli e attenzione su scala internazionale, ma su queste basi era inevitabile che le udienze del processo che ne è scaturito si rivelassero degne di tanto trailer. In un documentato articolo sul Foglio dell’agosto scorso Massimo Bordin ha restituito una cronaca disarmante delle udienze svolte prima della pausa estiva, lontane dal clamore mediatico: pasticci, contraddizioni, tanta fuffa, pochissima sostanza. Basti raccontare un episodio: uno dei pentiti chiamati a testimoniare dall’accusa ha prima datato il golpe Borghese al 1980 e poi, davanti all’obiezione che il tentato golpe era del 1970, ha spiegato: «Ci volevano riprovare». Borghese, nel frattempo, era morto nel 1974.
Da tempo il presunto ruolo di Napolitano in questa vicenda è diventato la cortina fumogena dietro la quale nascondere l’implosione del dossier giudiziario. Nella deposizione al Colle lo scandalo non è la presenza dei legali dei mafiosi, che hanno diritto alla difesa in tutte le fasi. Il problema è l’impianto stesso dell’accusa, la costruzione di un teorema con forti accenti dietrologici - vedremo cosa ne resterà in sentenza - dove la volontà di accertamento dei reati passa in secondo piano rispetto all’intenzione di riscrivere la verità storica del Paese, compito che dovrebbe pertenere agli storici però, non ai giudici. «Un’inchiesta giudiziaria consente di rischiarare la storia politica con mezzi coercitivi di cui gli storici non dispongono», ha detto il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, che ha ereditato da Ingroia l’accusa, svelando con parole definitive quali sono i presupposti su cui fonda l’esercizio dell’azione penale in questo dibattimento.

*****
STEFANO FOLLI, IL SOLE 24 ORE -
Alla fine la giornata è passata e le tensioni si sono sciolte. Poteva andare molto male dal punto di vista della tenuta istituzionale, ma al dunque il bandolo della matassa non è sfuggito di mano. Napolitano, per quel che si è saputo, ha risposto in modo esauriente ai quesiti, fingendo di ignorare il carattere alquanto pretestuoso dell’interrogatorio al Quirinale, quasi uno "show" mediatico volto a risollevare le sorti di un processo, quello di Palermo, il cui impianto accusatorio sembra zoppicante. Sarà un caso, ma la parola fatidica («trattativa») pare non sia mai stata pronunciata nella Sala del Bronzino. Come se nemmeno i magistrati fossero pienamente convinti di come si sono svolti i fatti vent’anni fa.


Anche la Corte ha svolto la sua parte, evitando speculazioni e in particolare il rischio che la testimonianza del presidente diventasse occasione per qualche strumentalizzazione a favore di telecamere. Queste ultime sono rimaste spente anche o soprattutto per contenere le tentazioni degli uomini di legge presenti all’udienza, peraltro parecchio affollata.
Certo, la deposizione presidenziale, sullo sfondo di un tema controverso e confuso come la relazione inammissibile fra Stato e mafia, rappresentava senza dubbio un punto critico nella nostra storia costituzionale. Ma Napolitano ne è uscito bene e con lui la solidità di quell’organo fondamentale nell’assetto dei poteri che è il Quirinale. E che tale resta anche nell’era di Renzi, un accentratore di classe tendente a ricondurre tutto a Palazzo Chigi, un passo alla volta.
Quanto poi l’assembramento di ieri sul colle sia stato utile per chiarire fatti remoti, lo vedremo più avanti. È opportuna la sollecitazione del capo dello Stato affinché le bobine registrate siano trascritte in fretta, in modo da metterle a disposizione delle parti e quindi dell’opinione pubblica. È di gran lunga meglio dissipare anche solo il sospetto che ci sia qualcosa di torbido nascosto nei palazzo romani. Tuttavia l’impressione finale è che della testimonianza di Napolitano si potesse fare tranquillamente a meno.
In fondo, chi l’ha voluta con determinazione puntava a mettere il presidente della Repubblica sul banco degli imputati, quanto meno in modo virtuale, così da innescare la miccia di una crisi drammatica. Una volta fallita l’operazione, sia per la serenità d’animo del testimone sia per la gestione dell’udienza, la deposizione in sé ha perso significato. Da quel che si capisce, nulla di nuovo è emerso che già non si sapesse: compresa l’atmosfera cupa in cui maturarono le stragi di mafia del ’92-’93, gli allarmi per la sicurezza e gli interventi da Roma per alleggerire il 41-bis, cioè il regime carcerario a cui erano sottoposti i mafiosi detenuti.
Vedremo ora che piega prenderà il processo di Palermo, una volta che i fuochi artificiali non sono stati sparati dal Quirinale perché le polveri si sono rivelate bagnate. Non ci sarebbe da meravigliarsi se piano piano i riflettori si spegnessero e il teorema venisse smontato un pezzo alla volta, come un’impalcatura rimossa alla fine del lavoro. Ieri sera solo un paio di esponenti dei Cinque Stelle lanciavano improperi contro Napolitano, accusandolo di avere «infangato le istituzioni». Il resto del mondo politico ha tirato un ovvio sospiro di sollievo. E si capisce: l’indebolimento della presidenza della Repubblica come conseguenza di un atto di forza da parte della magistratura non conviene quasi a nessuno.
Altro discorso sarà nel prossimo futuro la scelta del successore dell’attuale capo dello Stato. Napolitano, come è noto, non fa mistero della sua intenzione di lasciare all’inizio del 2015. Se sarà così, il Parlamento – questo Parlamento – dovrà eleggere una personalità il cui identikit non è ancora chiaro. A Renzi non dispiacerebbe una figura più sbiadita, sul modello del presidente federale tedesco. Tuttavia la funzione di garanzia attiva, diciamo così, svolta in questi anni dal Quirinale sembra a molti un fattore decisivo di equilibrio che è pericoloso abbandonare da un giorno all’altro. Il dilemma non sarà di facile soluzione.

*****

MICHELE BRAMBILLA, LA STAMPA -
Il Presidente della Repubblica ha dunque risposto ieri, nel tanto atteso interrogatorio al Quirinale, alle domande dei magistrati e degli avvocati impegnati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Per la precisione ha risposto a «tutte» le domande: aveva detto di non avere nulla da nascondere, e nulla ha nascosto. Va aggiunto che c’è un terzo «nulla» di cui parlare, ed è il nulla che seguirà dal punto di vista giudiziario, visto che c’era pure un quarto «nulla», e cioè il punto di partenza. Il Presidente della Repubblica - come spiega bene Francesco La Licata nella sua analisi - non sapeva e non sa alcunché su questa trattativa, ammesso che una trattativa ci sia stata e ammesso (e non concesso) che siano stati fatti regali alla mafia.
Tuttavia, al nulla che seguirà sul piano giudiziario si affiancherà purtroppo qualcosa di concreto: il fango lasciato sulle istituzioni da una campagna dissennata.
Facciamo un esempio. Pochi minuti dopo la fine della deposizione al Quirinale, molti organi di informazione stranieri hanno titolato, sui loro siti web, più o meno così: «Giorgio Napolitano ascoltato come testimone in un importante processo di mafia». Una semplificazione giornalistica, certo: ma una semplificazione alla quale i colleghi stranieri sono stati indotti dalla «Disinformatia» messa in scena qui da noi in Italia; e una semplificazione drammatica perché questo è purtroppo quel che rischia di rimanere non solo negli archivi dei giornali stranieri ma anche nella memoria di tanti italiani: che il Presidente della Repubblica è stato sentito come testimone «in un importante processo di mafia». E che magari sapeva chissà quante e quali cose che per anni ha taciuto.
Naturalmente non è così, e infatti Napolitano ieri non ha avuto alcuna difficoltà nel rispondere alle domande dei magistrati e degli avvocati. Ma chi ha messo in piedi la campagna mediatica che ha portato alla deposizione del Quirinale proprio questo si prefiggeva: insinuare sospetti, lasciare qualche macchia.
Non c’è nulla di illecito, ovviamente, in ciò che hanno fatto i giudici di Palermo, e non c’è nulla di sbagliato neppure nel tentare di approfondire - non solo nelle aule di giustizia, ma anche sui media - quello che è successo in Italia durante gli anni delle stragi mafiose. Anzi, cercare la verità è doveroso. Ma sul ruolo di Giorgio Napolitano tutto un mondo di sedicenti paladini della giustizia ha giocato una subdola campagna fatta di allusioni e sottintesi, mirando in fondo a creare confusione sulla vera veste in cui il Capo dello Stato veniva sentito dai giudici: testimone o imputato?
Parallelamente a questa campagna mediatica ne è stata portata avanti un’altra, non accessoria ma del tutto funzionale alla prima, della quale è stata indispensabile stampella. Cioè s’è detto e scritto che, mentre i pm di Palermo cercavano di scoprire le inconfessabili verità, c’era tutta una stampa di regime che quelle verità le voleva seppellire per sempre. È una tattica ormai consumata: chi la pensa diversamente da me non è, appunto, qualcuno che la pensa diversamente: è uno che la pensa come me ma non lo dice perché è un traditore dell’informazione, un prezzolato, un servo. Come si delegittima il nemico, si delegittima - e sul piano personale - anche chi il nemico non lo attacca o addirittura lo difende.
Tutto questo, insomma, è il vero lascito torbido, le vere macerie lasciate da questa campagna contro il presidente Napolitano e più in generale da campagne che in Italia si ripetono ormai da anni, promosse da gruppi che si autodefiniscono «gli onesti», «i migliori». Sono gruppi che diffondono fra gli italiani l’idea che - a parte loro, naturalmente - tutto sia marcio, tutto corrotto, tutto senza speranza. Gruppi che hanno un bisogno vitale di sempre nuovi bersagli: eliminato uno, avanti con il prossimo. E che cosa abbiano prodotto questi veleni, nella politica e nel Paese, lo vediamo ormai da anni: quali frutti e quali tribuni.

*****

MICHELE AINIS, CORRIERE DELLA SERA -


[Esplora il significato del termine: Ieri è entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012 Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare l’orologio. Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda. Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata. Perché la qualità del precedente si misura dalla sua ragionevolezza. Dipende perciò dall’attitudine a comporre istanze contrapposte, forgiando un modello cui potrà attingersi in futuro. Specie quando ogni istanza rifletta un valore costituzionale, come succede in questo caso: l’autonomia della magistratura; il diritto di difesa, che vale pure per Riina; il riserbo sulle attività informali del capo dello Stato. Ma c’è ragionevolezza nel processo di Palermo? A osservare l’aggressività dei pm, parrebbe di no; non a caso quel processo ha già innescato un conflitto fra poteri. A valutare talune decisioni del collegio giudicante, parrebbe di sì: per esempio la scelta di non ammettere in videoconferenza i boss mafiosi nel palazzo che rappresenta la Repubblica, bensì soltanto i loro difensori. E quanto è stato ragionevole l’esame testimoniale? Non lo sappiamo, bisogna attendere la diffusione del verbale. Nel frattempo girano versioni contrastanti, i presenti rilasciano interviste, le interviste inondano i tg. Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci. ] Ieri è entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012 Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare l’orologio.

Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda. Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata.

Perché la qualità del precedente si misura dalla sua ragionevolezza. Dipende perciò dall’attitudine a comporre istanze contrapposte, forgiando un modello cui potrà attingersi in futuro. Specie quando ogni istanza rifletta un valore costituzionale, come succede in questo caso: l’autonomia della magistratura; il diritto di difesa, che vale pure per Riina; il riserbo sulle attività informali del capo dello Stato. Ma c’è ragionevolezza nel processo di Palermo? A osservare l’aggressività dei pm, parrebbe di no; non a caso quel processo ha già innescato un conflitto fra poteri. A valutare talune decisioni del collegio giudicante, parrebbe di sì: per esempio la scelta di non ammettere in videoconferenza i boss mafiosi nel palazzo che rappresenta la Repubblica, bensì soltanto i loro difensori. E quanto è stato ragionevole l’esame testimoniale? Non lo sappiamo, bisogna attendere la diffusione del verbale. Nel frattempo girano versioni contrastanti, i presenti rilasciano interviste, le interviste inondano i tg. Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci.

*****
MARCO TRAVAGLIO, IL FATTO QUOTIDIANO -
Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare. Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.
L’aut aut. Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.
La lettera. Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere...”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “... (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri...”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “...quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.
Il 1992. Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.
Il 1993. Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.
Tutti sapevano. In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti.
3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.
Piste e depistaggi. Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale... del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’... Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così...
Lo sbraco. Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.

****