Stefano Rizzato, La Stampa - TuttoScienze 29/10/2014, 29 ottobre 2014
«VI SPIEGO SE E COME UCCIDERESTE L’UOMO GRASSO»
Spingere un uomo grasso giù da un cavalcavia, sui binari, per frenare un vagone impazzito e salvare cinque bambini. Sacrificare una vita per difenderne cinque, scegliere il male minore e limitare i danni. Oppure no: lasciar andare il vagone, nonostante le conseguenze. Sembra una storiella banale, ma è - di fatto - l’esempio più classico della scelta impossibile. Uno schema che ha fatto perdere il sonno a tre generazioni di filosofi morali. Tutti a chiedersi, dagli Anni 60 a oggi, quale sia la decisione giusta e cosa l’etica imporrebbe di fare.
«La risposta è che non c’è una risposta. Nemmeno le neuroscienze sono riuscite a darcene una». A dirlo è David Edmonds, professore di filosofia all’Università di Oxford e autore di «Uccideresti l’uomo grasso?» (Raffaello Cortina Editore), gustoso saggio che ripercorre la storia dei rompicapi morali. Edmonds ne parlerà venerdì prossimo al Festival della Scienza in corso a Genova. Spiegherà perché l’uomo grasso sul ponte sia il simbolo perfetto del dilemma irrisolvibile. E perché quella storiella sia tutt’altro che una questione astratta. «Dentro a quel modello - dice - c’è un mondo concreto e complesso. Nella realtà non ci sono vagoni impazziti e uomini grassi, ma si discute di aborto e tortura, di danni collaterali e tagli alla Sanità. I dilemmi etici non mancano nemmeno nella vita di tutti i giorni. E spesso restano senza una vera soluzione».
Il problema dell’uomo grasso è il laboratorio di tutti i dilemmi morali. Nel tempo è diventato persino una disciplina, chiamata «trolleology» (da «trolley», vagone). E la parabola si è arricchita di tante varianti. «È nata nel 1967, come una discussione teorica - prosegue Edmonds - ma da qualche tempo se ne occupano anche le neuroscienze. Gli esperti hanno iniziato a fare esperimenti, monitorando la reazione dei cervelli con risonanze magnetiche. Tra i neuroni il dilemma si vede ancora più chiaramente. Nel momento in cui pensiamo a spingere l’uomo grasso dal ponte, a “illuminarsi” è l’area emozionale del cervello, nella corteccia prefrontale. Quando ci chiediamo cosa sia giusto fare, è la parte razionale a entrare in gioco».
Anche alla luce della scienza è un cortocircuito senza soluzione. E allora la discussione rimane aperta e si alimenta di radici lontane. Si arriva a Kant e al suo imperativo categorico, quello di trattare gli altri «mai come mezzo, ma sempre anche come un fine». O si guarda all’utilitarismo e all’algebra morale di Jeremy Bentham, che classificava come giusto ciò che rende minimo il dolore e massimo il piacere. «C’è da tracciare un confine e bisogna farlo all’incrocio tra azioni, intenzioni e conseguenze - osserva Edmonds -. A dare ascolto agli utilitaristi spingeremmo tutti i grassi giù dai cavalcavia, come sacrificio per il bene maggiore. Ma la gente non può fare questa scelta in modo volontario e deliberato. Può accettare al massimo che ci siano danni collaterali, ma solo se non sono voluti».
L’uomo grasso può avere il volto di un terrorista da torturare, ma è anche in mezzo alla crisi economica, che costringe i governi a equilibrismi tra esigenze contrapposte. E lo schema dei dilemmi morali diventa ancora più decisivo quando si discute l’applicazione delle ultime conoscenze scientifiche. «Sappiamo che il nostro carattere è meno stabile di quanto pensassimo, che siamo influenzati da stimoli di cui nemmeno ci rendiamo conto - aggiunge -. Andiamo verso un mondo in cui non è così difficile alterare con sostanze chimiche il comportamento di individui o interi gruppi. Diffondere serotonina o ossitocina nell’aria condizionata può renderci più felici e ingenui. Per gli utilitaristi potrebbe non essere un tabù. Ma saremmo disposti ad accettarlo?».