Massimo Picozzi, Mente & cervello 11/2014, 28 ottobre 2014
STORIE DI NOBILTÀ E DI SANGUE
Nel «bel mondo», quando c’è di mezzo un delitto, non basta il solito avvocato. Per una contessa accusata di omicidio ci vuole un «principe del Foro». Cominciamo perciò da lui, da uno dei «principi».
Agli inizi del Novecento, Lorenzo Cini, redattore del quotidiano «La Stampa» scriveva: «Quando l’avvocato Vecchini parla è grande e bello. È grande, perché con poche risorse sa trarre inesplicabili effetti di persuasione, che da altri che non da lui sarebbero irraggiungibili; è bello, perché il suo gesto è largo e magnifico, perché la sua dizione è perfetta, perché egli acquista fierezza e maestà indossando la toga. Quanto solenne e grave misura di gesto, quanta correttezza e ordine nella persona che vibra tutta nell’entusiasmo della parola».
Vecchini, in realtà, l’amore per la retorica l’aveva già ai tempi del liceo. O forse prima, dato che alcuni componimenti poetici li aveva scritti alle elementari. La sua è una carriera folgorante, che lo porta, tra i tanti casi seguiti, a occuparsi di Maria Nikolaevna O’Rourke, più nota come contessa Maria Tarnowska. Anche se morirà nel 1949 in Argentina, dimenticata e sola, la sua storia ha infiammato la Belle Epoque.
Maria nasce da nobile famiglia a Kiev, nel 1877, e fin da adolescente si mostra ribelle, tanto che fugge di casa per sposare il ricco, bello e perverso conte Vassili Tarnowsky. Se Vassili colleziona amanti e indulge alla lussuria più sfrenata, anche la moglie non disdegna i piaceri della carne. Ma a Maria non basta il sesso, gode del dominio assoluto sui suoi spasimanti. Li aizza l’uno contro l’altro scatenando duelli mortali o suicidi disperati. Alla fine nemmeno il conte Vassili regge più gli intrighi della consorte, e si separa.
L’occasione della vita, quella da cui Maria si aspetta di uscire ricchissima e che invece la condannerà, arriva con i funerali di una vecchia conoscente, la moglie del conte Paolo Kamarowsky. In quell’occasione la contessa Tarnowska seduce il fresco vedovo, e dopo qualche mese lo convince a sottoscrivere una polizza a suo favore per la cifra esorbitante di 500.000 rubli.
Poi fa invaghire di sé un giovane, Nicola Naumov, tanto romantico quanto fragile, e lo persuade di essere perseguitata dal conte Kamarowski. Gli mostra persino una lettera del vedovo, in cui l’uomo le rivolge pesantissimi insulti. In realtà la missiva l’ha scritta lei stessa, ma l’inganno funziona, e Nicola parte per Venezia.
Il 4 settembre 1907, Paolo Kamarowsky fa appena in tempo ad aprire la porta che viene colto da una raffica di proiettili. Ormai morente, ha il tempo per far capire al suo carnefice che lui non ha mai molestato Maria, e che quella lettera non l’ha mai scritta. Sconvolto, Naumov capisce di essere stato ingannato, e trova il coraggio di recarsi alla polizia per confessare tutto.
L’arringa decisiva
«Lontana la vidi nell’adolescenza dolce, quando ella, a 17 anni, fioriva come una primavera odorante e gli occhi avevano tutte le luci di una notte stellata. Se ella si fosse allora imbattuta in un uomo forte, semplice, leale, che le avesse dato la mano per guidarla, le avesse fatto udire le parole del suo cuore profondo, oh come sarebbe stata diversa la sorte sua. Signori giurati, ho finito.»
Sono queste le ultime parole rivolte ai giudici dall’avvocato Arturo Vecchini, dopo quasi tre mesi di processo. Tre mesi durante i quali, ogni mattina, la contessa Tarnowska è stata prelevata dal carcere della Giudecca per essere condotta, a bordo di una gondola, in tribunale.
Intorno a questa donna dall’incedere altezzoso si sviluppa una sorta di mito, per via di quella figura slanciata con capelli ramati e occhi verdi che i rotocalchi dell’epoca definiscono «alla Tarnowska». Fuori dal tribunale sono solo insulti, ma tra i privilegiati ammessi nell’aula del dibattimento prevale un interesse un po’ morboso: in fondo, siamo negli anni in cui l’estetismo decadente di D’Annunzio fa scuola. E quando inizia a spargersi la voce delle perversioni con cui lega a sé gli uomini, i delitti della contessa sembrano finire sullo sfondo – «davvero è solita frustare i suoi amanti, costringendoli a indossare un collare da cane sotto la camicia?».
I problemi dell’avvocato Vecchini sono ben altri: riuscirà a evitare alla sua assistita una condanna esemplare?
Dopo 48 udienze, il 20 maggio Vecchini può dirsi contento della sua opera: è riuscito a instillare nei giurati il dubbio che la Tanowska non sia del tutto capace d’intendere e volere. Riconosciuta la seminfermità, la condanna è di otto anni e quattro mesi, ma lei ne sconterà solo quattro, prima d’essere rilasciata. E pian piano dimenticata.
Un nuovo caso
Tre anni appena sono passati dal processo, e di nuovo le cronache parlano di un omicidio, e di un’altra contessa come probabile assassina.
L’8 novembre 1913 l’Italia assiste a un fatto di sangue, che ha tutti gli ingredienti per appassionare tanto gli umili operai, quanto i ricchi borghesi.
Mancavano pochi minuti alle dieci del mattino, quando la moglie di un capitano dell’esercito sente bussare furiosamente alla sua porta. Nemmeno il tempo di aprire, e si trova innanzi la bellissima Maria Tiepolo, moglie di un collega del marito. La donna grida e appare sconvolta, così qualcuno si prende la briga di salire le scale per capire cosa fosse accaduto al piano superiore. A terra, in un lago di sangue, giace l’attendente del capitano Oggioni, marito di Maria Tiepolo. Una pallottola lo ha mortalmente trafitto al collo. Interrogata, Maria Tiepolo risponde: «Mi ero sentita male tutta la mattina, perché ero in stato interessante. Sentii suonare alla porta, erano circa le nove e mezzo. Mi levai di corsa: era un attendente dei cavalli, Giuseppe Volpi, che veniva a portare della roba. Presi gli oggetti e tornai a letto. E mi chiedevo perché l’attendente Polimanti fosse fuori casa, quando, inaspettatamente, lo vidi entrare nella mia camera. Egli tentò d’abbracciarmi: io mi ritrassi e mi chiusi in camera. Più tardi venne ancora a sussurrare all’uscio, chiedendomi le ordinazioni per la giornata. Non sospettavo più, ma egli, appena aprii, mi si gettò addosso mormorando frasi di passione, abbracciandomi, baciandomi a forza.
Colluttammo per un po’, spostandoci piano verso la stanza del bimbo. C’era, sul canterano, la rivoltella di mio marito. L’afferrai, la spianai per intimorirlo. Ma egli avanzò ancora e nell’agitazione, il colpo parti; vidi con terrore e orrore cadere il disgraziato».
Il potere della retorica
Legittima difesa dunque; una madre rispettabile che uccide per difendere il proprio onore. Il problema è che la procura di Oneglia, competente per territorio, sembra pensarla in modo opposto.
Il processo che si apre il 29 aprile 1914 vede contrapposti anche stavolta due «principi del Foro»: l’avvocato della vittima, Francesco Rossi, e il difensore dell’imputata, Grazio Raimondo. È quest’ultimo ad aprire le schermaglie, rivolgendosi alla corte con una denuncia terribile: «A questa povera donna, fra tutte le sue sventure, è stata riservata quella orribile di abortire in carcere, vegliata da un guardiano, e poi, all’ultima ora, quando l’emorragia dilagava, assistita da una levatrice!».
L’avvocato Raimondo non ha dubbi: oltre all’ingiustificata detenzione, l’accusa ha sulla coscienza il fardello di una gravidanza interrotta per i disagi, le paure e il disonore di vedersi confinata dietro le sbarre di un carcere. Attacca allora Francesco Rossi, rivolto a Maria Tiepolo: «Noi vi accusiamo di premeditazione. Femmina, tu non potrai avere le attenuanti, tu non avrai nessuna pietà».
Risponde Raimondo, e si capisce che non replica solo al collega che tutela la memoria della vittima, ma agli inquirenti tutti: «Avete rovistato nei tiretti nascosti di quella casa. Avete frugato vecchie carte ingiallite con pazienza da certosini, con acre zelo di padri inquisitori. Avete portato qui i segreti di questa donna. L’avete denudata, verberata al cospetto del pubblico!». Già, il pubblico. Perché non c’è dubbio che nel processo Tiepolo sia determinante stabilire in cosa consista il concetto d’onore. E ancora se Polimanti abbia meritato la morte con un comportamento censurabile, soprattutto per un militare, o viceversa sia stata la donna a spingerlo, con atteggiamenti facili e spregiudicati.
Tra testimonianze e pettegolezzi, tocca ai giurati l’ultima parola. Alle 18,35 del 2 giugno 1914, ecco il verdetto. Se Maria Tarnowska, tutto sommato, aveva ricevuto una condanna mite, alla contessa Tiepolo va ancora meglio: poco più di 30 giorni di udienze, con cinque voti a favore, quattro contrari e un’astensione, la giuria conclude che Maria Tiepolo aveva sì commesso omicidio, ma era stata costretta a uccidere per la necessità di respingere da sé una violenza minacciosa e ingiusta.
Quindi, non restava al Presidente della Corte d’Assise, che disporne l’immediata scarcerazione.